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Nullità matrimoniale: ove non sia accertata la mala fede è priva di effetti ai fini successori

Alla materia matrimoniale si applica il criterio generale di cui all'art. 1147, quarto comma, cod.civ., il quale stabilisce “La buona fede è presunta e basta che vi sia stata al tempo dell'acquisto” dovendosi - agli effetti della dichiarazione di nullità del matrimonio putativo ex art.128 cod.civ.- presumere la buona fede dei nubendi nel momento della celebrazione del matrimonio, con la conseguenza che l'onere di provare l'inefficacia del matrimonio nullo, anche sotto il profilo della putatività, e la mala fede del nubendo, incombe a colui che lo allega.

Lo stabilisce la Cassazione civile, sez. 1, ordinanza 17 gennaio 2024, n.1772.

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Nullità ecclesiastica delibazione

Dopo 10 anni dalla sentenza delle sezioni unite la direzione è la medesima per la delibazione, la convivenza come coniugi, ove protrattasi per almeno tre anni dalla celebrazione del matrimonio concordatario, integra una situazione giuridica di ''ordine pubblico italiano '', che osta alla dichiarazione di efficacia della sentenza di nullità pronunciata dal Tribunale Ecclesiastico per vizio genetico del ''matrimonio-atto''. 

Lo stabilisce la Cassazione civile, sez. I, ordinanza 10 ottobre 2023, n. 28308.

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DISTURBI DELLA SESSUALITA’ DETERMINATI DA ANORESSIA NERVOSA E BULIMIA NERVOSA NELLA GURISPRUDENZA DELLA ROTA ROMANA

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Disturbo sessuale ipoattivo: profili clinici e giuridici.

Le persone con un basso livello di desiderio sessuale (DSI) sembrano non | provare interesse nei confronti del sesso e in situazioni in cui normalmente si potrebbe provare desiderio, possono arrivare a provare sensazioni negative come irritazione, ansia o disgusto. Possono arrivare ad evitare situazioni che potrebbero metterle nelle condizioni di avere un rapporto sessuale o a ricercale per soddisfare bisogni secondari. Mettono in atto una strategia di repressione della propria carica erotica anche in situazioni sessualmente molto stimolanti. Da un punto di vista intrapsichico, il desiderio e il piacere sessuale rappresentano una minaccia, per cui la soluzione attuata rispetto.ad una situazione angosciante è cercare di non provare desiderio. Sul piano relazionale, un importante ruolo è rivestito dalla paura dell’intimità che può esser temuta tanto da bloccare ogni slancio verso di essa, per cui viene preferita l’assenza di tensione, di angoscia e di vitalità. 

A volte ciò che viene temuto è proprio il successo sentimentale per cui provare desiderio e piacere con un partner amato e stimato è considerato difficile, se non impossibile da sostenere, in quanto significherebbe doversi mettere in gioco profondamente. A volte la preoccupazione per il piacere del partner e l'incapacità di comunicare i propri bisogni conducono la persona ad evitare le sensazioni erotiche al fine di mettersi al riparo dalla frustrazione, così come il ripetersi di esperienze spiacevoli e poco gratificanti può portare a una crescente insofferenza nei confronti del rapporto sessuale.

In diversi casi sono state reperite alterazioni ormonali, quali diminuzione dei livelli di testosterone, associati a desiderio sessuale ipoattivo (DSI). Ma vi sono moltissime condizioni cliniche che possono entrare in gioco. Le cause dello scarso desiderio includono condizioni mediche croniche, farmaci, interventi chirurgici e fattori psicosociali. La perdita del desiderio può essere globale, mancando l’interesse erotico in tutte le situazioni, e può mascherare sottostanti alterazioni psicopatologiche (quali ansia, depressione, fobie, anoressia mentale, ecc.) o altri disturbi sessuali (ad es. parafilie). I soggetti non provano più attrazione per il proprio partner, adducendo le più svariate scuse per evitare l’atto sessuale e, qualora vi siano costretti, provano un senso di repulsione e di contaminazione. Il calo del desiderio si può definire clinicamente significativo, ossia un vero e proprio disturbo solo quando rispecchia determinati criteri ed è indicato come Disturbo del Desiderio Sessuale Ipoattivo (HSDD) caratterizzato dal persistente o ricorrente carenza di fantasie sessuali e del desiderio di attività sessuale. Il disturbo causa inoltre notevole disagio o difficoltà interpersonali. La diagnosi viene posta se la disfunzione non si manifesta esclusivamente durante il decorso di un altro disturbo (es: Depressione Maggiore) e non è dovuta agli effetti diretti di una sostanza (alcol, sostanze illegali, farmaci) o a condizione medica generale.

Si ha Disturbo del Desiderio Sessuale Ipoattivo (HSDD) quando il desiderio e le fantasie a sfondo sessuale appaiono assenti o diminuiti grandemente, tenuto conto dell’età e delle abitudini del soggetto. Questo disturbo è più frequente nell’uomo, ma può essere presente anche nella donna. Come nel caso di alcune altre disfunzioni, questo disturbo può persistere per tutta la vita, oppure manifestarsi solo in un certo contesto (es: con l’attuale partner).

A tal proposito il DSM-5 riconosce l’esistenza del Disturbo del Desiderio Sessuale Ipoattivo maschile (HDDS), definito dalla persistente e ricorrente assenza di pensieri e fantasie sessuali e desiderio sessuale. Per la diagnosi è necessario che i sintomi persistano per almeno sei mesi e causino disagio clinicamente significativo. L’eziologia del disturbo è di tipo multifattoriale. Disfunzioni endocrine, disturbi dell’umore, eventi di vita stressanti, l’età e stili di vita non corretti (es.: abuso di alcool) possono concorrere a determinare l'insorgenza della sintomatologia.

Il Disturbo da Desiderio Sessuale Ipoattivo può essere provocato da una serie di fattori: 

1. organici: rappresentano l’effetto secondario di farmaci (come gli antiipertensivi, gli antidepressivi, anticonvulsivanti, ecc.) e di varie patologie (per es. deficit ormonali, depressione, dipendenza da alcol o da farmaci; stati terminali, ecc.); 
2. psicologici: comprendono fattori legati all’educazione ricevuta, ai modelli di sessualità trasmessi dalla famiglia di origine, a vissuti negativi associati alla sessualità, a eventi traumatici nell’infanzia o nell’adolescenza, a un atteggiamento ambivalente verso la sessualità; 
3. di coppia: includono la noia o la mancanza di interesse e di stimoli all’interno della relazione con la partner abituale, l’inconscio rifiuto del partner, l’elevata conflittualità di coppia, le lotte di potere.

L'inibizione del desiderio è fonte di grande sofferenza per la coppia e può essere motivo di grave patologia relazionale. L'impegno riparativo può diventare faticoso e può condurre al desiderio di rompere la relazione in crisi. Talvolta la virilità è messa alla prova dalla nuova immagine femminile di una donna che spera di trovare il piacere sessuale, ponendo così l’uomo di fronte a maggiori responsabilità, a cui occhi questa donna apparirà temibile ed inibente, insaziabile e difficilmente appagabile, per cui l’unica via d’uscita resterà un'inconscia diminuzione del desiderio sessuale.

I fattori che determinano il disturbo del desiderio ipoattivo, come si è visto, sono complessi, numerosi e di diversa origine; di conseguenza la terapia deve considerare tutti questi aspetti. Per quanto riguarda la causa biologica e organica, spesso non sono evidenziati dai test in laboratorio o dagli esami medici dei disturbi particolari; è quindi bene fare un controllo del livello del testosterone, poiché è l’ormone responsabile dell’insorgenza del desiderio sessuale non solo dell’uomo ma anche della donna. La terapia cognitivo-comportamentale prevede in genere l’analisi delle varie esperienze sessuali traumatiche, il superamento delle insicurezze relative alla propria sessualità, la ristrutturazione delle relazioni familiari disturbate e la ristrutturazione di tutte le convinzioni disfunzionali relative alla propria sessualità. Durante la terapia verranno utilizzate delle strategie ulteriori, come: le tecniche di ristrutturazione cognitiva per la riduzione dell’ansia, la psicoeducazione, che analizza diverse competenze come la conoscenza dell’anatomia sessuale e il suo ciclo di risposta (ovvero le fasi del funzionamento erotico), la comprensione dei fattori psicologici e fisiologici coinvolti nel rapporto sessuale, il miglioramento della consapevolezza del proprio corpo (attraverso l’esplorazione visiva e cinestetica) e l’esame di tutte le credenze e i miti relativi al sesso; l’insegnamento di abilità sessuali, utili a produrre cambiamento e a rinnovare il rapporto di coppia per uscire dal circolo vizioso negativo; la psicoterapia di coppia, per ridurre o alleviare le aree di conflitto (come per esempio conflitti relativi a depressione o disfunzioni sessuali, difficoltà relativa all’eccitazione o al raggiungimento dell’orgasmo.

Quanto alla rilevanza, ai fini della invalidità del consenso matrimoniale, della ipoattività sessuale, deve considerarsi che essa può interessare una volontà simulatoria sotto vari aspetti. Innanzitutto, l'esclusione degli atti coniugali, o più precisamente dello jus ad copulam carnalem, può configurare un’ipotesi di simulazione totale. Si pensi, infatti, ad un coniuge che venga espressamente e direttamente escluso dall'altra parte nella sua condizione sessuale, cioè nel suo essere sessuato: si tratta di quei casi in cui uno o entrambi i contraenti si sposano ma vogliono un contenuto incompatibile con quello coniugale, estraneo ad esso ed esclusivo, che provoca l’ineluttabile esclusione della natura coniugale della cosiddetta unione. È l’ipotesi, ad esempio, di chi contragga matrimonio cercando esclusivamente un rapporto di amicizia platonica, una società professionale o economica, un’apparenza di unione ad effetti puramente sociali o documentali. Tali fattispecie sono riconducibili alla esclusione del dono e dell’accettazione della mascolinità o femminilità come specifiche dimensioni delle persone la cui complementare unità vincola il matrimonio. Si tratta di un’esclusione del vincolo coniugale per il rifiuto della sua indole sessuale e, quindi, della persona dell’altro contraente. 

In secondo luogo, l'esclusione dello jus ad copulam può configurare anche, dopo l’entrata in vigore del Codice di Diritto Canonico del 1983, un'ipotesi di simulazione per esclusione del bonum coniugum. Parte della dottrina, in proposito, sottolinea che sussiste tale fattispecie quando si rifiuta qualsiasi dovere di solidarietà, di uso e godimento comune dei beni in comunione, ovvero quando si disconosce una reciproca dignità; coniugale, anche in riferimento all’ordinato e morale esercizio della sessualità.

è ormai posizione comunemente accettata quella per cui, nelle ipotesi di incapacità previste dai tre numeri del can. 1095, non sia possibile trattare di semplice vizio del consenso, dal momento che questo risulta essere assente giacché colui che si accinge a prestare tale atto: o difetta gravemente della capacità di compiere quello che viene definito, secondo l’antropologia tomista, un atto umano (e sono questi i casi di incapacità in decernendo); ovvero non sia in grado di assumere l’obbligazione contratta, nei casi di incapacitas in adsumendo. In tali situazioni, quindi, ci si trova di fronte a fattispecie che se, da un lato, portano a dichiarare la nullità del consenso prestato sulla base dei capi di nullità sanciti nel can. 1095, dall’altro conducono anche a sostenere l’assenza dello stesso consenso per diritto naturale, dal momento che, a motivo dell’incapacità per cause di natura psichica, il contraente non pone in essere un atto nullo per il fatto che non può produrre un atto giuridico tale da dare origine al negozio matrimoniale; si arriva così al punto da ravvisare, in questi casi, un vero e proprio defectus consensus.

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Cassazione: delibabilità della sentenza di nullità ecclesiastica anche in caso di convivenza ultratriennale. Attendendo il giudizio di rinvio della Corte di Appello

La Corte di Cassazione, Sez. I, con Ordinanza n. 17910 del 01.06.2022, ha rinviato la causa alla Corte di Appello di Firenze, la quale - sulla base del principio della convivenza ultratriennale - aveva negato la delibazione di una sentenza di nullità ecclesiastica per incapacità della moglie di procreare, tenuta dolosamente nascosta dalla donna all'uomo.

Gli Ermellini hanno infatti affermato che la convivenza ultratriennale come coniugi, pur costituendo ostacolo di ordine pubblico, non osta alla dichiarazione di efficacia della sentenza ecclesiastica nel caso in cui l'ipotesi di nullità sia presente anche nell’ordinamento italiano, senza termini di decadenza o possibilità di sanatoria. 

Nel caso in esame, il Tribunale ecclesiastico aveva pronunciato la nullità per una fattispecie coincidente con la previsione di cui all’art. 122 cc., ossia l'errore essenziale sulle qualità personali, per il quale non è previsto il termine dei tre anni di convivenza ma il diverso termine di un anno dalla scoperta dell'errore.

Si attende ora l'esito del giudizio di rinvio. 

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Sexual addiction.

La sexual addiction può essere definita per via di un comportamento sessuale eccessivo e discontrollato in grado di provocare disagio soggettivo, danno sociale e lavorativo, conseguenze legali ed economiche.

Le ipotesi eziologiche più accreditate sulla sexual addiction comprendono teorie che considerano la dipendenza come un costrutto psicopatologico descrivibile in termini bio-psico-sociali. Dal punto di vista neurobiologico, alcuni studi hanno evidenziato che lesioni prefrontali e lesioni bilaterali dei lobi temporali sono associate a ipersessualità e a disinibizione comportamentale. Studi neurochimici hanno invece evidenziato durante la fase di orgasmo un'attività dell'area cerebrale attivata anche nel "rush" da eroina. Un'altra teoria invece prende in considerazione un'alterazione endocrina, con conseguente anomalia nel metabolismo degli androgeni e un ridotto controllo inibitorio sull'attività sessuale e sull'aggressività. Le teorie cognitivo-comportamentali attribuiscono un ruolo a comportamenti problematici o patologici nella famiglia d'origine dei dipendenti sessuali, in cui si ritrovano spesso atteggiamenti ambivalenti circa la sessualità, disattenzione e trascuratezza dei bisogni del bambino, abusi e/o violenza sessuale. Il trauma infantile, vuoi abuso psicologico, sessuale, fisico, maltrattamento o incuria, può determinare nella vittima una serie di sentimenti che alterano le relazioni intime e le funzioni interpersonali. Teorie psicolanalitiche mettono invece al centro della dipendenza sessuale fattori psico-evolutivi e affettivi quali la relazione madre-bambino. Una madre seduttiva o disattenta ai bisogni del bambino o con una personalità narcisistica che utilizza il bambino per i propri bisogni per le proprie emozioni può danneggiarne le funzioni interne di regolazione dell’Io e del Super-Io, alterando i processi di individuazione e di separazione e frustrandone i bisogni primari.

Quanto alle conseguenze, queste possono essere innanzitutto psicologiche. Le condizioni frequentemente associate allo sviluppo della dipendenza, ansia e depressione con scarsa autostima e senso di colpa, possono associarsi a perdita dell’interesse per altre attività e a riduzione e/o perdita del piacere per attività diverse dal sesso.

Tra le conseguenze fisiche si registra un aumento della mortalità per significativo rischio di contrarre infezioni sessualmente trasmesse, sviluppare disfunzioni sessuali (eiaculazione precoce o ritardata, anorgasmia), contrarre gravidanze indesiderate e/o a rischio, sviluppare lesioni degli organi genitali, aumento dei disturbi del sonno, irritabilità e stress psico-fisico.

Le conseguenze sociali invece riguardano essenzialmente le problematiche familiari (negligenza, trascuratezza nei confronti degli obblighi familiari, mancanza di comunicazione e di capacità di ascolto), le problematiche di coppia (incapacità di tenere fede ai propri impegni, rapporti extra-coniugali), difficoltà nelle relazioni interpersonali, isolamento emotivo e ritiro sociale.

Le conseguenze economiche invece sono collegate alle spese che riguardano direttamente il sesso e i rituali sessuali e/o le perdite economiche per problematiche lavorative. Queste ultime comprendono le difficoltà relazionali con colleghi, perdita d’interesse per l’attività lavorativa, riduzione dell’attenzione e dell’acuità mentale, della concentrazione e difficoltà a tenere fede ai propri obblighi lavorativi.

Dal punto di vista legale poi nei soggetti con comportamenti sessuali compulsivi si rileva un’elevata percentuale di reati a sfondo sessuale.

Nel campo delle cause di nullità matrimoniale e quindi del diritto canonico, la dipendenza sessuale può essere rilevante ai fini del can. 1095, 2°: la mancanza di discrezione di giudizio comporta infatti una non piena avvertenza con la quale il soggetto comprende l’oggetto matrimoniale e gli obblighi che ne derivano e una invalidità del deliberato consenso che è chiamato ad esprimere a fronte a fronte di un progetto esistenziale che lo impegna per la vita intera. Può essere anche rilevante ai fini del can. 1095, 3°, in quanto il soggetto può anche essere consapevole dei propri problemi sessuali e relazionali, comprendere pienamente l’oggetto matrimoniale ed essere sinceramente disposto a convolare a nozze con un partner liberamente scelto, tuttavia il matrimonio potrebbe essere invalido per l’incapacità da parte del soggetto dipendente di adempiere gli obblighi matrimoniali da dare e ricevere reciprocamente, tra cui l’obbligo di stabilire una relazione interpersonale tesa a realizzare il bonum coniugum e l’obbligo della fedeltà. Anche per quanto riguarda l’obbligo della procreazione e del sano allevamento della prole, si può sostenere che l’esercizio di una sessualità promiscua, disordinata e polimorfa, volta alla mera soddisfazione del piacere, è in evidente contrasto con i compiti riproduttivi ed educativi della coppia.


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Alcolismo e sessualità.

Tra le forme di dipendenza più note e che hanno segnato la vita dell'uomo fin dall'antichità vi è quella dall'alcool. La dottrina psichiatrica distingue tra intossicazione acuta da alcool (di carattere solitamente transitorio) e intossicazione cronica da alcool, tendenzialmente permanente e idonea a generare dipendenza sia fisica che psichica. In tale ultimo caso la dipendenza si manifesta come un progressivo deterioramento della personalità attraverso una serie di disturbi che prima ancora che palesarsi a livello psichico-intellettivo intaccano la vita di relazione, rendendo progressivamente evanescenti gli interessi professionali, coniugali, familiari e del soggetto. L'assunzione prolungata di alcool finisce anche per svolgere un'azione inibitoria sulla funzione sessuale, giungendo - nei casi più gravi - a produrre effetti inabilitanti.

Dal punto di vista canonico, l'alcolismo viene inquadrato entro il perimetro della previsione di cui al can. 1095, 3°, dal momento che la personalità dell'alcolista, per effetto della prolungata assunzione di alcool, subisce un progressivo deterioramento che finisce per compromettere la capacità del soggetto di adempiere alle obbligazioni essenziali della vita coniugale, tra le quali quelle attinenti al bonum coniugum, di cui la sessualità è elemento costitutivo. La possibilità di riconoscere efficacia invalidante del consenso matrimoniale alla dipendenza da alcool (solo ove tale disturbo si concreti in un deterioramento della personalità con alterazione delle funzioni psichiche) viene rimarcata dalla coram Stankiewicz del 26 giugno 1997, che riconosce l'incapacitas ad onera dell'attore a causa della sua marcata dipendenza dall'alcool, che lo aveva reso abitualmente infedele nei confronti della moglie a tal punto che questa rifiutava le intimità sessuali per paura di contrarre malattie.

La dichiarazione di nullità del matrimonio per incapacità consensuale ex can. 1095, 3° è subordinata all'accertamento che l'alcolismo cronico abbia effettivamente intaccato la personalità del nubente già al tempo del consenso nuziale. La coram Caberletti del 3 febbraio 2005 risponde infatti negativamente al dubbio concordato, in quanto dalla perizia effettuata in Rota era emersa l'assenza dei criteri clinici per affermare l'esistenza di una vera dipendenza alcolica già presente prima delle nozze ed era stato evidenziato come la causa dell'alcolismo dell'uomo andava piuttosto rintracciata nel comportamento assunto dalla donna nel corso della convivenza coniugale.

La giurisprudenza rotale si è occupata dell'alcolismo anche con riferimento all'impedimento di impotentia, evidenziando come talvolta cause esterne quali lo stato ebrietatis impediscono la volontarietà dell'atto coniugale, intesa come libera donazione di sé stesso all'altro. 

L'elaborazione giurisprudenziale sul tema dell'alcolismo correlato alla sessualità dimostra la costante attenzione dei giudici rotali verso una sempre maggiore comprensione del fenomeno e dei suoi risvolti in ambito matrimoniale. Il progresso della scienza psichiatrica ha certamente favorito l'emersione di aspetti clinici prima trascurati che impongono una verifica scrupolosa dei connotati specifici che la intossicazione alcolica assume nel singolo caso considerato. La circostanza che la dipendenza alcolica è a volte concausa di incapacità, o comunque si interseca con caratteristiche personologiche problematiche, ha spinto prudenzialmente la giurisprudenza a non assolutizzare i criteri elaborati per inquadrare il grado di intossicazione alcolica presente nel nubente al momento delle nozze, partendo dalla fondamentale premessa che l'accertamento di uno stato di alcolismo di per sé non è indice certo di incapacità del soggetto, ma richiede di essere confermato attraverso oggettivi riscontri biografici. In tale contesto ciò che rileva non è soltanto la condizione psico-fisica del nubente affetto da alcolismo — certamente imprescindibile nella valutazione del caso — ma anche e soprattutto la realtà coniugale valutata nella sua globalità e suoi aspetti essenziali.

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Discorso del Santo Padre Francesco in occasione dell'inaugurazione dell'anno giudiziario del Tribunale della Rota Romana (27 gennaio 2022).

INAUGURAZIONE DELL'ANNO GIUDIZIARIO 

DEL TRIBUNALE DELLA ROTA ROMANA

DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO

Sala Clementina
Giovedì, 27 gennaio 2022

 

Eccellenza, Cari Prelati Uditori! Rivolgo a ciascuno di voi il mio cordiale saluto, a partire dal Decano, Mons. Alejandro Arellano Cedillo, che ringrazio per le sue parole. E grazie per le ultime due cose che ha chiesto al Papa: conforto e benedizione. Mi piace. È una richiesta pastorale. Grazie. Saluto gli Officiali, gli Avvocati e gli altri collaboratori del Tribunale Apostolico della Rota Romana. A tutti formulo i migliori auguri per l’Anno giudiziario che oggi inauguriamo. Il percorso sinodale che stiamo vivendo interpella anche questo nostro incontro, perché coinvolge anche l’ambito giudiziario e la vostra missione al servizio delle famiglie, specialmente di quelle ferite, quelle bisognose del balsamo della misericordia. [1] In questo anno dedicato alla famiglia come espressione della gioia dell’amore, abbiamo oggi l’occasione di riflettere sulla sinodalità nei processi di nullità matrimoniale. Il lavoro sinodale, infatti, anche se non ha natura strettamente processuale, tuttavia va posto in dialogo con l’attività giudiziale, al fine di favorire un più generale ripensamento dell’importanza che l’esperienza del processo canonico ha per la vita dei fedeli che hanno vissuto un fallimento matrimoniale e, al tempo stesso, per l’armonia delle relazioni all’interno della comunità ecclesiale. Chiediamoci allora in che senso l’amministrazione della giustizia necessita di uno spirito sinodale. Anzitutto, la sinodalità implica il camminare insieme. Superando una visione distorta delle cause matrimoniali, come se in esse si affermassero dei meri interessi soggettivi, va riscoperto che tutti i partecipanti al processo sono chiamati a concorrere al medesimo obiettivo, quello di far risplendere la verità su un’unione concreta tra un uomo e una donna, arrivando alla conclusione sull’esistenza o meno di un vero matrimonio tra di loro. Questa visione del camminare insieme verso un fine comune non è nuova nella comprensione ecclesiale di questi processi. In proposito, è celebre il discorso alla Rota Romana nel quale il Venerabile Pio XII affermò «l’unità dello scopo, che deve dare speciale forma all’opera e alla collaborazione di tutti coloro che partecipano alla trattazione delle cause matrimoniali nei tribunali ecclesiastici di ogni grado e specie, e deve animarli e congiungerli in una medesima unità di intento e di azione». [2] In quest’ottica egli tratteggiò il compito di ogni partecipante al processo in ordine alla ricerca della verità, pur mantenendo ognuno la fedeltà al proprio ruolo. Questa verità, se davvero amata, diventa liberatrice. [3] Già nella fase pregiudiziale, quando i fedeli si trovano in difficoltà e cercano un aiuto pastorale, non può mancare lo sforzo per scoprire la verità sulla propria unione, presupposto indispensabile per poter arrivare alla guarigione delle ferite. In questa cornice si comprende quanto sia importante l’impegno per favorire il perdono e la riconciliazione tra i coniugi, e anche per convalidare eventualmente il matrimonio nullo quando ciò è possibile e prudente. Così si comprende anche che la dichiarazione di nullità non va presentata come se fosse l’unico obiettivo da raggiungere di fronte a una crisi matrimoniale, o come se ciò costituisse un diritto a prescindere dai fatti. Nel prospettare la possibile nullità è necessario far riflettere i fedeli sui motivi che li muovono a chiedere la dichiarazione di nullità del consenso matrimoniale, favorendo così un atteggiamento di accoglienza della sentenza definitiva, anche qualora essa non corrisponda alla propria convinzione. Solo in questo modo i processi di nullità sono espressione di un effettivo accompagnamento pastorale dei fedeli nelle loro crisi matrimoniali, il che significa mettersi in ascolto dello Spirito Santo che parla nella storia concreta delle persone. Due o tre anni fa abbiamo parlato del catecumenato matrimoniale. Lo stesso obiettivo di ricerca condivisa della verità deve caratterizzare ogni tappa del processo giudiziario. È vero che nel processo ha luogo, talvolta, una dialettica fra tesi contrastanti; tuttavia, il contraddittorio tra le parti dovrebbe svolgersi sempre nell’adesione sincera a ciò che per ognuno appare come vero, senza chiudersi nella propria visione, ma essendo aperti anche al contributo degli altri partecipanti al processo. La disponibilità ad offrire la propria versione soggettiva dei fatti diventa fruttuosa nel quadro di un’adeguata comunicazione con gli altri, che sa arrivare anche all’autocritica. Perciò non è ammissibile una qualsiasi volontaria alterazione o manipolazione dei fatti, volta a ottenere un risultato pragmaticamente desiderato. Qui mi fermo, e mi scuso, per dire un pericolo molto grande. Quando non si supera questo, anche gli avvocati possono fare danni terribili. Un mese fa un vescovo è venuto a lamentarsi, perché aveva un problema con un sacerdote. Un problema grave, non matrimoniale, un problema di disciplina grave che meritava di andare a giudizio. Il giudice del tribunale nazionale – non sto parlando di questo o quel paese – chiamò il vescovo e gli disse: “Ho ricevuto questo. Io farò quello che Lei mi dice. Se Lei mi dice di condannarlo, lo condanno; se Lei mi dice di assolverlo, lo assolvo”. Questo può succedere! Si può arrivare a questo se non c’è unità nei processi anche con sentenze contrastanti. Andare insieme, perché c’è in gioco il bene della Chiesa, il bene della gente! Non è un negoziato che si fa. Scusatemi, ma questo aneddoto mi ha illuminato tanto. Questo “andare insieme” nel giudizio vale per le parti e i loro patroni, per i testi chiamati a dichiarare secondo verità, per i periti che devono mettere al servizio del processo la loro scienza, nonché in modo singolare per i giudici. Infatti l’amministrazione della giustizia nella Chiesa è una manifestazione della cura delle anime, che richiede sollecitudine pastorale per essere servitori della verità salvifica e della misericordia. Questo ministerium veritatis assume un peculiare rilievo nei Vescovi, quando giudicano in prima persona, soprattutto nei processi più brevi, nonché quando esercitano la loro responsabilità nei confronti dei propri tribunali, mostrando anche così la loro sollecitudine paterna nei confronti dei fedeli. E torno su una cosa che dal primo momento ho sempre detto: il giudice originario è il vescovo. Il decano mi ha salutato dicendo: “il Papa, giudice universale di tutte…”. Ma questo è perché sono vescovo di Roma e Roma presiede tutto, non perché ho un altro titolo. Grazie di questo. Se il Papa ha questa potestà è perché è vescovo della diocesi di cui il Signore ha voluto che il vescovo fosse il Papa. Il vero e primo [giudice] è il vescovo, non il vicario giudiziale, il vescovo. La sinodalità nei processi implica un esercizio costante di ascolto. Anche in quest’ambito occorre imparare ad ascoltare, che non è semplicemente sentire. Bisogna cioè comprendere la visione e le ragioni dell’altro, quasi immedesimarsi con l’altro. Come in altri ambiti della pastorale, anche nell’attività giudiziale bisogna favorire la cultura dell’ascolto, presupposto della cultura dell’incontro. Perciò sono deleterie le risposte standard ai problemi concreti delle singole persone. Ciascuna di esse, con la sua esperienza spesso segnata dal dolore, costituisce per il giudice ecclesiastico la concreta “periferia esistenziale” da cui deve muoversi ogni azione pastorale giudiziale. Il processo richiede anche un vigile ascolto di quanto viene argomentato e dimostrato dalle parti. Particolare importanza ha l’istruttoria, volta all’accertamento dei fatti, la quale esige in chi la guida di saper coniugare la giusta professionalità con la vicinanza e l’ascolto. E questo, richiede tempo? Sì, richiede tempo. Richiede pazienza? Sì, richiede pazienza. Richiede paternità pastorale? Sì, richiede paternità pastorale. I giudici devono essere ascoltatori per eccellenza di tutto quanto è emerso nel processo a favore e contro la dichiarazione di nullità. Sono tenuti a ciò in virtù di un dovere di giustizia, animato e sostenuto dalla carità pastorale. Infatti, «la misericordia è la pienezza della giustizia e la manifestazione più luminosa della verità di Dio» (Esort. ap. postsin. Amoris laetitia, 311). Inoltre, – come avviene di regola – vi è un collegio giudicante, ogni giudice deve aprirsi alle ragioni presentate dagli altri membri per arrivare a un giudizio ponderato. In questo senso, nella vostra azione di ministri del tribunale, non deve mai mancare il cuore pastorale, lo spirito di carità e di comprensione verso le persone che soffrono per il fallimento dalla loro vita coniugale. Per acquisire un tale stile occorre evitare il vicolo cieco del giuridicismo – che è una sorta di pelagianesimo legale; non è cattolico, il giuridicismo non è cattolico –, cioè di una visione autoreferenziale della legge. La legge e il giudizio sono sempre a servizio della verità, della giustizia e della virtù evangelica della carità. Un altro aspetto della sinodalità dei processi è il discernimento. Perché il sinodo non è soltanto chiedere opinioni, non è un’inchiesta, per cui vale lo stesso quello che ognuno dice. No. Quello che uno dice entra nel discernimento. Ci vuole la capacità di discernere. E non è facile il discernimento. Si tratta di un discernimento fondato sul camminare insieme e sull’ascolto, e che permette di leggere la concreta situazione matrimoniale alla luce della Parola di Dio e del magistero della Chiesa. La decisione dei giudici appare così come un calarsi nella realtà di una vicenda vitale, per scoprire in essa l’esistenza o meno di quell’evento irrevocabile che è il valido consenso sul quale si fonda il matrimonio. Solo così si possono applicare fruttuosamente le leggi relative alle singole forme di nullità matrimoniale, in quanto espressioni della dottrina e della disciplina della Chiesa sul matrimonio. Opera qui la prudenza del diritto, nel suo classico senso di recta ratio agibilium, cioè virtù che giudica secondo ragione, ossia con rettitudine nell’ambito pratico. Tornando a quell’esempio: “Cosa vuole? Lo condanno o lo libero?”. L’esito di questo cammino è la sentenza, frutto di un attento discernimento che conduce a un’autorevole parola di verità sul vissuto personale, mettendo quindi in luce i percorsi che da lì si possono aprire. La sentenza perciò dev’essere comprensibile per le persone coinvolte: solo così si porrà come momento di speciale rilevanza nel loro cammino umano e cristiano. Cari Prelati Uditori, da queste considerazioni che mi premeva porre alla vostra attenzione emerge come la dimensione di sinodalità consenta di mettere in risalto le caratteristiche essenziali del processo. Vi incoraggio, dunque, a proseguire con fedeltà e operosità rinnovate il vostro ministero ecclesiale al servizio della giustizia, inseparabile dalla verità e, in definitiva, dalla salus animarum. Un lavoro che manifesta il volto misericordioso della Chiesa: volto materno che si china su ogni fedele per aiutarlo a fare verità su di sé, risollevandolo dalle sconfitte e dalle fatiche e invitandolo a vivere in pienezza la bellezza del Vangelo. Rinnovo a ciascuno la mia stima e la mia gratitudine. Chiedo allo Spirito Santo di accompagnare sempre la vostra attività e di cuore vi benedico. E non dimenticate di pregare. La preghiera vi accompagni sempre. “Sono indaffarato, devo fare tante cose…”. La prima cosa che devi fare è pregare. Pregare perché il Signore ti sia vicino. E anche per conoscere il cuore del Signore: lo conosciamo nella preghiera. E i giudici pregano, e devono pregare, il doppio o tre volte di più. Per favore, non dimenticatevi di pregare anche per me, si capisce. Grazie

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[1] Cfr Bolla Misericordiae Vultus, 5: AAS 107 [2015], 402.

[2] Allocuzione alla Rota Romana, 2 ottobre 1944: AAS 36 [1944], 281.

[3] Cfr Gv 8,32.

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La pedofilia nella giurisprudenza rotale.

Per pedofilia si intende la ricerca dello stimolo sessuale in maniera esclusiva o preferenziale per persone, del proprio o dell'altro sesso, non ancora genitalmente mature. E' l'espressione di uno stato di malattia o di anomalia strutturale del soggetto, ma più frequentemente è la manifestazione di una disarmonica maturazione sessuale o di una condizione di grave disagio psicoaffettivo di personalità.

Secondo la giurisprudenza rotale (Coram Jaeger, 4 giugno 2013), tale situazione comporta la nullità del matrimonio, principalmente a causa del fatto che la ricerca della soddisfazione sessuale del pedofilo è assolutamente egoistica e prevaricante, al punto da perseguire il proprio godimento sessuale sapendo di infliggere alla psicologia delicata e fragile di un minore traumi devastanti, dimostrandosi incapace di stabilire una valida e paritaria relazione affettiva/sessuale con l'altro coniuge e di assumere gli obblighi essenziali nei confronti della prole.

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L'omosessualità nella giurisprudenza rotale.

Per la prima volta l’omosessualità “comparve”, nella metà del XX secolo, come categoria diagnostica di disturbo mentale nella classificazione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), dell’International Classification of Diseases (ICD) e in quella dell’American Psychiatric Association (APA). 

Solo nei lavori di revisione del secondo Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM) che portarono alla pubblicazione del DSM-III nel 1974, l’APA iniziò l’iter di eliminazione dell’omosessualità dalla classificazione dei disturbi mentali, includendo in un’unica categoria, quella di Disturbi dell’Identità di Genere (DIG), ogni malessere persistente riguardante il proprio sesso assegnato, qualunque sia l’orientamento sessuale.

Al netto delle precisazioni di cui sopra, l'omosessualità ha tuttora - per la Chiesa - una evidente rilevanza in termini di capacità di effettuare un'adeguata e ponderata scelta matrimoniale. Secondo la giurisprudenza rotale, affinché l'omosessualità possa causare l'incapacità matrimoniale, essa, oltre che presente al tempo delle nozze, deve essere "grave", intendendosi con quest'ultimo termine una tendenza omosessuale esclusiva o preferenziale (non occasionale o transitoria), da valutarsi soprattutto tramite un perito. 

Per la Chiesa, per potersi sposare è necessaria la capacità di costruire una comunità di vita coniugale che per sua natura è eterosessuale. Entrambi i coniugi, dunque, non devono solo essere un uomo e una donna, ma ciascuno deve essere sessualmente ed affettivamente orientato verso il sesso opposto. Ciò rappresenta il presupposto perché si abbia un'autentica donazione coniugale. Per questo motivo, dal punto di vista canonico, la rilevanza incapacitante dell'omosessualità è da collocarsi sia sul piano dell'assunzione di uno o di un altro specifico dovere coniugale, sia su quello della radicale incapacità alla donazione coniugale.

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L'HIV secondo il diritto canonico.

Il virus HIV (di cui l’AIDS rappresenta l’ultima tappa), in quanto malattia sessualmente trasmissibile, ha dei rilevanti risvolti dal punto di vista della nullità matrimoniale.

Va detto, innanzitutto, che ad oggi la malattia è ancora inguaribile ma curabile, poiché si tiene sotto controllo attraverso l’assunzione di farmaci che, sebbene non eliminino il virus dall’organismo, ne impediscono la replicazione azzerando la carica virale nel sangue, al punto che, se si segue una terapia corretta, non solo non ci si ammala, ma neppure si contagia il partner in caso di rapporti sessuali non protetti.

Ci si chiede dunque se, oggi, possano considerarsi superate le riflessioni elaborate dalla dottrina in tempi in cui l’HIV comportava un rischio mortale per sé, per il partner e per la prole. 

Per quanto riguarda il vizio del consenso, se la malattia (che può avere anche pluriennale incubazione) si manifestasse nel corso della vita coniugale, la difficoltà sarà quella di indagare il tempo in cui la malattia si è originata: se la malattia si è originata dopo le nozze, ovviamente essa è irrilevante rispetto al consenso. È verosimile però assumere che chi è affetto da HIV/AIDS possa nascondere la sua condizione o fingere una inesistente guarigione al fine di celebrare le nozze, nel timore di perdere l’altro. L’inganno per azione o per omissione, affinché si configuri la fattispecie di cui al can. 1098 (consenso matrimoniale ottenuto con dolo), non deve riguardare una malattia di minore importanza, ma una malattia che, una volta emersa, possa turbare l’armonia della vita in comune. Appare oggi meno verosimile, quindi, che malattie facilmente curabili con l’assunzione di semplici cure antibiotiche possano integrare la fattispecie di cui alla norma che si è detta. Ma nel caso dell'HIV/AIDS, ci si deve chiedere se, in caso di carica virale azzerata in seguito all'assunzione dei farmaci, si sia ancora in presenza di una qualità atta a perturbare la vita coniugale. Sembra ragionevole rispondere affermativamente a causa dello stigma sociale tutt’oggi presente, dei timori che possono nascere nel l’altro, del fatto che la sieropositività è comunque ascrivibile alle malattie croniche che possono rendere più complesse situazioni di ordinaria quotidianità, dell’ansia davanti a questa malattia che può alterare la percezione della persona sana, nonostante le rassicurazioni del medico.

E' invece l'esclusione del bonus prolis (diritto/dovere alla generazione della prole) il capo di nullità maggiormente rilevato dalla giurisprudenza in caso di presenza di malattie sessualmente trasmissibili. Con specifico riferimento all'HIV/AIDS, è vero che chi si sposa escludendo la prole contrae invalidamente anche se il motivo alla base è molto grave, ma è doveroso operare dei distinguo: da un lato è necessario valutare l’esigenza di un accordo vero e sincero (che quindi escluderebbe, in via generale, sia l’imposizione unilaterale, sia l’ipotesi che la mancanza di prole possa diventare l'elemento dì criticità che fa deflagrare il coniugio) che connota l’agito di consapevolezza, libertà e rispetto reciproco, dall’altro motivazioni non egoistiche né frivole, bensì la salvaguardia di valori superiori e primari quali la vita e la salute. Se tale situazione fosse già presente prima delle nozze, i nubendi, rinviando la i prole ad un momento più favorevole in attesa di nuove scoperte e di cure adeguate, opererebbero un rinvio ad tempus della stessa e quindi una esclusione dell’esercizio del diritto e non già un’esclusione del diritto stesso, con ogni conseguenza sulla validità del vincolo.

Si può concludere, quindi, che l'HIV/AIDS si pone ancora come causa remota della nullità matrimoniale. Sebbene appaia ad oggi meno preoccupante di un tempo nei Paesi occidentali, permangono alti rischi (oltre all’ipotesi di cambio di terapia) nel caso di difetto di terapia che si verifica, da un lato, nella quota di malati “inconsapevoli” che ignorano di esser portatori sani dell’infezione, dall’altro nella diseguaglianza relativa all’accesso alle cure, che sono costose e non sempre disponibili nei Paesi a risorse limitate.

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Le associazioni ateiste sono minoranze religiose escluse?

L’odierno sistema di rapporti Stato-fenomeno religioso poggia su un assetto piramidale che genera discriminazioni di livello multiplo: tra chiesa cattolica, che gode di una posizione apicale, e tutti gli altri gruppi religiosi, tra gruppi religiosi con intesa e senza intesa (questi ultimi ancora soggetti alla legge incostituzionale n. 1159 del 1929), tra i gruppi religiosi e i gruppi atei. I non credenti rappresentano dunque, nella realtà italiana, una minoranza “esclusa”, in quanto trovano (ancora) una collocazione meramente teorica nell’ambito dell’art. 1968. Non a caso la Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 7893 del 17 aprile 202069, ha dovuto ribadire, a distanza di quarantuno anni dalla sentenza costituzionale n. 117 del 1979, che il diritto di propaganda di cui all’art. 19 Cost. deve essere riconosciuto alle convinzioni ateiste “al pari e nella stessa misura” di quelle teiste.

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Transessualismo: profili canonici.

Prima di analizzare i risvolti canonici legati alla condizione transessuale, è necessario fare qualche precisazione sui termini.
Innanzitutto, per transessualismo si intende la condizione di persona che, pur essendo di sesso anatomicamente certo, si considera appartenente all'altro sesso, del quale aspira ad assumere le caratteristiche anatomiche e comportamentali. Di conseguenza, è transessuale chi, nato e registrato anagraficamente in base alle caratteristiche fenotipiche e gonadiche che lo contraddistinguono, sente di appartenere al sesso opposto, al punto che desidera acquisirne le sembianze. Per transgender, invece, si intende chi non si riconosce in quello che si ritiene essere lo stereotipo del maschile o femminile.

Fatte queste dovute precisazioni, prendiamo ora in esame, dal punto di vista del diritto canonico, alcune implicazioni proprie delle persone che versano nella condizione transessuale.

Dal punto di vista antropologico, le teorie gender si basano su un concetto di persona che, pretendendo di scollare l'identità sessuale dal dato biologico, crea una dicotomia tra il dato corporeo e il sentire psicologico e sociale, affermando il dominio del sentire dell'individuo e sottostimando e reprimendo il dato corporeo, sino ad eliminarlo attraverso interventi chirurgici. Per la Chiesa, invece, la persona umana è da considerarsi nella sua unitarietà, soggetto il cui sesso biologico è inscindibile dal ruolo socioculturale del sesso. Ciò posto, per quanto riguarda il matrimonio canonico, la donazione di sé propria di questo istituto/sacramento comporta l'unitarietà della persona di ciascun nubente in tutte le sue componenti, non essendo possibile separare una donazione di sé a livello spirituale, psicologico, sociale dal dato corporeo. 

Entrando più nello specifico, occorre fare alcune distinzioni per capire se la Chiesa può concludere per l'amissione al matrimonio o per la dichiarazione di nullità. Nel caso in cui la persona che chiede l'ammissione al matrimonio si è sottoposta ad un intervento chirurgico di riattribuzione del sesso, si avrebbe, di fatto, un matrimonio tra due persone appartenenti allo stesso sesso (dal punto di vista cromosomico) e quindi la richiesta, per la Chiesa, è inammissibile. Il matrimonio canonico infatti prevede una unione coniugale tra un uomo e una donna. Nel caso in cui invece il richiedente non si è sottoposto ad un intervento chirurgico di riattribuzione del sesso, la richiesta deve essere attentamente soppesata dal parroco. Qualora non si ravvisino evidenze di transessualismo a livello fisico e comportamentale e non pervengano informazioni da parte dell'interessato o da terzi, il richiedente sarà ammesso al matrimonio. Viceversa, il parroco sarà tenuto ad accertarsi durante le investigazioni prematrimoniali e durante l'esame dei fidanzati riguardo l'ammissibilità del richiedente al matrimonio. Il parroco, ad ogni modo, non potrà rifiutare il matrimonio se non vi sono riscontri oggettivi alla possibile invalidità del medesimo.

Discorso analogo va fatto in caso di nozze già celebrate. Prima di concludere per la dichiarazione di nullità, occorrerà considerare lo stadio della condizione di transessuale in cui versava uno dei due contraenti o ambedue.


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Messaggio del Santo Padre Francesco alla Sessione della Conferenza delle Parti alla Convenzione-Quadro dell’ONU sui cambiamenti climatici (COP26) a Glasgow.

MESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO ALLA COP26

A Sua Eccellenza Sig. Alok Sharma
Presidente della COP26, ventiseiesima sessione della Conferenza degli Stati Parte alla
Convenzione-Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici

(Glasgow, 31 ottobre – 12 novembre 2021)

 

Eccellenza,

Mentre inizia la Conferenza di Glasgow, siamo tutti consapevoli che essa ha l’importante compito di mostrare all’intera comunità internazionale se realmente sussiste la volontà politica di destinare con onestà, responsabilità e coraggio maggiori risorse umane, finanziarie e tecnologiche per mitigare gli effetti negativi del cambiamento climatico così come per aiutare le popolazioni più povere e vulnerabili, che sono quelle che ne soffrono maggiormente.

Ma, davanti a noi, vi è di più: questo compito dovrà, infatti, essere svolto nel pieno di una pandemia che da quasi due anni sta flagellando la nostra umanità. Accanto ai vari drammi che ha portato il Covid-19, la pandemia ci insegna anche che non abbiamo alternative: riusciremo a sconfiggerla solo se tutti quanti prenderemo parte a questa sfida. Tutto ciò, lo sappiamo bene, richiede una profonda e solidale collaborazione tra tutti i popoli del mondo.

Vi è stato un prima della pandemia; esso sarà inevitabilmente differente dal dopo-pandemia che dobbiamo costruire, insieme, prendendo spunto dagli errori fatti nel passato.

Analogo discorso è possibile farlo nel contrastare il problema globale del cambiamento climatico. Non abbiamo alternative. Possiamo conseguire gli obiettivi scritti nell’Accordo di Parigi solo se si agirà in maniera coordinata e responsabile. Sono obiettivi ambiziosi, ma indifferibili. Oggi queste decisioni spettano a voi.

La COP26 può e deve contribuire attivamente a questa coscienziosa costruzione di un futuro dove i comportamenti quotidiani e gli investimenti economico-finanziari possano realmente salvaguardare le condizioni di una vita degna dell’umanità di oggi e di domani in un pianeta “sano”. 

Si tratta di un cambiamento d’epoca, di una sfida di civiltà per la quale vi è bisogno dell’impegno di tutti ed in particolare dei Paesi con maggiori capacità, che devono assumere un ruolo guida nel campo della finanza climatica, della decarbonizzazione del sistema economico e della vita delle persone, della promozione di un’economia circolare, del sostegno ai Paesi più vulnerabili per le attività di adattamento agli impatti del cambiamento climatico e di risposta alle perdite e ai danni derivanti da tale fenomeno.

Da parte sua la Santa Sede, come ho indicato all’High Level Virtual Climate Ambition Summit del 12 dicembre 2020, ha adottato una strategia di riduzione a zero delle emissioni nette (net-zero emission) che si muove su due piani: 1) l’impegno dello Stato della Città del Vaticano a conseguire questo obiettivo entro il 2050; 2) l’impegno della Santa Sede stessa a promuovere un’educazione all’ecologia integrale, ben consapevole che le misure politiche, tecniche ed operative devono unirsi a un processo educativo che, anche e soprattutto tra i giovani, promuova nuovi stili di vita e favorisca un modello culturale di sviluppo e di sostenibilità incentrato sulla fraternità e sull’alleanza tra l’essere umano e l’ambiente naturale. Da questi impegni sono nate migliaia di iniziative in tutto il mondo.

Anche in questa prospettiva il 4 ottobre scorso, ho avuto il piacere di riunirmi con vari leader religiosi e scienziati per firmare un Appello congiunto in vista della COP-26. In quell’occasione, abbiamo sentito voci di rappresentanti di tante fedi e tradizioni spirituali, di tante culture e ambiti scientifici. Voci differenti e con diverse sensibilità. Ma ciò che si è potuto avvertire chiaramente era una forte convergenza di tutti nell’impegnarsi di fronte all’urgente necessità di avviare un cambiamento di rotta capace di passare con decisione e convinzione dalla “cultura dello scarto” prevalente nella nostra società a una “cultura della cura” della nostra casa comune e di coloro che vi abitano o vi abiteranno.

La ferite portate all’umanità dalla pandemia da Covid-19 e dal fenomeno del cambiamento climatico sono paragonabili a quelle derivanti da un conflitto globale. Così come all’indomani della seconda guerra mondiale, è necessario che oggi l’intera comunità internazionale metta come priorità l’attuazione di azioni collegiali, solidali e lungimiranti.

Abbiamo bisogno di speranza e di coraggio. L’umanità ha i mezzi per affrontare questa trasformazione che richiede una vera e propria conversione, individuale ma anche comunitaria, e la decisa volontà di intraprendere questo cammino. Si tratta della transizione verso un modello di sviluppo più integrale e integrante, fondato sulla solidarietà e sulla responsabilità; una transizione durante la quale andranno considerati attentamente anche gli effetti che essa avrà sul mondo del lavoro.

In tale prospettiva, particolare cura va rivolta alle popolazioni più vulnerabili, verso le quali è stato maturato un “debito ecologico”, connesso sia a squilibri commerciali con conseguenze in ambito ambientale, sia all’uso sproporzionato delle risorse naturali del proprio e di altri Paesi. Non possiamo negarlo.

Il “debito ecologico” richiama, per certi versi, la questione del debito estero, la cui pressione ostacola spesso lo sviluppo dei popoli. Il post-pandemia può e deve ripartire tenendo in considerazione tutti questi aspetti, collegati anche con l’avvio di attente procedure negoziate di condono del debito estero associate a una strutturazione economica più sostenibile e giusta, volto a sostenere l’emergenza climatica. È «necessario che i Paesi sviluppati contribuiscano a risolvere il debito [ecologico] limitando in modo importante il consumo di energia non rinnovabile, e apportando risorse ai Paesi più bisognosi per promuovere politiche e programmi di sviluppo sostenibile». Uno sviluppo a cui, finalmente, possano partecipare tutti.

Purtroppo dobbiamo constatare amaramente come siamo lontani dal raggiungere gli obiettivi desiderati per contrastare il cambiamento climatico. Va detto con onestà: non ce lo possiamo permettere! In vari momenti, in vista della COP26, è emerso con chiarezza che non c’è più tempo per aspettare; sono troppi, ormai, i volti umani sofferenti di questa crisi climatica: oltre ai suoi sempre più frequenti e intensi impatti sulla vita quotidiana di numerose persone, soprattutto delle popolazioni più vulnerabili, ci si rende conto che essa è diventata anche una crisi dei diritti dei bambini e che, nel breve futuro, i migranti ambientali saranno più numerosi dei profughi dei conflitti. Bisogna agire con urgenza, coraggio e responsabilità. Agire anche per preparare un futuro nel quale l’umanità sia in grado di prendersi cura di sé stessa e della natura.

I giovani, che in questi ultimi anni ci chiedono con insistenza di agire, non avranno un pianeta diverso da quello che noi lasciamo a loro, da quello che potranno ricevere in funzione delle nostre scelte concrete di oggi. Questo è il momento della decisione che dia loro motivi di fiducia nel futuro.

Avrei voluto essere presente con voi, ma non è stato possibile. Vi accompagno però, con la preghiera in queste importanti scelte.

Riceva, Signor Presidente, il mio più sentito e cordiale saluto.

Dal Vaticano, 29 ottobre 2021.

Francesco

 

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Il riconoscimento dell’efficacia della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio religioso e il giudicato della sentenza non definitiva sullo status.

Secondo la Cassazione, il riconoscimento dell’efficacia della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio religioso, intervenuto dopo il passaggio in giudicato della pronuncia di cessazione degli effetti civili (sentenza non definitiva sullo status) ma prima che sia divenuta definitiva la decisione in ordine alle relative conseguenze economiche, non comporta la cessazione della materia del contendere nel giudizio di divorzio, che può dunque proseguire ai fini dell’accertamento della spettanza e della liquidazione dell’assegno divorzile. 

(Cass. civ. Sez. Unite, Sent., (ud. 01/12/2020) 31-03-2021, n. 9004)

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Delibazione di sentenza ecclesiastica e indissolubilità del matrimonio.

Perché sia dichiarata l'efficacia civile delle nullità matrimoniali pronunciate dai Tribunali della Chiesa Cattolica, occorre che la Corte d'Appello accerti "che ricorrono le altre condizioni richieste dalla legislazione italiana per la dichiarazione di efficacia delle sentenze straniere" (lett. c). Il rinvio è, come già detto, agli artt. 796 e 797 del codice di procedura civile. Orbene l'ultimo punto dell'art. 797 c.p.c. richiede che la sentenza da delibare, nel caso di specie la pronuncia canonica di nullità matrimoniale, non contenga "disposizioni contrarie all'ordine pubblico italiano". La Corte costituzionale nella citata sentenza n. 18 del 1982 ha definito l'ordine pubblico come l'insieme delle "regole fondamentali poste dalla Costituzione e dalle leggi a base degli istituti giuridici in cui si articola l'ordinamento positivo nel suo perenne adeguarsi all'evoluzione della società". Orbene non potranno essere delibate sentenze che dichiarino l'invalidità del vincolo per impedimenti tipicamente confessionali, in cui la nullità deriva dall'esistenza di situazioni del tutto peculiari che non trovano alcun riscontro nell'ordinamento civile, quali la disparità di religione, l'ordine sacro e il voto pubblico di castità. La giurisprudenza di legittimità inoltre, a partire dalla sentenza 1° ottobre 1982 n. 5026, pronunciata a sezioni unite, con orientamento ormai consolidato, ascrive la buona fede nel novero dei principi di ordine pubblico la cui tutela è imprescindibile e inderogabile in materia matrimoniale (Nel caso di specie, la nullità è pronunciata perché la parte non aderisce ad una delle condizioni richieste per la validità del matrimonio cattolico vi è la necessità della conoscenza o conoscibilità dell'apposizione di tale elemento accidentale da parte dell'altro nubendo. Appare, quindi, in contrasto assoluto con il nostro ordine pubblico interno la rilevanza, data in sede canonica, alla nullità del matrimonio, perché l'odierno ricorrente lo riteneva non indissolubile, sul presupposto della necessità di tutelare l'affidamento che l'altra parte, ignara delle altrui intenzioni escludenti, abbia riposto sulla validità del vincolo coniugale).

(Corte d'Appello Napoli Sez. minori, 24/11/2020)

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No alla dichiarazione di efficacia della sentenza di nullità pronunciata dal tribunale ecclesiastico se il matrimonio è durato oltre tre anni.

La Cassazione Civile, sez. I, con ordinanza del 13 gennaio 2021, n. 367, ha ribadito il principio già affermato dalla sentenza n. 16379 del 17/07/2014 a Sezioni unite della stessa Corte in materia di delibazione di sentenze di nullità matrimoniale emesse da Tribunali ecclesiastici, secondo la quale "..la convivenza "come coniugi", quale elemento essenziale del "matrimonio-rapporto", ove protrattasi per almeno tre anni dalla celebrazione del matrimonio concordatario, integra una situazione giuridica di "ordine pubblico italiano", la cui inderogabile tutela trova fondamento nei principi supremi di sovranità e di laicità dello Stato, già affermato dalla Corte costituzionale con le sentenze n. 18 del 1982 e n. 203 del 1989, ostativa alla dichiarazione di efficacia della sentenza di nullità pronunciata dal tribunale ecclesiastico per qualsiasi vizio genetico del "matrimonio-atto".

(Cass. civ. Sez. I, Ord., (ud. 16/09/2020) 13-01-2021, n. 367)

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L'appello nel nuovo processo matrimoniale: regole generali.

Con la riforma del processo matrimoniale voluta da Papa Francesco e attuata con il motu proprio Mitis Iudex sono state apportate diverse e significative modifiche, che possono essere così sintetizzate:

a) Le disposizioni del motu proprio concernenti specificamente l'appello si applicano alle sentenze che hanno dichiarato la nullità del matrimonio, ossia alle sentenze affermative;

b) le sentenze negative, che hanno confermato la validità del matrimonio, sono soggette al regime previsto, più in generale, per le cause sullo stato delle persone; 

c ) Le regole procedurali previste dal canone 1680 § 2 per addivenire alla decisione preliminare sull'ammissibilità dell'appello si applicano alle sole sentenze affermative; 

d) Fermo restando il principio che le sentenze in materia matrimoniale, siano esse affermative o negative, non passano in giudicato, soltanto per le sentenze affermative vale la regola che anche un’unica sentenza di nullità, purché dichiarata esecutiva, può essere ritrattata soltanto in presenza dei requisiti e con le procedure specificamente previsti per la NCP (nova causa proposito);

e) Per le sentenze negative la NCP è invece esperibile soltanto quando vi siano due sentenze conformi. Nei confronti di un'unica sentenza rimane inalterata la possibilità di richiedere una trattazione in sede di appello presso il tribunale superiore, non essendo considerati perentori i termini e gli adempimenti previsti in via generale per questo tipo di impugnazione.

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L’appello dopo la riforma del processo matrimoniale.

Con la riforma del processo matrimoniale attuata da Francesco con il motu proprio Mitis Iudex Dominus Iesus del 15 agosto 2015, una delle novità più importanti e degne di nota è, senza dubbio, l'abolizione dell'obbligo della doppia sentenza conforme. La sentenza che dichiarava la nullità del matrimonio diventava infatti esecutiva e pienamente produttiva di effetti giuridici soltanto se confermata da una successiva pronuncia di un tribunale di istanza superiore, avente a oggetto lo stesso capo di nullità. Secondo il can. 1679, ora "La sentenza che per la prima volta ha dichiarato la nullità del matrimonio, decorsi i termini stabiliti nei cann. 1630-1633, diventa esecutiva".

Abolita la doppia sentenza conforme, il Legislatore ha poi riformato la disciplina riguardante la trattazione della causa in appello. Al fine di favorire la celerità dei processi, si sono previste alcune limitazioni al diritto di appello, con la predisposizione di un qualche filtro che non consentisse il riesame della causa per motivi meramente pretestuosi, senza la sussistenza di un serio fondamento. È stata così stabilita la reiezione in via preliminare dell’appello, da parte del tribunale da esso investito, allorché tale appello risulti con evidenza meramente dilatorio (il can. 1680 § 2 così recita: "Decorsi i termini stabiliti dal diritto per l’appello e la sua prosecuzione, dopo che il tribunale di istanza superiore ha ricevuto gli atti giudiziari, si costituisca il collegio dei giudici, si designi il difensore del vincolo e le parti vengano ammonite a presentare le osservazioni entro un termine prestabilito; trascorso tale termine, il tribunale collegiale, se l’appello risulta manifestamente dilatorio, confermi con proprio decreto la sentenza di prima istanza").

Infine, con il nuovo regime è stato espressamente previsto che avverso una sentenza esecutiva, una volta venuta meno la possibilità di appello, è sempre possibile ricorrere al tribunale superiore, instaurando una NCP (nova causae propositiosecondo le regole generali già fissate per questo particolare tipo di riesame (can. 1681). Il tribunale competente è, in ogni caso, quello di terzo grado, ossia la Rota Romana o uno di quei tribunali abilitati a trattare le cause in terzo grado.

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Nell'ambito del progetto educativo del figlio, il genitore deve essere tollerante nei confronti della religione dell'altro.

Con decisione del 9 luglio 2020, il Tribunale di Pesaro ha accolto la richiesta della madre di modifica delle condizioni di affidamento della figlia minore, con particolare riguardo al divieto a lei imposto di fare frequentare alla figlia, che aveva praticato sin da piccola la religione Cattolica, le riunioni e le adunanze dei Testimoni di Geova. Il Giudice ha sottolineato che ciascun genitore dovrà rispettare il credo dell'altro genitore, permettendo e non impedendo al figlio minore non solamente di praticare e frequentare le celebrazioni religiose dell'altro genitore, ma anche tutte quelle tradizioni ed attività, direttamente o indirettamente legati alla religione di ciascun, genitore, anche se in contrasto con i principi della propria religione, come, a titolo meramente esemplificativo, feste, compleanni e recite scolastiche.

(Tribunale Pesaro, 09/07/2020)

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Culturally motivated crimes.

In una società multiculturale in cui si fanno sempre più stretti i rapporti fra gli esseri umani di cultura e religione diverse, assume sempre più rilevanza il tema dei reati cosiddetti religiosamente motivati, fattispecie in cui la motivazione cultural-religiosa che spinge l’autore alla loro commissione assume (o può assumere) un qualche rilievo ai fini della loro giuridica configurabilità.
Nello spazio giuridico europeo approdano individui provenienti da luoghi lontani e portatori delle culture più diversificate. Modi di fare, abitudini, credenze, osservanza dei precetti, giuridici ed extragiuridici, si mescolano e spesso si scontrano con l’impianto regolamentare del Paese di arrivo, mettendo in crisi le tradizionali categorie del diritto e, con maggiore sensibilità, quelle del diritto penale. Ci si chiede, infatti, in che termini la salvaguardia della diversità culturale degli immigrati possa trovare una sua legittimazione e, in particolare, quale sia il limite entro cui valorizzare il background culturale dell’agente, legittimando l’esercizio al suo diritto all’identità e alla libertà religiosa, laddove integrante una serie di fattispecie di reato, quali violenze in famiglia, reati contro la libertà sessuale o la persona, reati di riduzione in schiavitù o mutilazioni rituali.
Il legislatore, nei diversi livelli di intervento, è chiamato a fornire risposte adeguate alla mutata compagine sociale e affrontare lo scenario multireligioso, utilizzando tutti gli strumenti a disposizione, in chiave preventiva, repressiva e attraverso politiche e strategie di inclusione.
Il metodo di mediazione interculturale, sensibilizzando gli individui più vulnerabili alla consapevolezza su contenuti e limiti di esercizio dei diritti fondamentali e arginando il rischio che condotte legate a una mal interpretazione di tradizioni religiose possano rovinosamente impattare sulla tutela degli stessi diritti costituzionali, rappresenta anche un’opportunità per il Paese ospitante di conoscere e accogliere la cultura di alcune comunità.


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Il rapporto tra la Chiesa Cattolica e lo Stato italiano nella lotta al coronavirus, tra libertà di culto e diritto alla salute.

L’emergenza sanitaria che interessa il nostro Paese ha evidenziato che i procedimenti previsti in Costituzione per affrontare le urgenze sono piuttosto fragili.       

Il D.L. 23.02.2020, n. 6, convertito con modificazioni in legge 05.03.2020, n. 13, si limitava appunto ad attribuire ad “autorità competenti” (ossia al Presidente del Consiglio e ai presidenti regionali) i poteri necessari ad “adottare ogni misura di contenimento e gestione adeguata e proporzionata all’evolversi della situazione epidemiologica”.       
Il nuovo Decreto-Legge n. 19 del 25.03.2020 ha modificato il precedente, lasciando ai dpcm il compito di determinare di volta in volta le condotte sanzionabili, seppur questa volta sulla base del principio di tassatività.

Per quanto concerne la libertà di culto, in particolare, la relativa limitazione è configurata dalle lettere g) e h) dell’art. 1 del D.L. 19/2020. Sul punto, la norma prevede la possibilità di “limitazione dell’ingresso nei luoghi destinati al culto”, presupponendone l’apertura “condizionata all'adozione di misure organizzative tali da evitare assembramenti di persone, tenendo conto delle dimensioni e delle caratteristiche dei luoghi, e tali da garantire ai frequentatori la possibilità di rispettare la distanza tra loro di almeno un metro”.

Quest’ultima condizione costituisce anche la ratio della sospensione delle cerimonie religiose, poiché viene presunto che la riunione per il culto possa dare luogo a un assembramento.

La sospensione di messe ed esequie e la possibile apertura solo contingentata degli edifici di culto vanno analizzate alla luce del principio di adeguatezza e di proporzionalità, indicati nel preambolo del D.L., rispetto ai due diritti fondamentali in campo: la libertà di culto (art. 19 Cost) e la tutela della salute (art. 32 Cost). Le limitazioni viste, di per sé, non costituiscono una lesione della libertà di culto, essendo esse volte alla tutela della salute quale unico diritto definito  esplicitamente come fondamentale in Costituzione e tutelato “nell'interesse della collettività”.  

A maggior riprova, l’art. 117 Cost. attribuisce alle Regioni la competenza sulla gestione concreta del servizio salute, riserva allo Stato l’attuazione delle procedure mediche internazionali per la prevenzione della malattia (cd. Profilassi internazionale).

Tornando alla limitazione o esclusione dell’ingresso nei luoghi di culto, sembra potersi individuare un intendimento tra la posizione dello Stato, che reputa sufficiente che si evitino assembramenti durante le cerimonie religiose e si osservino le comuni precauzioni dettate per tutti, e la posizione della Chiesa che accetta le limitazioni in nome della salute pubblica, appagata dal fatto che gli edifici rimangano comunque aperti ai singoli fedeli per la celebrazione del culto e sia data possibilità ai ministri di proseguire con l’assistenza spirituale.  

La Chiesa sembra dunque aver accettato le disposizioni governative partendo dalla consapevolezza che la Città del Vaticano altro non è che un’enclave nel territorio italiano. Pertanto essa non ha deciso indipendentemente quali misure adottare né ha fatto ricorso ad intese con lo Stato italiano, limitandosi invece ad applicare spontaneamente i decreti italiani.   

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La Corte di Strasburgo e il divieto di porto di simboli religiosi sul corpo.

Parte della giurisprudenza della Corte di Strasburgo in materia di libertà religiosa individuale si è occupata, negli ultimi decenni, di casi che riguardavano il porto di simboli religiosi sul corpo. In particolare, alla Corte sono stati sottoposti casi di persone che lamentavano impedimenti, a diverso titolo e con motivazioni diverse, nell’esercizio della loro libertà religiosa, libertà che comprende quella d’indossare capi di abbigliamento (copricapi, veli, tuniche ecc.) o monili (crocifissi, catenine ecc.) con significato religioso.

Eppure, non ogni comportamento fondato su motivazioni religiose è riconducibile all’ambito di tutela dell’art. 9 della Convenzione, ma spetta alla Corte, prima di operare il giudizio di necessarietà della restrizione, procedere a questa ricognizione e decidere in merito all’esistenza o meno di un’ingerenza nel diritto. 

La Corte ha ammesso l’esistenza di una limitazione del diritto di libertà a opera delle disposizioni restrittive di alcuni Stati, ma ne ha reso irrilevanti gli effetti ai fini della decisione facendo ricorso ad alcuni “scopi legittimi” di sicura rilevanza, come la salute o la sicurezza, destinati senz’altro a prevalere senza dovere procedere a un vero e proprio bilanciamento. Il giudizio di proporzionalità diventa, di contro, più approfondito quando la Corte inizia a occuparsi dei casi in cui i divieti di porto dei simboli sono sorretti da ragioni di tutela dell’ordine pubblico ideale, quale la necessaria laicità delle istituzioni democratiche o la neutralità dello spazio pubblico. In questi casi, lo scopo legittimo dell'ordine pubblico verrà utilizzato solo nei casi in cui si tratti di uno spazio pubblico qualificato (ad esempio, un ospedale) o di una persona con un ruolo "pubblico" (ad esempio, un assistente sociale) e, congiuntamente, verrà preteso che la messa in pericolo dell’ordine pubblico sia concreta e fondata su precise circostanze.

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L'invidia porta alla guerra

Meditazione mattutina del Santo Padre nella Cappella della Domus Sanctae Marthae (24 gennaio 2020)

PAPA FRANCESCO

MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA

DOMUS SANCTAE MARTHAE

 

L'INVIDIA PORTA ALLA GUERRA

 

(Venerdì, 24 gennaio 2020)

 

Stare attenti al tarlo dell’invidia e della gelosia, che «ci porta a giudicare male la gente», a

entrare in concorrenza in famiglia, nel quartiere e sul lavoro: «È il seme di una guerra»,

un «chiacchiericcio» con noi stessi che uccide l’altro, ma che se ci si pensa bene «non ha

consistenza» e finisce in «una bolla di sapone». Papa Francesco, nell’omelia della messa a

Casa Santa Marta, venerdì mattina 24 gennaio, ha tratto questo insegnamento di vita

dalla Prima lettura proposta dalla liturgia, che descrive come si sgonfia la gelosia del re

Saul verso Davide.

Il Pontefice ha ricordato che la gelosia descritta nel primo Libro di Samuele, nasce dal

canto di vittoria delle giovani, per Saul che ha ucciso mille nemici, mentre Davide

diecimila. Comincia così «l’inquietudine della gelosia», come «un tarlo che ti rode dentro».

Così «Saul esce con l’esercito per uccidere Davide». «Le gelosie sono criminali — ha

commentato Francesco — cercano sempre di uccidere». E a chi dice «sì, sono geloso di

questo, ma non sono un assassino», il Pontefice ha detto: «adesso. Ma se continui può

finire male». Perché si può uccidere facilmente «con la lingua, con la calunnia».

E la gelosia, ha proseguito il Papa, cresce «parlando con se stesso», interpretando le cose

con la chiave della gelosia. Nel «chiacchiericcio con se stesso», il geloso «è incapace di

vedere la realtà», e solo «un fatto molto forte» può aprirgli gli occhi. Così nella fantasia di

Saul, «la gelosia lo ha portato a credere che Davide era un assassino, un nemico».

«Anche noi — ha ammonito il Papa — quando ci viene l’invidia, la gelosia, facciamo così».

Da qui l’invito a chiedersi: «Perché questa persona mi è insopportabile? Perché quell’altra

non la voglio neppure vedere? Perché quell’altra...». E tante volte si scopre «che sono

fantasie nostre. Fantasie, che però crescono in quel chiacchiericcio con me stesso». E alla

fine, ha spiegato Francesco, «è una grazia di Dio quando il geloso incontra una realtà

come è successo a Saul: la gelosia scoppia come una bolla di sapone, perché la gelosia e

l’invidia non hanno consistenza».

La salvezza di Saul sta nell’amore di Dio, ha ricordato il Pontefice, che «gli aveva detto

che se non avesse obbedito, gli avrebbe tolto il regno, ma gli voleva bene». E così «gli dà

la grazia di far scoppiare quella bolla di sapone che non aveva consistenza». Francesco ha

raccontato l’episodio biblico, con Saul che entra nella caverna — dove Davide e i suoi si

sono nascosti — «per fare i suoi bisogni». Gli amici dicono a Davide di approfittarne per

uccidere il re, ma lui rifiuta: «mai metterò le mai sull’unto del Signore». Si vede, ha

commentato il Pontefice, «la nobiltà di Davide a confronto con la gelosia assassina di

Saul». Così, in silenzio, taglia soltanto un pezzo di stoffa dall’orlo del manto del re, «e lo

porta con sé».

Quindi, ha proseguito il Papa, Davide esce dalla caverna e chiama Saul con rispetto: «O

re, mio signore!» anche se «quello cerca di ucciderlo». E gli chiede: «Perché ascolti la

voce di chi dice: “Ecco, Davide cerca il tuo male”?». E gli fa vedere l’orlo del manto,

dicendo: «Io avrei potuto ucciderti. No, non l’ho fatto». Questo, ha commentato il Papa,

«fa scoppiare la bolla di sapone della gelosia di Saul», che riconosce Davide «come se

fosse un figlio e torna alla realtà», dicendo: «Tu sei più giusto di me, perché mi hai reso il

bene, mentre io ti ho reso il male».

«È una grazia — ha chiosato Francesco — quando l’invidioso, il geloso, si trova di fronte

ad una realtà che fa scoppiare quella bolla di sapone che è il suo vizio di gelosia o di

invidia». E invita a guardare quando «siamo antipatici con una persona, non le vogliamo

bene». Infatti bisognerebbe chiedersi: «Cosa c’è dentro di me? C’è il tarlo della gelosia

che cresce, perché lui ha qualcosa che io non ho o c’è una rabbia nascosta?». Dobbiamo,

è il consiglio del Pontefice, «proteggere il nostro cuore da questa malattia, da questo

chiacchiericcio con me stesso, che fa crescere questa bolla di sapone che poi non ha

consistenza, ma fa tanto male». E anche quando qualcuno viene «a sparlare di un altro»,

dobbiamo fargli capire che, spesso, non sta parlando con serenità, ma «con passione». E

in quella passione «c’è il male dell’invidia e il male della gelosia».

«Stiamo attenti — è tornato ad ammonire Papa Francesco — perché questo è un tarlo

che entra nel cuore di tutti noi» e «ci porta a giudicare male la gente», perché comincia

la «concorrenza: lui ha una cosa che io non ho». Questo «ci porta a scartare la gente», a

«una guerra domestica, una guerra di quartiere, una guerra di posti di lavoro». È «il seme

di una guerra: l’invidia e la gelosia».

Da qui la conclusione del Papa a stare attenti «quando sentiamo questa antipatia per

qualcuno»; occorrerebbe chiedersi: «Perché io sento questo?» e non permettere che

questo «chiacchiericcio» faccia pensare male, «perché questo fa crescere la bolla di

sapone».

«Chiediamo al Signore — è stata l’invocazione finale di Francesco — la grazia di avere un

cuore trasparente come quello di Davide. Un cuore trasparente che cerca soltanto la

giustizia, cerca la pace. Un cuore amichevole, un cuore che non vuole uccidere nessuno,

perché la gelosia e l’invidia uccidono».

 

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Discorso del Santo Padre Francesco in occasione dell'inaugurazione dell'anno giudiziario del Tribunale della Rota Romana

25 gennaio 2020

DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO

IN OCCASIONE DELL'INAUGURAZIONE DELL'ANNO GIUDIZIARIO

DEL TRIBUNALE DELLA ROTA ROMANA

 

Sala Clementina

Sabato, 25 gennaio 2020

 

Signor Decano,

Reverendissimi Prelati Uditori,

cari Officiali nella Rota Romana!

Sono felice di potermi oggi incontrare con voi in occasione dell’inaugurazione del Nuovo

Anno Giudiziario di codesto Tribunale. Ringrazio vivamente Sua Eccellenza il Decano per

le nobili parole a me rivolte e per i saggi propositi metodologici formulati.

Desidero ricollegarmi alla catechesi svolta nell’udienza generale di mercoledì 13 novembre

2019, offrendo oggi a voi un’ulteriore riflessione sul ruolo primario della coppia di sposi

Aquila e Priscilla come modelli di vita coniugale. Infatti la Chiesa, per seguire Gesù, deve

operare secondo tre condizioni avvalorate dallo stesso divino Maestro: itineranza,

prontezza e decisione (cfr Angelus, 30 giugno 2019). La Chiesa è, per sua natura, in

movimento, non resta tranquilla nel proprio recinto, è aperta ai più vasti orizzonti. La

Chiesa è inviata a portare il Vangelo nelle strade e raggiungere periferie umane ed

esistenziali. Ci fa ricordare la coppia di sposi neotestamentaria Aquila e Priscilla.

Lo Spirito Santo ha voluto porre accanto all’Apostolo [Paolo] questo esempio mirabile di

coppia di sposi itineranti: difatti, sia negli Atti degli Apostoli sia nella descrizione di Paolo

non sono mai fermi, ma sempre in continuo movimento. E ci domandiamo come mai

questo modello di sposi itineranti non abbia avuto, nella pastorale della Chiesa, una

propria identità di sposi evangelizzatori per molti secoli. È quello di cui avrebbero bisogno

le nostre parrocchie, soprattutto nelle zone urbane, nelle quali il parroco e i suoi

collaboratori chierici mai potranno avere tempo e forza per raggiungere fedeli che, pur

dichiarandosi cristiani, restano assenti dalla frequenza dei Sacramenti e privi, o quasi,

della conoscenza di Cristo.

Sorprende quindi, a distanza di tanti secoli, l’immagine moderna di questi santi sposi in

movimento perché Cristo sia conosciuto: evangelizzavano essendo maestri della passione

per il Signore e per il Vangelo, una passione del cuore che si traduce in gesti concreti di

prossimità, di vicinanza ai fratelli più bisognosi, di accoglienza e di cura.

Nel proemio alla riforma del Processo matrimoniale, ho insistito sulle due perle: prossimità

e gratuità. Non va dimenticato questo. San Paolo trovò in questi sposi il modo di essere

prossimo ai lontani, e li amò vivendo con loro più di un anno, a Corinto, perché sposi

maestri di gratuità. Tante volte sento paura davanti al giudizio di Dio che noi avremo su

queste due cose. Nel giudicare, sono stato prossimo al cuore della gente? Nel giudicare,

ho aperto il cuore alla gratuità o sono stato preso da interessi commerciali? Il giudizio di

Dio sarà molto forte su questo.

Gli sposi cristiani dovrebbero apprendere da Aquila e Priscilla come innamorarsi di Cristo e

farsi prossimi alle famiglie, prive spesso della luce della fede, non per la loro colpa

soggettiva, ma perché lasciate al margine della nostra pastorale: pastorale d’élite che

dimentica il popolo.

Quanto vorrei che questo discorso non restasse soltanto una sinfonia di parole, ma

spingesse, da una parte, i pastori, i vescovi, i parroci a cercare di amare, come fece

l’Apostolo Paolo, coppie di sposi quali missionari umili e disponibili a raggiungere quelle

piazze e quei palazzi delle nostre metropoli, nelle quali la luce del Vangelo e la voce di

Gesù non giunge e non penetra. E, d’altra parte, sposi cristiani che abbiano l’ardire di

scuotere il sonno, come fecero Aquila e Priscilla, capaci di essere agenti non diciamo in

modo autonomo, ma certo carichi di coraggio fino al punto di svegliare dal torpore e dal

sonno i pastori, forse troppo fermi o bloccati dalla filosofia del piccolo circolo dei perfetti.

Il Signore è venuto a cercare i peccatori, non i perfetti.

San Paolo VI, nella Lettera Enciclica Ecclesiam suam, osservava: «Bisogna, prima ancora

di parlare, ascoltare la voce, anzi, il cuore dell’uomo; comprenderlo, e per quanto

possibile rispettarlo e dove lo merita assecondarlo» (n. 90). Ascoltare il cuore dell’uomo.

Si tratta, come ho raccomandato ai Vescovi italiani, di «ascoltare il gregge, […] porsi

accanto alla gente, attenti a impararne la lingua, ad accostare ognuno con carità,

affiancando le persone lungo le notti delle loro solitudini, delle loro inquietudini e dei loro

fallimenti» (Discorso all’Assemblea generale della C.E.I., 19 maggio 2014).

Dobbiamo essere consapevoli che non sono i pastori ad inventare, con la loro umana

intraprendenza – sia pure in buona fede – le sante coppie cristiane; esse sono opera dello

Spirito Santo, che è il protagonista della missione, sempre, e sono già presenti nelle

nostre comunità territoriali. Sta a noi pastori illuminarle, dare loro visibilità, farne sorgenti

di nuova capacità nel vivere il matrimonio cristiano; e anche custodirle perché non cadano

nelle ideologie. Queste coppie, che lo Spirito certamente continua ad animare, devono

essere pronte «a uscire da se stessi, aprirsi agli altri, a vivere la prossimità, lo stile di vita

insieme, che trasforma ogni relazione interpersonale in un’esperienza di fraternità»

(Catechesi 16 ottobre 2019). Pensiamo al lavoro pastorale nel catecumenato

prematrimoniale e post-matrimoniale: sono queste coppie che devono farlo e andare

avanti.

Occorre vigilare perché non cadano nel pericolo del particolarismo, scegliendo di vivere in

gruppi prescelti; al contrario, occorre «aprirsi all’universalità della salvezza» (ibid.).

Infatti, se siamo grati a Dio per la presenza nella Chiesa di movimenti e associazioni che

non trascurano la formazione di sposi cristiani, d’altronde si deve con forza affermare che

la parrocchia è per sé il luogo ecclesiale dell’annuncio e della testimonianza; perché è in

quel contesto territoriale che già vivono sposi cristiani degni di far luce, i quali possono

essere testimoni attivi della bellezza e dell’amore coniugale e familiare (cfr Esort. ap.

postsin. Amoris laetitia, 126-130).

L’azione apostolica delle parrocchie, dunque, nella Chiesa si illumina della presenza di

sposi come quelli del Nuovo Testamento, descritti da Paolo e da Luca: mai fermi, sempre

in movimento, certamente con prole, secondo quanto ci è tramandato dall’iconografia

delle Chiese orientali. Pertanto, i Pastori si lascino illuminare dallo Spirito anche oggi,

affinché si avveri questo annuncio salvifico da parte di coppie spesso già pronte, ma non

chiamate. Ci sono.

Ecco, di coppie di sposi in movimento necessita oggi la Chiesa, dovunque nel mondo;

partendo però idealmente dalle radici della Chiesa dei primi quattro secoli e cioè dalle

catacombe, come fece San Paolo VI alla fine del Concilio recandosi nelle Catacombe di

Domitilla. In quelle Catacombe, quel santo Pontefice affermò: «Qui il cristianesimo

affondò le sue radici nella povertà, nell’ostracismo dei poteri costituiti, nella sofferenza di

ingiuste e sanguinose persecuzioni; qui la Chiesa fu spoglia di ogni umano potere, fu

povera, fu umile, fu pia, fu oppressa, fu eroica. Qui il primato dello Spirito di cui ci parla il

Vangelo ebbe la sua oscura, quasi misteriosa, ma invitta affermazione, la sua

testimonianza incomparabile, il suo martirio» (Omelia, 12 settembre 1965).

Se lo Spirito non è invocato e dunque rimane sconosciuto e assente (cfr Omelia a S.

Marta, 9 maggio 2016) nel contesto delle nostre Chiese particolari, saremo privi di quella

forza che faccia delle coppie di sposi cristiani l’anima e la forma dell’evangelizzazione. In

concreto: vivendo la parrocchia come quel territorio giuridico-salvifico, perché «casa tra le

case», famiglia di famiglie (cfr Omelia ad Albano, 21 settembre 2019); Chiesa – cioè

parrocchia – povera per i poveri; catena di sposi entusiasti e innamorati della loro fede

nel Risorto, capaci di una nuova rivoluzione della tenerezza dell’amore, come Aquila e

Priscilla, mai appagati o ripiegati su sé stessi.

Verrebbe da pensare che questi santi sposi del Nuovo Testamento non ebbero tempo di

mostrarsi stanchi. Così, in effetti, sono descritti da Paolo e da Luca, per i quali furono

compagni quasi indispensabili, proprio perché non chiamati da Paolo ma suscitati dallo

Spirito di Gesù. È qui che si fonda la loro dignità apostolica di sposi cristiani. È lo Spirito

che li ha suscitati. Pensiamo a quando arriva il missionario in un posto: lì già c’è lo Spirito

Santo che lo aspetta. Certo, lascia alquanto perplessi il fatto del lungo silenzio, nei secoli

trascorsi, su queste sante figure della prima Chiesa.

Invito e sollecito i fratelli Vescovi e i Pastori tutti a indicare questi santi sposi della prima

Chiesa come compagni fedeli e luminosi dei Pastori di allora; come sostegno, oggi, ed

esempio di come gli sposi cristiani, giovani e anziani, possano rendere il matrimonio

cristiano sempre fecondo di figli in Cristo. Dobbiamo essere convinti, e vorrei dire sicuri,

che nella Chiesa simili coppie di sposi sono già un dono di Dio e non per nostro merito,

per il fatto che sono frutto dell’azione dello Spirito, che mai abbandona la Chiesa.

Piuttosto, lo Spirito si attende l’ardore da parte dei Pastori, affinché non venga spenta la

luce che queste coppie diffondono nelle periferie del mondo (cfr Gaudium et spes, 4-10).

Lasciate, perciò, che rinnovi lo Spirito a non rassegnarsi a una Chiesa di pochi, quasi a

gradire di rimanere solo lievito isolato, privi di quella capacità degli sposi del Nuovo

Testamento di moltiplicarsi nell’umiltà e nell’obbedienza allo Spirito. Lo Spirito che illumina

ed è capace di rendere salvifica la nostra attività umana e la nostra stessa povertà; è

capace di rendere salvifica tutta la nostra attività; restando convinti che la Chiesa non

cresce per proselitismo ma per attrazione – la testimonianza di queste persone attira –, e

assicurando sempre e comunque la firma della testimonianza.

Di Aquila e Priscilla non sappiamo se morirono martiri, ma di certo essi sono, per i nostri

sposi di oggi, segno del martirio, almeno spirituale, cioè testimoni capaci di essere lievito

che va nella farina, di essere lievito nella massa, che muore per diventare la massa (cfr

Discorso alle Associazioni di famiglie cattoliche in Europa, 1 giugno 2017). Questo è

possibile oggi, dovunque.

Cari Giudici della Rota Romana, il buio della fede o il deserto della fede che le vostre

decisioni, a partire già da un ventennio, hanno denunciato come possibile circostanza

causale della nullità del consenso, offrono a me, come già al mio predecessore Benedetto

XVI (cfr Allocuzioni alla Rota Romana 23 gennaio 2015 e 22 gennaio 2016; 22 gennaio

2011; cfr art. 14 Ratio procedendi del Motu proprio Mitis Iudex Dominus Iesus), il motivo

di un grave e pressante invito ai figli della Chiesa nell’epoca che viviamo, a sentirsi tutti e

singoli chiamati a consegnare al futuro la bellezza della famiglia cristiana.

La Chiesa necessita ubicunque terrarum di coppie di sposi come Aquila e Priscilla, che

parlino e vivano con l’autorità del Battesimo, che «non consiste nel comandare e farsi

sentire, ma nell’essere coerenti, essere testimoni e per questo essere compagni di strada

nella via del Signore» (Omelia a S. Marta, 14 gennaio 2020).

Rendo grazie al Signore perché dà ancora oggi ai figli della Chiesa il coraggio e la luce per

tornare agli inizi della fede e ritrovare la passione degli sposi Aquila e Priscilla, che siano

riconoscibili in ogni matrimonio celebrato in Cristo Gesù.


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Lettera Apostolica in forma di «Motu Proprio» sulla protezione dei minori e delle persone vulnerabili (26 marzo 2019).

LETTERA APOSTOLICA 
IN FORMA DI «MOTU PROPRIO»

DEL SOMMO PONTEFICE 
FRANCESCO

SULLA PROTEZIONE DEI MINORI E DELLE PERSONE VULNERABILI

La tutela dei minori e delle persone vulnerabili fa parte integrante del messaggio evangelico che la Chiesa e tutti i suoi membri sono chiamati a diffondere nel mondo. Cristo stesso infatti ci ha affidato la cura e la protezione dei più piccoli e indifesi: «chi accoglierà un solo bambino come questo nel mio nome, accoglie me» (Mt 18,5). Abbiamo tutti, pertanto, il dovere di accogliere con generosità i minori e le persone vulnerabili e di creare per loro un ambiente sicuro, avendo riguardo in modo prioritario ai loro interessi. Ciò richiede una conversione continua e profonda, in cui la santità personale e l’impegno morale possano concorrere a promuovere la credibilità dell’annuncio evangelico e a rinnovare la missione educativa della Chiesa.

Desidero, quindi, rafforzare ulteriormente l’assetto istituzionale e normativo per prevenire e contrastare gli abusi contro i minori e le persone vulnerabili affinché nella Curia Romana e nello Stato della Città del Vaticano:

- sia mantenuta una comunità rispettosa e consapevole dei diritti e dei bisogni dei minori e delle persone vulnerabili, nonché attenta a prevenire ogni forma di violenza o abuso fisico o psichico, di abbandono, di negligenza, di maltrattamento o di sfruttamento che possano avvenire sia nelle relazioni interpersonali che in strutture o luoghi di condivisione;

- maturi in tutti la consapevolezza del dovere di segnalare gli abusi alle Autorità competenti e di cooperare con esse nelle attività di prevenzione e contrasto;

- sia efficacemente perseguito a norma di legge ogni abuso o maltrattamento contro minori o contro persone vulnerabili;

- sia riconosciuto a coloro che affermano di essere stati vittima di sfruttamento, di abuso sessuale o di maltrattamento, nonché ai loro familiari, il diritto ad essere accolti, ascoltati e accompagnati;

- sia offerta alle vittime e alle loro famiglie una cura pastorale appropriata, nonché un adeguato supporto spirituale, medico, psicologico e legale;

- sia garantito agli imputati il diritto a un processo equo e imparziale, nel rispetto della presunzione di innocenza, nonché dei principi di legalità e di proporzionalità fra il reato e la pena;

- venga rimosso dai suoi incarichi il condannato per aver abusato di un minore o di una persona vulnerabile e, al contempo, gli sia offerto un supporto adeguato per la riabilitazione psicologica e spirituale, anche ai fini del reinserimento sociale;

- sia fatto tutto il possibile per riabilitare la buona fama di chi sia stato accusato ingiustamente;

- sia offerta una formazione adeguata per la tutela dei minori e delle persone vulnerabili.

Pertanto, con la presente Lettera stabilisco che:

1. I competenti organi giudiziari dello Stato della Città del Vaticano esercitano la giurisdizione penale anche in ordine ai reati di cui agli articoli 1 e 3 della Legge N. CCXCVII, sulla protezione dei minori e delle persone vulnerabilidel 26 marzo 2019, commessi, in occasione dell’esercizio delle loro funzioni, dai soggetti di cui al punto 3 del Motu Proprio «Ai nostri tempi», dell’11 luglio 2013.

2. Fatto salvo il sigillo sacramentale, i soggetti di cui al punto 3 del Motu Proprio «Ai nostri tempi», dell’11 luglio 2013, sono obbligati a presentare, senza ritardo, denuncia al promotore di giustizia presso il tribunale dello Stato della Città del Vaticano ogniqualvolta, nell’esercizio delle loro funzioni, abbiano notizia o fondati motivi per ritenere che un minore o una persona vulnerabile sia vittima di uno dei reati di cui all’articolo 1 della Legge N. CCXCVII, qualora commessi anche alternativamente:

i. nel territorio dello Stato;

ii. in pregiudizio di cittadini o di residenti nello Stato;

iii. in occasione dell’esercizio delle loro funzioni, dai pubblici ufficiali dello Stato o dai soggetti di cui al punto 3 del Motu Proprio «Ai nostri tempi», dell’11 luglio 2013.

3. Alle persone offese dai reati di cui all’articolo 1 della Legge N. CCXCVII è offerta assistenza spirituale, medica e sociale, compresa l’assistenza terapeutica e psicologica di urgenza, nonché informazioni utili di natura legale, tramite il Servizio di accompagnamento gestito dalla Direzione di Sanità e Igiene del Governatorato dello Stato della Città del Vaticano.

4. L’Ufficio del Lavoro della Sede Apostolica organizza, di concerto con il Servizio di accompagnamento della Direzione di Sanità e Igiene, programmi di formazione per il personale della Curia Romana e delle Istituzioni collegate con la Santa Sede circa i rischi in materia di sfruttamento, di abuso sessuale e di maltrattamento dei minori e delle persone vulnerabili, nonché sui mezzi per identificare e prevenire tali offese e sull’obbligo di denuncia.

5. Nella selezione e nell’assunzione del personale della Curia Romana e delle Istituzioni collegate con la Santa Sede, nonché di coloro che prestano collaborazione in forma volontaria, deve essere accertata l’idoneità del candidato ad interagire con i minori e con le persone vulnerabili.

6. I Dicasteri della Curia Romana e le Istituzioni collegate con la Santa Sede a cui abbiano accesso i minori o le persone vulnerabili adottano, con l’assistenza del Servizio di accompagnamento della Direzione di Sanità e Igiene, buone prassi e linee guida per la loro tutela.

Stabilisco che la presente Lettera Apostolica in forma di «Motu Proprio» venga promulgata mediante la pubblicazione su L’Osservatore Romano e, successivamente, inserita negli Acta Apostolicae Sedis.

Dispongo che quanto stabilito abbia pieno e stabile valore, anche abrogando tutte le disposizioni incompatibili, a partire dal primo giugno 2019.

Dato a Roma presso San Pietro, il 26 marzo dell’anno 2019, settimo del Pontificato.

 

FRANCESCO

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Discorso del Santo Padre Francesco al Tribunale della Rota Romana per l'inaugurazione dell'anno giudiziario (2019)

Martedì, 29 gennaio 2019

Eccellenza,
Cari Prelati Uditori
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rivolgo a ciascuno di voi il mio cordiale saluto, ad iniziare dal Decano, che ringrazio per le sue parole. Saluto quanti prendono parte a questo incontro: gli Officiali, gli Avvocati e gli altri collaboratori del Tribunale Apostolico della Rota Romana. A tutti formulo sinceri voti augurali per l’Anno giudiziario che oggi inauguriamo.

La società in cui viviamo è sempre più secolarizzata, e non favorisce la crescita della fede, con la conseguenza che i fedeli cattolici fanno fatica a testimoniare uno stile di vita secondo il Vangelo, anche per quanto riguarda il Sacramento del matrimonio. In tale contesto, è necessario che la Chiesa, in tutte le sue articolazioni, agisca concordemente per offrire adeguato sostegno spirituale e pastorale. Nel quotidiano ministero a servizio del matrimonio cristiano, voi fate esperienza di due fondamentali capisaldi non solo della teologia e del diritto matrimoniale canonico, ma anche e ancor prima dell’essenza stessa della Chiesa di Cristo: l’unità e la fedeltà. Questi due beni matrimoniali, infatti, prima di essere, anzi, per essere obblighi giuridici di ogni unione coniugale in Cristo, devono essere epifania della fede battesimale.

Perché sia validamente contratto, il matrimonio richiede che si stabilisca in ciascuno dei nubendi una piena unità e armonia con l’altro, affinché, attraverso il mutuo scambio delle rispettive ricchezze umane, morali e spirituali – quasi a modo di vasi comunicanti – i due coniugi diventino una sola cosa. Il matrimonio richiede anche un impegno di fedeltà, che assorbe tutta la vita, diventando stabilmente consortium totius vitae (can.1135).

Unità e fedeltà sono due valori importanti e necessari non solo tra i coniugi, ma in generale nei rapporti interpersonali e in quelli sociali. Tutti siamo consapevoli degli inconvenienti che determinano, nel consorzio civile, le promesse non mantenute, la mancanza di fedeltà alla parola data e agli impegni assunti.

L’unità e la fedeltà. Questi due beni irrinunciabili e costitutivi del matrimonio, richiedono di essere non solo adeguatamente illustrati ai futuri sposi, ma sollecitano l’azione pastorale della Chiesa, specialmente dei vescovi e dei sacerdoti, per accompagnare la famiglia nelle diverse tappe della sua formazione e del suo sviluppo. Tale azione pastorale naturalmente non può limitarsi all’espletamento delle pratiche, pur necessarie e da svolgere con cura. Occorre una triplice preparazione al matrimonio: remota, prossima e permanente. Quest’ultima è bene che comprenda in modo serio e strutturale le diverse tappe della vita coniugale, mediante una formazione accurata, volta ad accrescere negli sposi la consapevolezza dei valori e degli impegni propri della loro vocazione.

I soggetti principali di questa formazione matrimoniale, in virtù del loro ufficio e ministero, sono i pastori; tuttavia, è quanto mai opportuno, anzi, necessario coinvolgere le comunità ecclesiali nelle loro diverse componenti, che sono corresponsabili di questa pastorale sotto la guida del Vescovo diocesano e del parroco. L’obbligo è quindi in solidum, con responsabilità primaria dei pastori e la partecipazione attiva della comunità nel promuovere il matrimonio e accompagnare le famiglie con il sostegno spirituale e formativo.

Per comprendere questa necessità pastorale, ci farà bene considerare, nelle Scritture, l’esperienza dei santi sposi Aquila e Priscilla. Essi furono tra i più fedeli compagni della missione di San Paolo, che li chiama con grato affetto suoi sinergoi, cioè collaboratori in pieno dell’ansia e del lavoro dell’Apostolo. Si resta colpiti e commossi da questo riconoscimento alto da parte di Paolo verso l’opera missionaria di questi sposi; e nello stesso tempo si può riconoscere come tale sinergia fosse un dono prezioso dello Spirito alle prime comunità cristiane. Chiediamo pertanto allo Spirito Santo di donare anche oggi alla Chiesa sacerdoti capaci di apprezzare e valorizzare i carismi dei coniugi con fede robusta e spirito apostolico come Aquila e Priscilla.

La cura pastorale costante e permanente della Chiesa per il bene del matrimonio e della famiglia richiede di essere realizzata con i vari mezzi pastorali: l’accostamento alla Parola di Dio, specialmente mediante la lectio divina; gli incontri di catechesi; il coinvolgimento nella celebrazione dei Sacramenti, soprattutto l’Eucaristia; il colloquio e la direzione spirituale; la partecipazione ai gruppi familiari e di servizio caritativo, per sviluppare il confronto con altre famiglie e l’apertura ai bisogni dei più svantaggiati.

D’altra parte, i coniugi che vivono il loro matrimonio nell’unità generosa e con amore fedele, sostenendosi a vicenda con la grazia del Signore e con il necessario supporto della comunità ecclesiale, rappresentano a loro volta un prezioso aiuto pastorale alla Chiesa. Infatti, offrono a tutti un esempio di vero amore e diventano testimoni e cooperatori della fecondità della Chiesa stessa. Davvero tanti sposi cristiani sono una predica silenziosa per tutti, una predica “feriale” direi, di tutti i giorni, e dobbiamo purtroppo constatare che una coppia che vive da tanti anni insieme non fa notizia - è triste questo -, mentre fanno notizia gli scandali, le separazioni, i divorzi… (cfr Omelia a S. Marta, venerdì 18 maggio 2018).

Gli sposi che vivono nell’unità e nella fedeltà riflettono bene l’immagine e la somiglianza di Dio. Questa è la buona notizia: che la fedeltà è possibile, perché è un dono, negli sposi come nei presbiteri. Questa è la notizia che dovrebbe rendere più forte e consolante anche il ministero fedele e pieno di amore evangelico di vescovi e sacerdoti; come furono di conforto per Paolo e Apollo l’amore e la fedeltà coniugale degli sposi Aquila e Priscilla.

Cari Prelati Uditori, rinnovo a ciascuno la mia gratitudine per il bene che fate al popolo di Dio, servendo la giustizia mediante le vostre sentenze. Esse, oltre al rilievo del giudizio in sé per le parti interessate, concorrono ad interpretare correttamente il diritto matrimoniale. Tale diritto si pone al servizio della salus animarum e della fede degli sposi. Pertanto, si comprende il puntuale riferimento delle sentenze Rotali ai principi della dottrina cattolica, per quanto riguarda l’idea naturale del matrimonio, con relativi obblighi e diritti, e ancor più per quanto concerne la sua realtà sacramentale.

Grazie di cuore per il vostro lavoro! Invoco su di esso la divina assistenza e vi imparto di cuore la Benedizione Apostolica. E per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Grazie!

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il matrimonio contratto tra persone di orientamento religioso differente.

Oggi a causa della globalizzazione e delle migrazioni vi sono sempre più di frequente religioni, culture e nazionalità diverse che si incontrano.

Nei matrimoni contratti tra persone di religioni diverse vi sono differenti regimi giuridici matrimoniali i quali determinano conflitti di norme.

Gli artt. 2-4 della “Dignitas Connubi” (DC) contengono le norme di conflitto per i tribunali ecclesistici, questi ultimi sono competenti a valutare la validità di un matrimonio, anche nel caso in cui entrambi i coniugi non siano cattolici.

Per quanto concerne il diritto sostanziale, il giudice dovrà applicare il diritto cui siano soggetti i coniugi acattolici.

Nel Concilio Vaticano Secondo, la chiesa cattolica ha modificato il proprio atteggiamento nei confronti delle altre confessioni cristiane, delle religioni non cristiane e delle concezioni del mondo non religiose; all’art. 16 della “Unitatis redintegratio” esso chiarisce che le Chiese d’Oriente hanno la facoltà di regolarsi in base alle loro discipline. Mentre in riferimento alle comunità religiose lo stesso all’art 4 comma 2 della “Dignitatis Humanae” ha stabilito il diritto di reggersi secondo le proprie norme.

In tutto ciò è compresa la libertà di rispettare e avere un proprio ordinamento giuridico.

Se il matrimonio è contratto con un coniuge non cattolico, il tribunale ecclesiastico è competente sempre se l’altro coniuge è cattolico, ciò perché la di loro competenza sulla parte cattolica si ripercuote anche sul coniuge non cattolico tramite il matrimonio; se invece il matrimonio è contratto tra due persone con cattoliche, i tribunali ecclesiastici cattolici sono competenti anche nei matrimoni in cui nessuno dei due coniugi sia cattolico, solo qualora lo stato libero di una delle due parti sia provato davanti alla Chiesa cattolica.

Il caso più frequente per la prova dello stato libero si realizza quando il coniuge acattolico voglia sposare un cattolico, poiché risulta necessario verificare se ci sia un vincolo matrimoniale esistente che impedisce ciò.

Ve ne sono altri di casi: ad esempio il coniuge che intende convertirsi oppure che si trovi nello stato di catecumeno o il caso in cui la sentenza riguardante la validità del matrimonio sia pregiudiziale per la risoluzione di un’altra questione rientrante nella giurisdizione ecclesiastica.

È inoltre opportuno dire che ogni procedimento innanzi a un tribunale ecclesiastico deve svolgersi secondo il diritto processuale canonico, ciò deriva dal fatto che secondo il “Dignitas connubi” la causa di nullità di un matrimonio contratto tra due non battezzati deve svolgersi secondo le norme di tale diritto e nulla dice nel caso in cui si fa riferimento a matrimoni contratti da due acattolici battezzati o tra un cattolico e un acattolico.

La “Dignitas connubi” si basa sul principio in base al quale ad ogni matrimonio deve essere applicata la legge secondo la quale lo stesso sia stato contratto dai coniugi. A tal proposito vi sono diversi casi da prendere in considerazione: ad esempio per quanto concerne il matrimonio tra acattolici battezzati il DC afferma l’applicabilità del diritto proprio della Chiesa o della Comunità ecclesiale di appartenenza del non cattolico infatti le chiese ortodosse e le comunità anglicane per esempio hanno un loro diritto matrimoniale. Se invece la comunità ecclesiale non possiede un proprio diritto matrimoniale, il matrimonio deve essere giudicato secondo la legge vigente nella Comunità ecclesiale, la quale sarà nella maggior parte dei casi una legge statale, un esempio è dato dalle Comunità ecclesiali protestanti poiché le stesse pur avendo una legge sul matrimonio, lasciano allo Stato la disciplina dello stesso.

Altro caso è dato dal matrimonio tra due non cristiani, nello stesso la nullità del matrimonio è decisa in base alle norme del diritto a cui erano soggette le parti al tempo della celebrazione del matrimonio. Ma anche se non viene specificato quale diritto debba essere applicato, sarebbe opportuno sostenere che in via principale deve essere applicato il diritto della comunità religiosa a cui appartengono le parti, e deve essere applicata la legge statale solo se la comunità non abbia un proprio diritto matrimoniale. Tale interpretazione rappresenta tuttavia una novità poiché finora i non cristiani sono vincolati principalmente dalla legge statale di riferimento.

Ulteriore caso riguarda il matrimonio tra un cattolico e un battezzato non cattolico, quindi il caso diverso rispetto a quelli finora presi in considerazione dove entrambi i coniugi appartenevano alla medesima comunità religiosa, in tal caso invece essi appartengono a diverse confessioni e a tal proposito vi sono due ordinamenti giuridici da prendere in considerazione: secondo un primo ordinamento il matrimonio concluso tra un cattolico e un battezzato non cattolico è regolato dal diritto canonico perché un coniuge è cattolico; il secondo orientamento invece ritiene che tale tipo di matrimonio sia regolato anche dal diritto della parte non cattolica.

Dalla presentazione delle norme di conflitto della DC finora compiuta però è stata esclusa l’importante questione del diritto divino il quale si dice si applichi a tutti gli uomini senza distinzione di religione o cittadinanza. Per tale ragione esso deve essere preso in considerazione anche in quelle cause matrimoniali nelle quali siano coinvolti dei non cattolici.

Il diritto divino quindi può essere applicato come diritto sostanziale anche quando siano coinvolti dei non cattolici oppure può avere l’effetto di escludere l’applicazione della legge matrimoniale straniera in contrasto con la legge divina.

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il diritto dei figli all'educazione religiosa.

La libertà di educazione religiosa del minore si colloca tradizionalmente nell’ambito della disciplina dei rapporti familiari, poiché la famiglia viene ritenuta il luogo primario per l’attuazione del progetto educativo.

Lo Stato non può imporre ai genitori l’educazione religiosa, essa risulta libera, ovviamente ciò entro i limiti del rispetto della persona e dei diritti del minore. A tal proposito infatti lo Stato non può né intromettersi nella elezione dei valori da trasmettere alla prole, né tantomeno operare una valutazione preferenziale verso una determinata appartenenza religiosa.

Questa libertà dei genitori di educare la prole secondo i dettami del proprio credo religioso, peraltro riconosciuta e garantita dalla legislazione statale e da quella internazionale recepita dai singoli ordinamenti, risulta circoscritta, oltre che dal limite dell’interesse del minore, anche al riconoscimento dell’attitudine dello stesso a sviluppare un certo grado di autodeterminazione.

 Secondo l’ordinamento giuridico italiano i genitori debbono delineare congiuntamente, e liberamente, l’indirizzo educativo, anche religioso, da impartire alla prole, ma consapevoli del fatto che quell’educazione rappresenta in realtà un mero avviamento, perché il minore, raggiunta la maturità necessaria, dovrà vedersi riconosciuto il diritto a scegliere il proprio indirizzo religioso.

Ma tale educazione religiosa dei figli, concepita libera dai vari ordinamenti statali, costituisce invece nell’ordinamento canonico l’adempimento di uno specifico dovere.

Il codice vigente, al canone 795, afferma che la vera educazione deve perseguire la formazione integrale della persona umana. La formazione spirituale non può certo essere esclusa da questa “realizzazione integrale” della persona, e la famiglia cristiana è considerata l’ambiente naturale e necessario in cui darvi attuazione. Questo ruolo è stato ribadito più recentemente nei due Sinodi dei Vescovi del 2014 e del 2015, in occasione dei quali si è tornato a evidenziare il ruolo della famiglia quale soggetto attivo dell’evangelizzazione.

Occorre precisare che il compito di fornire ai figli l’educazione religiosa, in quanto completamento del diritto-dovere “naturale” di provvedere al pieno sviluppo della prole, grava su tutti i genitori, anche quelli non battezzati.

Il diritto-dovere di educare i figli nella fede cattolica è delineato al canone 793 CIC, secondo tale norma i genitori sono vincolati dall'obbligo, e insieme hanno il diritto, di educare la prole; inoltre, i genitori cattolici hanno anche il dovere e il diritto di scegliere mezzi e istituzioni attraverso i quali provvedere, nel modo più opportuno, all'educazione cattolica dei figli.

Educare cristianamente i figli è dunque oggetto della responsabilità di entrambi i genitori e questa educazione deve essere impartita sin dai primi anni di vita.

Risulta invece più faticosa l’educazione religiosa da impartire alla prole nei matrimoni tra coniugi di diversa fede. A tal proposito per l’ordinamento canonico risulterebbe sufficiente un insegnamento del genitore cattolico il più possibile vicino a quello della Chiesa, qualora non sia fattibile educare la prole dichiaratamente nella fede cattolica. Questo consentirebbe di trattenere uno degli ostacoli più significativi alla comunione di vita dei coniugi di fede diversa, ossia la conflittualità sull’orientamento religioso da impartire ai figli.

 

 

 

 

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Discorso del Santo Padre Francesco ai partecipanti all'incontro "European Jesuits in Formation".

Buongiorno. Sono contento di accogliervi. Grazie tante di questa visita, mi fa bene. Quando io ero studente, quando si doveva andare dal Generale, e quando con il Generale dovevamo andare dal Papa, si portava la talare e il mantello. Vedo che questa moda non c’è più, grazie a Dio.

Mi ha fatto ridere il sacerdote quando ha parlato di unificare la pastorale dei Gesuiti. Io avevo capito che si trattasse di unificare le anime e i cuori dei Gesuiti, non le modalità, perché se si fa questo finisce la Compagnia di Gesù. Si diceva che il primo ruolo del Generale era di “pascolare i Gesuiti”, e un altro diceva: “Sì, ma è come pascolare un gregge di rospi”: uno di qua, uno di là… Ma questo è bello, perché ci vuole una grande libertà, senza libertà non si può essere Gesuita. E una grande obbedienza al pastore; il quale deve avere il grande dono del discernimento per permettere a ognuno dei “rospi” di scegliere quello che sente che il Signore gli chiede. Questa è l’originalità della Compagnia: unità con grande diversità.

Il Beato Paolo VI ci ha detto, nella XXXII Congregazione generale, che lì dove ci sono gli incroci delle idee, dei problemi, delle sfide, lì c’è un Gesuita. Leggete quel discorso: a mio avviso è il discorso più bello che un Papa abbia fatto alla Compagnia. Era un momento difficile per la Compagnia, e il Beato Paolo VI incomincia il discorso così: “Perché dubitate? Un momento di dubbi? No! Coraggio!”. E vorrei collegarlo con un altro discorso, non di un Papa bensì di un Generale, di Pedro Arrupe: è stato il suo “canto del cigno”, nel campo rifugiati in Thailandia, non so se a Bangkok o a sud di Bangkok. Ha fatto quel discorso presso l’aereo ed è atterrato a Fiumicino con l’ictus. È stata la sua ultima predica, il suo testamento. In questi due discorsi c’è la cornice di quello che oggi la Compagnia deve fare: coraggio, andare alle periferie, agli incroci delle idee, dei problemi, della missione… Lì c’è il testamento di Arrupe, il “canto del cigno”, la preghiera. Ci vuole coraggio per essere Gesuita. Non vuol dire che un Gesuita debba essere incosciente, o temerario, no. Ma avere coraggio. Il coraggio è una grazia di Dio, quella parresia paolina… E ci vogliono ginocchia forti per la preghiera. Credo che con questi due discorsi voi avrete l’ispirazione per andare dove lo Spirito Santo vi dirà, nel cuore.

Poi si parla di comunicazione, che è uno dei vostri temi. A me piace tanto il metodo comunicativo di San Pietro Favre: sì, Favre comunicava e lasciava che gli altri comunicassero. Leggete il memoriale: è un monumento alla comunicazione, sia quella interiore con il Signore, sia quella esterna con la gente.

E vi ringrazio per quello che fate. Andate avanti, agli incroci, senza paura. Ma siate ancorati al Signore.

Pregate per me, non dimenticatevi! Questo lavoro [del Papa] non è facile… Forse questa sembra un’eresia, ma abitualmente è divertente. Grazie.

Abbiamo ancora alcuni minuti: se qualcuno di voi vuole fare qualche domanda o qualche riflessione, approfittiamo di questi minuti. Così io imparo dalle vostre eresie…

Domanda [in inglese]:
Grazie per le Sue parole, Santo Padre. Il tema dei nostri incontri è la comunicazione, i giovani. Qualcuno una volta mi ha detto che essere religiosi o sacerdoti significa che una cosa che non dovremo mai affrontare è la disoccupazione. Ma molti giovani, anche con una preparazione elevata, si trovano a rischiare la disoccupazione. Trovo che questo sia una sfida per me, per vedere le cose dal loro punto di vista, perché so che la Compagnia di Gesù e la Chiesa avranno sempre un compito per me, da qualche parte. Trovo che questa sia una grande sfida per la comunicazione: questa è un’esperienza di disoccupazione che so che non avrò mai. E’ una cosa che trovo difficile…

Papa Francesco:

Forse questo è uno dei problemi più acuti e più dolorosi per i giovani, perché va proprio al cuore della persona. La persona che non ha lavoro, si sente senza dignità. Ricordo una volta, nella mia terra, una signora è venuta a dirmi che sua figlia, universitaria, parlava parecchie lingue, non trovava lavoro. Io mi sono mosso con alcuni laici, lì, e hanno trovato un lavoro. Quella donna mi ha scritto un biglietto che diceva: “Grazie, Padre, perché Lei ha aiutato mia figlia a ritrovare la dignità”. Non avere lavoro toglie la dignità. E di più: non è il fatto di non poter mangiare, perché può andare alla Caritas e le danno da mangiare. Il problema è non poter portare il pane a casa: toglie la dignità. Quando io vedo – voi vedete – tanti giovani senza lavoro, dovremo domandarci perché. Troverete sicuramente la ragione: c’è una risistemazione dell’economia mondiale, dove l’economia, che è concreta, lascia il posto alla finanza, che è astratta. Al centro c’è la finanza, e la finanza è crudele: non è concreta, è astratta. E lì si gioca con un immaginario collettivo che non è concreto, ma è liquido o gassoso. E al centro c’è questo: il mondo della finanza. Al suo posto avrebbero dovuto esserci l’uomo e la donna. Oggi questo è, credo, il grande peccato contro la dignità della persona: spostarla dal suo posto centrale. Parlando l’anno scorso con una dirigente del Fondo Monetario Internazionale, lei mi ha detto che aveva avuto il desiderio di fare un dialogo fra l’economia, l’umanesimo e la spiritualità. E mi ha detto: “Sono riuscita a farlo. Poi mi sono entusiasmata e ho voluto farlo tra la finanza, l’umanesimo e la spiritualità. E non sono riuscita a farlo, perché l’economia, anche quella di mercato, si può aprire all’economia sociale di mercato, come aveva chiesto Giovanni Paolo II; invece, la finanza non è capace, perché tu non puoi afferrare la finanza: è ‘gassosa’ ”. La finanza assomiglia su scala mondiale alla catena di Sant’Antonio! Così, con questo spostamento della persona dal centro e col mettere al centro una cosa come la finanza, così “gassosa”, si generano vuoti nel lavoro.

Ho voluto dire questo in generale perché lì ci sono le radici del problema della mancanza di lavoro, posto dalla tua domanda: “Come posso io capire, comunicare e accompagnare un giovane che è in quella situazione di non lavoro?”. Fratelli, ci vuole creatività! In ogni caso. Una coraggiosa creatività, per cercare il modo di venire incontro a questa situazione. Ma non è una domanda superficiale, quella che tu hai fatto. Il numero dei suicidi giovanili è in aumento, ma i governi – non tutti – non pubblicano il numero esatto: pubblicano fino a un certo punto, perché è scandaloso. E perché si impiccano, si suicidano questi giovani? La ragione principale di quasi tutti i casi è la mancanza di lavoro. Sono incapaci di sentirsi utili e finiscono… Altri giovani non se la sentono di affrontare il suicidio, ma cercano un’alienazione intermedia con le dipendenze, e la dipendenza, oggi, è una via di fuga da questa mancanza di dignità. Pensate che dietro ad ogni dose di cocaina – pensiamo – c’è una grande industria mondiale che rende possibile questo, e probabilmente – non sono sicuro – il movimento di denaro più grande nel mondo. Altri giovani sul telefonino vedono cose interessanti come progetto di vita: almeno danno un lavoro… Questo è reale, succede! “Ah, io prendo l’aereo e vado ad arruolarmi nell’Isis: almeno avrò mille dollari in tasca ogni mese e qualcosa da fare!”. Suicidi, dipendenze e uscita verso la guerriglia sono le tre opzioni che i giovani hanno oggi, quando non c’è lavoro. Questo è importante: capire il problema dei giovani; far sentire [a quel giovane] che io lo capisco, e questo è comunicare con lui. E poi muoversi per risolvere questo problema. Il problema ha soluzione, ma bisogna trovare il modo, c’è bisogno della parola profetica, c’è bisogno di inventiva umana, bisogna fare tante cose. Sporcarsi le mani… È un po’ lunga la mia risposta alla tua domanda, ma sono tutti elementi per prendere una decisione nella comunicazione con un giovane che non ha lavoro. Hai fatto bene a parlare di questo, perché è un problema di dignità.

E cosa succede quando un Gesuita non ha lavoro? Lì c’è un problema grosso! Parla presto con il padre spirituale, con il superiore, fai un bel discernimento sul perché…

Grazie. Non ti do più lavoro [rivolto al traduttore].

Domani è la festa di San Pietro Favre: pregatelo perché ci dia la grazia di imparare a comunicare.

Preghiamo la Madonna: Ave o Maria…

[Benedizione]

E non dimenticatevi, per favore, quei due discorsi: quello del Beato Paolo VI, nel 1974, alla XXXII Congregazione generale, e quello di padre Arrupe in Tailandia, il suo canto del cigno, il suo testamento.


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Nuova redazione del n. 2267 del Catechismo della Chiesa Cattolica sulla pena di morte – Rescriptum “ex Audentia SS.mi”, 02.08.2018.

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Le mutilazioni genitali femminili e il concetto di violenza alla luce della normativa europea.


L'espressione "mutilazioni genitali femminili" (MGF), utilizzata nel diritto europeo, si riferisce a interventi sugli organi genitali femminili. Le singole pratiche che le compongono sono meglio note, a seconda del grado differente di ablazione, con le seguenti espressioni: escissione, fibulazione o, in inglese, "female genital cutting" (FGC).
Per delineare le forme che le ablazioni in questione possono assumere sono stati storicamente compiuti alcuni tentativi di classificazione. Tra questivi è quella utilizzata dalla dottoressa Marie- Hélène Mottin-Sylla nello studio Excision au Sénégal (1991), riportato dalla sociologa Isabelle Gillette, la quale individua due macro tipi, ciascuno dei quali si declina in tre gradi diversi, corrispondenti all'escissione vera e propria, e un terzo tipo, corrispondente all’infibulazione. Il primo tipo, detta escissione “sunna”, opera unicamente sul clitoride. Si può distinguere in un intervento cosiddetto benigno, che prevede l’ablazione del cappuccio del clitoride soltanto (grado I); un ntervento medio, che prevede l’ablazione del cappuccio e del glande del clitoride (grado II); un intervento severo, che prevede l’ablazione totale del clitoride (grado III). Il secondo tipo consiste in una clitoridectomia e in un’ablazione delle piccole e/o grandi labbra. Si possono distinguere la clitoridectomia e l’ablazione delle piccole labbra (grado I); la clitoridectomia, ablazione delle piccole labbra e l’ablazione parziale delle grandi labbra (grado II); la clitoridectomia e l’ablazione totale delle piccole e grandi labbra (grado III). Il terzo tipo, l’infibulazione, consiste nella clitoridectomia, nell’ablazione degli organi genitali esterni e nell’operazione per richiudere la piaga in modo più o meno completo. La distinzione tra l’escissione vera e propria e l’infibulazione sembra coerente con i diversi significati a esse attributi dalla letteratura. A seguito del fenomeno migratorio, quest’ultima è ormai diffusa anche nei paesi cosiddetti “occidentali”. Essa implica l’esistenza di un ordinamento normativo che considera gli individui come parte di un gruppo i cui interessi prevalgono sui suoi membri. Confligge con i diritti fondamentali riconosciuti dagli Stati moderni, in particolare il diritto all'integrità fisica, alla salute, alla non discriminazione in base al genere, all’etnia, alla cultura. Le condotte a essa relative sono considerate in questi Stati al pari delle altre forme di mutilazione genitale, “reati culturalmente motivati”. Sono infatti state introdotte norme, a livello nazionale, sovranazionale e internazionale per vietare e sanzionare tali interventi sui genitali femminili.
In tutti gli anni 2000 si è assistito a un intensificarsi degli interventi in materia di MGF da parte di istituzioni dell’UE, quali il Parlamento europeo, la Commissione europea, il Consiglio dell’Unione europea, così come da parte del Consiglio d’Europa. Tali interventi hanno consolidato l’associazione tra escissione e violenza, in particolare riconducendo l’escissione, tramite la categoria della mutilazione, nell’alveo della violenza di genere. Quanto suddetto emerge ancora più esplicitamente dalla direttiva 2012/29/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 25 ottobre 2012, che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato, e sostituisce la decisione quadro 2001/220/GAI8. Essa afferma infatti che la violenza di genere «comprende la violenza nelle relazioni strette, la violenza sessuale compresi lo stupro, l’aggressione sessuale e le molestie sessuali), la tratta di esseri umani, la schiavitù e varie forme di pratiche dannose, quali i matrimoni forzati, la mutilazione genitale femminile e i cosiddetti “reati d’onore”». Tali pratiche sono annoverate, dunque, tra le "forme di violenza di cui le donne sono vittime in quanto donne" (comunicazione della Commissione al PE, al Consiglio, al Comitato Economico e Sociale europeo e al Comitato delle Regioni sulla strategia per la parità tra donne e uomini 2010-2015, adottata dalla Commissione il 21 settembre 2010). Rientrano nell'alveo dei "crimini" e, pertanto, meritano repressione, punizione e "tolleranza zero" (cit. "Giornata internazionale della tolleranza zero nei confronti della mutilazione genitale femminile", Bruxelles, 5 febbraio 2018).

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Il Papa: no all'eugenetica che sopprime gli imperfetti.

"Cari fratelli e sorelle,

Mi rallegra incontrarvi, soprattutto perché in questi giorni avete affrontato un tema di grande importanza per la vita della Chiesa nella sua opera di evangelizzazione e formazione cristiana: La catechesi e le persone con disabilità. Ringrazio S.E. Mons. Fisichella per la sua introduzione, il Dicastero da lui presieduto per il suo servizio e tutti voi per il vostro lavoro in questo campo.

Conosciamo il grande sviluppo che nel corso degli ultimi decenni si è avuto nei confronti della disabilità. La crescita nella consapevolezza della dignità di ogni persona, soprattutto di quelle più deboli, ha portato ad assumere posizioni coraggiose per l’inclusione di quanti vivono con diverse forme di handicap, perché nessuno si senta straniero in casa propria. Eppure, a livello culturale permangono ancora espressioni che ledono la dignità di queste persone per il prevalere di una falsa concezione della vita. Una visione spesso narcisistica e utilitaristica porta, purtroppo, non pochi a considerare come marginali le persone con disabilità, senza cogliere in esse la multiforme ricchezza umana e spirituale. E’ ancora troppo forte nella mentalità comune un atteggiamento di rifiuto di questa condizione, come se essa impedisse di essere felici e di realizzare sé stessi. Lo prova la tendenza eugenetica a sopprimere i nascituri che presentano qualche forma di imperfezione. In realtà, tutti conosciamo tante persone che, con le loro fragilità, anche gravi, hanno trovato, pur con fatica, la strada di una vita buona e ricca di significato. Come d’altra parte conosciamo persone apparentemente perfette e disperate! D’altronde, è un pericoloso inganno pensare di essere invulnerabili. Come diceva una ragazza che ho incontrato nel mio recente viaggio in Colombia, la vulnerabilità appartiene all’essenza dell'uomo.

La risposta è l’amore: non quello falso, sdolcinato e pietistico, ma quello vero, concreto e rispettoso. Nella misura in cui si è accolti e amati, inclusi nella comunità e accompagnati a guardare al futuro con fiducia, si sviluppa il vero percorso della vita e si fa esperienza della felicità duratura. Questo – lo sappiamo – vale per tutti, ma le persone più fragili ne sono come la prova. La fede è una grande compagna di vita quando ci consente di toccare con mano la presenza di un Padre che non lascia mai sole le sue creature, in nessuna condizione della loro vita. La Chiesa non può essere “afona” o “stonata” nella difesa e promozione delle persone con disabilità. La sua vicinanza alle famiglie le aiuta a superare la solitudine in cui spesso rischiano di chiudersi per mancanza di attenzione e di sostegno. Questo vale ancora di più per la responsabilità che possiede nella generazione e nella formazione alla vita cristiana. Non possono mancare nella comunità le parole e soprattutto i gesti per incontrare e accogliere le persone con disabilità. Specialmente la Liturgia domenicale dovrà saperle includere, perché l’incontro con il Signore Risorto e con la stessa comunità possa essere sorgente di speranza e di coraggio nel cammino non facile della vita.

La catechesi, in modo particolare, è chiamata a scoprire e sperimentare forme coerenti perché ogni persona, con i suoi doni, i suoi limiti e le sue disabilità, anche gravi, possa incontrare nel suo cammino Gesù e abbandonarsi a Lui con fede. Nessun limite fisico e psichico potrà mai essere un impedimento a questo incontro, perché il volto di Cristo risplende nell’intimo di ogni persona. Inoltre stiamo attenti, specialmente noi ministri della grazia di Cristo, a non cadere nell’errore neo-pelagiano di non riconoscere l’esigenza della forza della grazia che viene dai Sacramenti dell’iniziazione cristiana. Impariamo a superare il disagio e la paura che a volte si possono provare nei confronti delle persone con disabilità. Impariamo a cercare e anche a “inventare” con intelligenza strumenti adeguati perché a nessuno manchi il sostegno della grazia. Formiamo – prima di tutto con l’esempio! – catechisti sempre più capaci di accompagnare queste persone perché crescano nella fede e diano il loro apporto genuino e originale alla vita della Chiesa. Da ultimo, mi auguro che sempre più nella comunità le persone con disabilità possano essere loro stesse catechisti, anche con la loro testimonianza, per trasmettere la fede in modo più efficace.

Vi ringrazio per il vostro lavoro di questi giorni e per il vostro servizio nella Chiesa. La Madonna vi accompagni. Vi benedico di cuore. E vi chiedo, per favore, di non dimenticarvi di pregare per me.

Grazie!"

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Lo sbattezzo

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L’intelligenza artificiale secondo Mancuso (teologo).

Se è vero che il pensiero non è esclusivo dell'essere umano ma di tutti gli esseri viventi, è altresì vero che è esclusivo dell'essere umano il pensiero libero, non funzionale solo alla sopravvivenza. Secondo il filosofo Hans Jonas, infatti, l'homo pictor è ciò che ci ha caratterizzati come esseri viventi; è quando l'uomo diventa "pictor" nelle caverne e fa delle cose senza scopo che mostra la propria peculiarità e si distacca dagli altri esseri viventi. L'homo pictor è quindi il punto di incontro tra homo faber e homo sapiens; se l'uomo fosse solo homo faber nulla ci distinguerebbe dall'animale.

Premesso cosa sia il pensiero, si può affermare che la tecnologia sia un pericolo al pensare, perché questo nasce dal silenzio, dal distacco, dal vuoto. Se ritorniamo dalla cosmologia biblica troviamo che all’inizio il mondo è lo spazio vuoto: un abisso. Si parla di chaos che in greco significa spazio vuoto e che solo in seguito ha assunto l’accezione di disordine. Perché ci possa essere cosmogenesi ci deve essere il vuoto. La mente riesce ad agire quando non si sofferma sul problema, ma si distacca da questo. Il rischio delle macchine è che per queste non ci sia mai il vuoto. Le macchine producono REAZIONE, non azione. Tutto è regolato come in una società lineare, ma senza discontinuità non c'è evoluzione. 

Il rapporto uomo – nuovo tecnologie, paradossalmente, è ritrovare il rapporto che l’uomo antico aveva con le divinità. Gli dei sono stati inventati dagli uomini e noi ne siamo diventati schiavi. Lo stesso Dio biblico è una proiezione della volontà di potenza dei maschi, intesa come il voler schiacciare i nemici, la ricerca della supremazia, il dio degli eserciti. E visto che siamo noi a creare le macchine, allora il rischio che diventino il nuovo dio degli eserciti esiste.


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La maternità surrogata nel diritto italiano e in quello ebraico.

In ambito di biogenetica, grazie ai progressi della tecnologia in materia di tecniche riproduttive, si è assistito ad un cambiamento culturale del concetto di maternità, non più riducibile alla definizione giuridica di “madre” offerta dalla nostra disciplina civilistica, ossia di colei che partorisce il bambino. In particolare, le tecnologie della procreazione assistita dividono vicenda procreativa e unione sessuale della coppia producendo la nascita di nuove tipologie contrattuali biogiuridiche. I giudici di palazzo della Consulta hanno dichiarato l’incostituzionalità del divieto stabilito dell’art. 4, terzo comma, legge n. 40 del 2004, legittimando la fecondazione eterologa. Eppure, il fenomeno della gestazione per altri è rimasta una figura giuridica di genitorialità estrema e controversa - il legislatore infatti si trova nella posizione di garantire protezione alla autonomia decisionale della donna e, al tempo stesso, tutelare colei che si è incaricata della gestazione – tanto che il sistema normativo italiano ha vietato la surrogazione di maternità, corredando il divieto con una sanzione penale.

Per quanto riguarda la relazione tra diritto ebraico e bioetica, va innanzitutto considerato che la legge ebraica è legge scritta (Torah). Accanto alla legge scritta vi è la legge orale composta da interpretazioni e tradizioni tramandate e ripetute oralmente. Le autorità rabbiniche fondano la necessità della legge orale nell’impossibilità della Torah di prevedere ogni singola fattispecie che avrebbe potuto presentarsi nel costante divenire dell’umana esperienza. La pietra miliare della legge orale è il Talmud, i cui precetti sono considerati vincolanti per tutti gli ebrei. Il diritto ebraico, dunque, può essere definito come l’aspetto precettivo della religione ebraica, che si identifica nella halakhah, ovvero nell’insieme di regole coattive di comportamento contenute nei cinque libri della Torah.

Identificare quale sia lo spazio che la bioetica occupa nella legge ebraica, scritta e orale, e dunque nella halakhah è tutt’altro che agevole.

Anche se, sotto un profilo teorico, la natura divina del diritto ebraico dovrebbe ripudiare le opinioni eterodosse che si discostano dalla applicazione e interpretazione della halakhah tramandata dalla tradizione rabbinica, non si possono trascurare importanti filoni di pensiero giuridico e scientifico idonei a conferire un respiro più ampio alle problematiche etiche della vita al suo esordio. Il fondamentale principio bioetico del diritto ebraico è quello della sacralità della vita umana, che appartiene solamente a Dio.

È bene tener presente che l’halakhah attribuisce un inestimabile valore alla prole e al benessere del rapporto coniugale (shelom bait); ciò ha orientato le autorità rabbiniche verso il possibile accoglimento di questa forma di genitorialità, a fronte dell’incapacità procreativa della coppia. D’altro canto ciò non si pone in conflitto con i principi fondamentali dell’ebraismo poiché la Bibbia riporta alcuni casi eclatanti di gestazione per altri.

In linea generale, anche gli interpreti più rigorosi non si dimostrano ostili al ricorso alle biotecnologie riproduttive, per la fondamentale ragione che in nessuna di esse si opera una “creazione dal nulla”, cosa di cui solo Dio è capace, ma solo “creazione da qualcosa”. L’uomo è chiamato a cooperare con Dio nel donare e preservare la vita, tanto che la maggioranza dei poskim ritiene che vi sia adempimento del precetto biblico “crescete e moltiplicatevi” anche nel caso dell’utilizzo, da parte della coppia infertile, delle tecniche di procreazione assistita. Sotto tale profilo, si nota una particolare attenzione da parte dei decisori affinché non venga violato il divieto, contenuto nelle fonti, di disperdere lo sperma, intendendosi per dispersione qualsiasi emissione di liquido seminale che non avvenga nell’ambito del rapporto coniugale, all’interno dell’organo sessuale femminile. Tuttavia, i decisori generalmente ritengono che la durezza del divieto sia riservata alla pratica impeditiva del concepimento mentre venga temperata dal desiderio meritorio dell’uomo di adempiere al precetto di donare la vita, rendendo lecita, seppure a determinate condizioni, la pratica della raccolta del seme maschile per la fecondazione dell’ovulo. Le maggiori difficoltà di ordine etico-giuridico correlate alla gravidanza per altri discendono dalla plurisoggettività del rapporto procreativo poiché il Talmud sottolinea, nella vicenda generativa, la compartecipazione fra Dio e i genitori. Ora, se il seme maschile utilizzato per la fecondazione è quello del padre committente, egli sarà senza dubbio considerato padre del nato da surrogazione, mentre i problemi halachici si fanno di più difficile soluzione allorché il materiale gametico provenga da soggetti estranei alla coppia. Difatti, ove la donazione degli spermatozoi sia eterologa, per alcuni decisori ortodossi si configurerebbe l’ipotesi dell’adulterio. Per la maggioranza dei poskim, al contrario, ci si troverebbe di fronte alla violazione del precetto biblico solo nel caso di un rapporto sessuale consumato, con la conseguenza che la fecondazione dell’ovulo col materiale gametico di un terzo donatore non sarebbe proibita.

Il diritto ebraico non mostra pregiudizio contro la fecondazione eterologa nemmeno nel caso in cui ci fosse l’intervento di una seconda donna nella vicenda procreativa. Tuttavia, sorge il problema dell’attribuzione legale della maternità. Sul punto non vi sono fonti halachiche che affrontino direttamente il problema; le opinioni dei decisori sono discordanti e si assiste a una rilevante disomogeneità delle soluzioni offerte.


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La gravidanza imprevista e la nullità del matrimonio canonico.

La gravidanza imprevista non è un capo di nullità a sé stante, ma è un elemento di fatto ricorrente in diverse fattispecie di nullità. A seconda della causa giuridica di invalidità e delle particolarità del caso concreto, la gravidanza imprevista può assumere una rilevanza diversa: può rappresentare un fatto costitutivo o principale di una fattispecie giuridica di nullità; può risultare un fatto semplice o secondario con valore inferenziale in ordine al fatto principale, costituendo un indizio da cui trarre conclusioni sulla prova della nullità secondo lo schema argomentativo della presunzione; può essere un fatto meramente accessorio. Il valore da riconoscere alla gravidanza imprevista deve essere quindi esaminato caso per caso, in rapporto al complesso delle circostanze della fattispecie storica e in rapporto alla specifica causa di nullità. Tale valutazione risulta comunque un’operazione per nulla facile, in quanto, da un lato, la gravidanza imprevista non è un fatto semplice, ma un fatto complesso; dall’altro, la gravidanza imprevista non è un indizio univoco.

La gravidanza imprevista deve essere considerata un fatto complesso, in quanto risulta composta da una pluralità di fatti e di circostanze tra loro connessi. Invero, non basta il mero insorgere di una gravidanza, ma occorre che sia una gravidanza prenuziale e imprevista. Mentre il primo elemento pare più facile da dimostrare, in quanto sia l’evento della gravidanza sia il momento del suo inizio sono fatti obiettivi, corrispondenti a fenomeni naturali, ed in quanto tali possono essere chiaramente rilevati con mezzi di prova sia diretti che indiretti, meno facile risulta la dimostrazione dell’altro elemento ritenuto necessario per attribuire rilevanza alla gravidanza, ossia l’essere una gravidanza “haud praevisa”. Una gravidanza imprevista o inaspettata non è semplicemente una gravidanza improvvisa, ma è una gravidanza non programmata, che si può configurare quando il concepimento avviene contro o a prescindere dalla volontà dei futuri genitori. L’accertamento di queste circostanze risulta certamente meno evidente, in quanto implica di considerare le disposizioni soggettive dei nubendi che non sono sempre rilevabili in foro esterno o non sono sempre manifeste. La prova principale e diretta può essere data dalle dichiarazioni delle parti, ma se i due coniugi non sono d’accordo, la parola dell’uno contesta quella dell’altro, rendendo dubbie le affermazioni di entrambi. A integrazione o conferma delle dichiarazioni delle parti, si può ricorrere all’aiuto delle argomentazioni presuntive, traendo dagli indizi inerenti alla qualità della relazione prenuziale deduzioni in merito alla sussistenza o meno della volontà di procreare. Così, dal fatto che la gravidanza è insorta quando i due nubendi si erano appena conosciuti, oppure nel corso di una relazione che, se pure perdurava da tempo, non era comunque orientata a un progetto di matrimonio e di famiglia, si può trarre la conseguenza probabile che il concepimento non sia stato cercato. Si tratta tuttavia di argomentazioni presuntive fondate su schemi di ricorrenza probabile nei rapporti umani che, come si è visto, non raggiungono da sole la prova piena ma richiedono di essere verificate alla luce di altri elementi specifici della causa, quali la personalità delle parti e il loro reale modo di agire. 

La gravidanza imprevista può essere la conseguenza di comportamenti delle parti tra loro molto divergenti, che possono quindi giustificare letture diverse circa il coinvolgimento della loro volontà in ordine alla procreazione. Il concepimento, infatti, può essere avvenuto per un caso del tutto fortuito, non previsto e non prevedibile da parte dei nubendi che pure avevano fatto ricorso agli usuali metodi contraccettivi; oppure, per contro, può essere il risultato di condotte imprudenti e avventate dei nubendi che non hanno adottato alcuna cautela idonea a evitare la procreazione. Se nel primo caso risulta più probabile dedurre il carattere inaspettato della gravidanza, nel secondo, invece, si potrebbe quasi intravvedere una possibile responsabilità dei nubendi, nella misura in cui avrebbero potuto e dovuto prevedere l’insorgere della gravidanza ed evitarla con l’uso della normale diligenza. Ma anche in quest’ultima situazione si potrebbero argomentare deduzioni diverse in considerazione della personalità delle parti e delle motivazioni delle loro azioni. Se i due, per l’età o la condizione, erano del tutto ignari e sprovveduti circa le possibili conseguenze del loro comportamento e dei modi per evitarle, si può ritenere che la gravidanza sia stata per loro davvero imprevista e inaspettata. Se, al contrario, i due erano consapevoli della possibilità del concepimento e hanno omesso coscientemente di ricorrere alle precauzioni minimali per impedirlo, si può fondatamente presumere che abbiano accettato il rischio di procreare e quindi la gravidanza non sia stata per loro imprevista o inaspettata. Dai diversi comportamenti delle parti si possono dunque trarre indizi diversi sull’atteggiamento in ordine alla procreazione, ma ciò che risulta rilevante ai fini delle fattispecie di nullità del matrimonio non è tanto la condotta prima del concepimento, quanto piuttosto quella successiva, ossia la reazione che hanno avuto alla scoperta della gravidanza e gli effetti che questa reazione produce sul processo di scelta del matrimonio. 

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Discorso del Santo Padre del 17.3.2018.

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Sono lieto di trovarmi in questo paese, dove Francesco Forgione nacque e iniziò la sua lunga e feconda vicenda umana e spirituale. In questa comunità egli temprò la propria umanità, imparò a pregare e a riconoscere nei poveri la carne del Signore, finché crebbe nella sequela di Cristo e chiese di essere ammesso tra i Frati Minori Cappuccini, diventando in tal modo fra Pio da Pietrelcina. Qui egli cominciò a sperimentare la maternità della Chiesa, della quale fu sempre figlio devoto. Amava la Chiesa, amava la Chiesa con tutti i suoi problemi, con tutti i suoi guai, con tutti i nostri peccati. Perché tutti noi siamo peccatori, ci vergogniamo, ma lo Spirito di Dio ci ha convocato in questa Chiesa che è santa. E lui amava la Chiesa santa e i figli peccatori, tutti. Questo era san Pio. Qui meditò con intensità il mistero di Dio che ci ha amati fino a dare Sé stesso per noi (cfr Gal 2,20). Ricordando con stima e affetto questo Santo discepolo di San Francesco, saluto cordialmente tutti voi suoi compaesani, il vostro Parroco e il Sindaco insieme al Pastore della diocesi, Mons. Felice Accrocca, alla comunità dei Cappuccini e a tutti voi che avete voluto essere presenti.

Ci troviamo oggi nello stesso terreno sul quale padre Pio dimorò nel settembre del 1911 per “respirare un po’ di aria più sana”. In quel tempo non c’erano gli antibiotici e le malattie si curavano tornando al paesino natale, dalla mamma, a mangiare le cose che fanno bene, respirare bene l’aria e a pregare. Così fece lui, come un uomo qualsiasi, come un contadino. Questa era la sua nobiltà. Mai rinnegò il suo paese, mai rinnegò le sue origini, mai rinnegò la sua famiglia.  In quel tempo, infatti, egli risiedeva nel suo paese natale per motivi di salute. Quello non fu, per lui, un periodo facile: era fortemente tormentato nell’intimo e temeva di cadere nel peccato, sentendosi assalito dal demonio. E questo non dà pace, perché si muove [si dà da fare]. Ma voi credete che il demonio esiste?... Non siete tanto convinti? Dirò al vescovo di fare delle catechesi... Esiste o non esiste il demonio? [rispondono: “Sì!”]. E va, va da ogni parte, si mette dentro di noi, ci muove, ci tormenta, ci inganna. E lui [P. Pio], aveva paura che il demonio lo assalisse, lo spingesse al peccato. Con pochi poteva parlarne sia per via epistolare sia in paese: al solo arciprete don Salvatore Pannullo manifestò «quasi tutto» il suo «intento per averne dei rischiaramenti» (Lettera 57, in Epistolario I, p. 250), perché non capiva, voleva chiarire cosa accadeva nella sua anima. Era un bravo ragazzo!

In quei terribili momenti padre Pio trasse linfa vitale dalla preghiera continua e dalla fiducia che seppe riporre nel Signore: «Tutti i brutti fantasmi – così diceva – che il demonio mi va introducendo nella mente spariscono allorché fiducioso mi abbandono nelle braccia di Gesù». Qui c’è tutta la teologia! Tu hai un problema, tu sei triste, sei ammalato: abbandonati nelle braccia di Gesù. E questo ha fatto lui. Amava Gesù e si fidava di Lui. Così scriveva al Ministro provinciale, asserendo che il proprio cuore si sentiva «attratto da una forza superiore prima di unirsi a Lui la mattina in sacramento». «E questa fame e sete anziché rimanere appagata», dopo averlo ricevuto, «si accresce[va] sempre più» (Lettera 31, in Epistolario I, p. 217). Padre Pio si immerse quindi nella preghiera per aderire sempre meglio ai disegni divini. Attraverso la celebrazione della Santa Messa, che costituiva il cuore di ogni sua giornata e la pienezza della sua spiritualità, raggiunse un elevato livello di unione con il Signore. In questo periodo, ricevette dall’alto speciali doni mistici, che precedettero il manifestarsi nelle sue carni dei segni della passione di Cristo.

Cari fratelli e sorelle di Pietrelcina e della diocesi di Benevento, voi annoverate san Pio tra le figure più belle e luminose del vostro popolo. Questo umile frate cappuccino ha stupito il mondo con la sua vita tutta dedita alla preghiera e all’ascolto paziente dei fratelli, sulle cui sofferenze riversava come balsamo la carità di Cristo. Imitando il suo eroico esempio e le sue virtù, possiate diventare voi pure strumenti dell’amore di Dio, dell’amore di Gesù verso i più deboli. Al tempo stesso, considerando la sua incondizionata fedeltà alla Chiesa, darete testimonianza di comunione, perché solo la comunione – cioè l’essere sempre uniti, in pace fra noi, la comunione fra noi – edifica e costruisce. Un paese che litiga tutti i giorni non cresce, non si costruisce; spaventa la gente. È un paese malato e triste. Invece un paese dove si cerca la pace, dove tutti si vogliono bene – più o meno, ma si vogliono bene –, non ci si augura del male, questo paese, benché piccolo, cresce, cresce, cresce, si allarga e diventa forte. Per favore non spendete tempo, forze, a litigare fra voi. Questo non fa nulla. Non ti fa crescere! Non ti fa camminare. Pensiamo a un bambino che piange, piange, piange e non vuole muoversi dalla sua culla e piange, piange. E quando la mamma lo mette sul pavimento perché incominci a gattonare, piange, piange… e torna nella culla. Vi domando: quel bambino sarà capace di camminare? No. perché è sempre nella culla! Se un paesino litiga, litiga, litiga, sarà capace di crescere? No. Perché tutto il tempo, tutte le forze vanno a litigare. Per favore: pace fra voi, comunione fra voi. E se a qualcuno di voi viene voglia di chiacchierare di un altro, mordetevi la lingua. Vi farà bene, bene all’anima, perché la lingua si gonfierà, ma vi farà bene; anche al paese. Date questa testimonianza di comunione. Auspico che questo territorio possa trarre nuova linfa dagli insegnamenti di vita di padre Pio in un momento non facile come quello presente, mentre la popolazione decresce progressivamente e invecchia perché molti giovani sono costretti a recarsi altrove per cercare lavoro. La migrazione interna dei giovani, un problema. Pregate la Madonna perché vi dia la grazia che i giovani trovino lavoro qui, fra voi, vicino alla famiglia, e non siano costretti ad andarsene a cercare da un’altra parte e il paese giù, giù, giù. La popolazione invecchia, ma è un tesoro, i vecchi sono un tesoro! Per favore, non emarginate i vecchi. Non bisogna emarginare i vecchi, no. I vecchi sono la saggezza. E che i vecchi imparino a parlare con i giovani e i giovani imparino a parlare con i vecchi. Loro hanno la saggezza di un paese, i vecchi. Quando sono arrivato mi è piaciuto tanto salutare uno di 99 anni e una “ragazzina” di 97. Bellissimo! Questi sono la vostra saggezza! Parlate con loro. Che siano protagonisti della crescita di questo paese. L’intercessione del vostro Santo concittadino sostenga i propositi di unire le forze, così da offrire soprattutto alle giovani generazioni prospettive concrete per un futuro di speranza. Non manchi un’attenzione sollecita e carica di tenerezza – come ho detto – agli anziani, che sono patrimonio delle nostre comunità. Mi piacerebbe che una volta si desse il premio Nobel agli anziani che danno memoria all’umanità.

Incoraggio questa terra a custodire come un tesoro prezioso la testimonianza cristiana e sacerdotale di san Pio da Pietrelcina: essa sia per ciascuno di voi uno stimolo a vivere in pienezza la vostra esistenza, nello stile delle Beatitudini e con le opere di misericordia. La Vergine Maria, che voi venerate con il titolo di Madonna della Libera, vi aiuti a camminare con gioia sulla via della santità. E per favore, pregate per me, perché ho bisogno. Grazie!

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Biotestamento, la Cei pronta alla battaglia.

Una presa di posizione unitaria e che si annuncia decisamente contraria alla legge sarà partorita dalla discussione al consiglio permanente della Cei, all’inizio del 2018. La Conferenza episcopale italiana, dal cardinale presidente Gualtiero Bassetti in giù, appare compatta nell’esprimere un giudizio fortemente negativo sul biotestamento all’italiana. E la chiamata all’obiezione di coscienza nelle strutture ospedaliere cattoliche è un dato di fatto.

La nuova legge sulle DAT è stata definita «censurabile» dal vescovo di Ascoli Piceno Giovanni D’Ercole; «inaccettabile» dal vescovo di Trieste Gianpaolo Crepaldi. Mentre l’ex presidente dei vescovi italiani, cardinale Angelo Bagnasco, dice: «Questa legge non mi rallegra, non è un segno di civiltà». 

Nella nuova Carta per gli Operatori Sanitari, pubblicata dal Vaticano a febbraio, si afferma che eventuali legalizzazioni dell’eutanasia suscitano «un grave e preciso obbligo di opporsi mediante obiezione di coscienza». In quello stesso testo si legge pure che «la nutrizione e l’idratazione, anche artificialmente somministrate, rientrano tra le cure di base dovute al morente, quando non risultino troppo gravose o di alcun beneficio». E questo evidentemente lascia aperta la possibilità che possano essere sospese in qualche caso. 

Un mese fa sul tema del fine vita era intervenuto Papa Francesco, con parole chiare sul no all’eutanasia, ma anche all’accanimento terapeutico, in una lettera indirizzata a un convegno internazionale sul fine vita in corso in Vaticano. Parole che vennero considerate una svolta aperturista, anche perché negli ultimi decenni diverse voci cattoliche non avevano più sottolineato questo aspetto tradizionale del magistero, finendo per far credere all’opinione pubblica che il rischio dell’accanimento terapeutico quasi non esista. 

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Finanza etica e diritti religiosi: pene canoniche e sanzioni islamiche.

Le circostanze sin qui richiamate spingono ad alcune brevi riflessioni anche sul sistema sanzionatorio degli ordinamenti islamici, e sulle differenze che possono cogliersi rispetto a quello disegnato dal Codice di diritto canonico.

In relazione al trattamento sanzionatorio, a differenza che nella Chiesa cattolica, nell’Islam è più intenso il disvalore legato alla trasgressione delle prescrizioni coraniche e della legge islamica in materia economica.

Infatti alcuni reati economico-finanziari moderni - come il riciclaggio di denaro (Money laundering), il phishing in internet, le frodi telematiche (Cyber fraud), il furto d’identità (Identity Theft), e altri le cui definizioni sono attualmente fornite dalla giurisprudenza islamica - sono egualmente sussunti nell’ambito del Corano o della Sunnah del Profeta, e declinati in termini di violazioni di altrettante prescrizioni e/o divieti, con la conseguenza che anche le modulazioni delle sanzioni per detti comportamenti sono riportate a disposizioni divine e solo residualmente sono demandate a determinazioni discrezionali (ta’zir) dell’Autorità pubblica.

Questo sistema sanzionatorio si presenta dunque particolarmente rigido (soprattutto in “uscita”, si pensi al reato di apostasia), ancorato sempre a una precisa disposizione religiosa di origine divina, circostanza quest’ultima che sembrerebbe impedire anche nell’ambito sanzionatorio azioni interpretative di tipo innovativo, in favore, piuttosto, di attività di tipo meramente integrativo.

Va sottolineato che il sistema islamico oltre alla capacità di creazione di un suo peculiare modello economico, ne ha anche incentivato l’implementazione ricorrendo comunque a una complessiva operazione di deterrenza confessionale.

Ora, un approccio simile potrebbe essere adottato anche nell’ambito della tradizione ordinamentale cattolica.

La possibilità di sfruttare l’effetto deterrente della sanzione canonica potrebbe risultare funzionale non solo a indirizzare le scelte dei singoli (anche non cattolici o non credenti) nella selezione dei prodotti finanziari quando grazie a essa vengano percepiti come ammantati da un giudizio complessivo di riprovevolezza morale, ma anche indirizzando le scelte generali degli operatori economici “positivamente” influenzati dal timore di un “effetto valanga”.

Non sembrerebbe troppo utopistico pensare ad un’implementazione di un modello economico “antagonista” della finanza islamica attraverso una canalizzazione più efficace verso principi solidaristici tipici dell’insegnamento cattolico, che già oggi si pongono efficacemente alla base della c.d. economia civile o economia di comunione.

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Tutela del diritto alla buona fama: prospettiva ecclesiale.

Il diritto alla buona fama è connesso con la natura dell’uomo come ius nativum. Il Legislatore canonico enuncia questo diritto al can. 220 del Codex estendendolo a “chiunque”, anche se non cattolico o non battezzato, e lo inserisce nel contesto di una normativa compresa tra i cann. 208-223 che delinea i rapporti all’interno di una realtà ecclesiale vista come comunione.

 

La dignità dell’uomo viene coronata da una dimensione di onorabilità con l’ammissione ricevuta da Dio ad essere partecipe della stessa che Lui possiede, specie in forza della rigenerazione in Cristo.

 

Il cristiano ha come esigenza la radicale adesione al supremo comandamento dell’amore e alla verità.L’amore per la verità e per il prossimo si oppone alla falsificazione della rappresentazione della realtà che può sfociare nella calunnia, nell’adulazione, nella falsa testimonianza e nel giudizio temerario.

 

La buona fama del cristiano è un bene temporale prossimo ai beni spirituali e include, oltre alle qualità umane, le virtù cristiane, l’integrità della fede, la permanenza della comunione del fedele con la Chiesa e con Dio.

 

La diffamazione ha come base la violazione della legge della creazione e della redenzione e costituisce un vulnus per il bene comune della Chiesa.

 

La diffamazione tende a compromettere la posizione del fedele nel Corpo sociale della Chiesa e a menomare il suo status giuridico fondato sul battesimo. Viene compromessa anche l’immagine e la credibilità della Chiesa nell’agire dei suoi componenti con la perdita della bona existimatio, e, infine, la salus animarum di chi delinque.

 

La tutela penale del diritto alla buona fama non si ferma al diritto reclamato dal soggetto passivo della diffamazione.

 

L’ordinamento canonico non può che offrirci una prospettiva ecclesiale in tema di tutela del diritto alla buona fama perché la restaurazione della comunione ecclesiale deve coincidere con la restaurazione dell’ordine della carità che è stata violata. Per questo l’irrogazione della pena non avrebbe alcun senso e valore se non si tenesse conto della finalità salvifica di quanti necessitano di essere reintegrati nella comunità come membra vive della Chiesa.

 

Società e delinquente rientrano in un unico progetto di restaurazione della comunione in cui l’emendamento del reo segna il reinserimento nel Corpo della Chiesa di un suo membro.

 

Si comprende, pertanto, perché l’attenzione al reo di diffamazione sia centrale nella prospettiva pastorale del Legislatore. Al diritto di ogni uomo di vedersi tutelata la buona fama di cui “chiunque” gode (can. 220), corrisponde la sanzione penale prevista dal can. 1390 §2 per chi, soggetto all’ordinamento canonico (can. 11), viene meno a questo dovere.

 

Il danno provocato dal delitto di diffamazione travalica la sfera meramente privatistica della parte offesa per entrare nella dimensione giuridica che attiene all’interesse pubblico della Chiesa.

Il processo penale, benché sia considerato l’extrema ratio, è finalizzato alla restaurazione dell’ordine della carità e della comunione ecclesiale. Al contrario, il ristoro del danno arrecato alla parte offesa, essendo di natura privatistica, può essere reclamato da questi in modo facoltativo e si risolve con un’azione contenziosa prevista dal can. 128, non essendo più contemplato come sanzione penale già inscritta nel Codex previgente del 1917.

 

In definitiva, l’esistenza di tutta la normativa che ha per oggetto la “buona fama” attesta la volontà del Legislatore canonico di apportare strumenti giuridici sempre più idonei in ordine alla realizzazione del bene comune della Chiesa.

 

Bona fama, vulgari loquendo, intendi debet ut “considerazione sociale, cui si oppongono rispettivamente l’ingiuria e la diffamazione” (G. Dalla Torre, Ad can. 220, in Commento al Codice di Diritto Canonico, cura P. V. Pinto, LEV, Città del Vaticano 2001, p.127). Sic can. 220 statuit: “Nemini licet bonam famam, qua quis gaudet, illegitime laedere, nec ius cuiusque personae ad propriam intimitatem tuendam violare”.

Etenim Em.mus Velasius De Paolis adfirmat: “Il delitto d’ingiuria consiste nella violazione di un diritto altrui nelle cose e nella persona. […] La fama può essere lesa, sia propagando in modo indebito e ingiusto notizie, anche se vere, che danneggiano la fama o la reputazione di una persona presso la comunità. Ognuno ha diritto a che la sua fama sia rispettata e custodita” (Ad can. 1452, in Commento al Codice dei Canoni delle Chiese Orientali, cura P. V. Pinto, LEV, Città del Vaticano 2001, p. 1143).

 

Iurisprudentia Rotalis distinguit varias formas patrandi crimen diffamationis, et requisita ad contra agendum. “Sub diffamationis nomine venit tum detractio, seu occulti criminis iniusta revelatio, tum calumnia, sue mendax infamatio. Ut una vel alia iuridice imputetur, necessarius est dolus, seu deliberata voluntas alienam famam denigrandi” (coram Parrillo, sent. diei 4 aprilis 1933, vol. XXV, pp. 188-189, nn.4-5). Etenim, coram Wynen, in casu iniuriae verbalis, habitur posse contumelia, detractio vel calumnia. Et “contra eum, qui uno ex tribus modis iustitiam laedit, institui potest actio iuniuriarium vel diffamationis; et quidem actio contra eum, qui honorem alienum laesit seu contumeliam peregit, saepe simpliciter vocatur <actio iniuriarium>, actio autem contra detractorem et calumniatorem, <actio diffamationis>” (coram Wynen, sent. diei 5 ianuarii 1942, RRDec., vol XXXIV, p.7, n.5).

 

Circa modum agendi ex parte personae cuius bona fama laeditur, can. 221 §1 praescribit: “Christifidelibus competit ut iura, quibus in Ecclesia gaudent, legitime vindicent atque defendant in foro competenti ecclesiastico ad normam iuris”; et, can. 128 CIC ponit sanctionem illegitimo agendi modo erga proximos his verbis: “Quicumque illegitime actu iuridico, immo quovis alio actu dolo vel culpa posito, alteri damnum infert, obligatione tenetur damnum illatum reparandi”.

In Codex 1983 CIC, disciplina actionis ad refectionem damnorum applicatur ex can. 1729-1731. Precipue can. 1729 §1 statuit: Pars laesa potest actionem contentiosam ad damna reparanda ex delicto sibi illata in ipso poenali iudicio exercere, ad normam can. 1596”. Igitur actio penali, cuius fundamentum iuridicum est in can 1390 §2,3, pendet ab unica decisione Superioris et dirigitur semper boni pubblici tutelae. In primo Romane Rotae Auditorum Conventu anno 1979 Summus Pontifex Ioannes Paulus II declaravit: “Anche la pena comminata dall’autorità ecclesiastica (ma che in realtà è un riconoscere la situazione in cui il soggetto si è collocato) va vista infatti come strumento di comunione, cioè come mezzo di recupero di quelle carenze di bene individuale e di bene comune che si sono rivelate nel comportamento antiecclesiale, delittuoso e scandaloso, dei membri del popolo di Dio” (Allocutio ad Rotam Romanam, diei 17 februarii 1979, AAS 71 [1979], p. 425).

 

De subordinatione actionis refectionis damnorum processo poenali, post novas dispositiones legis ex CIC 1983 in iurisprundentia Rotale habentur variae interpretationes normarum: “…relativamente ai danni causati dal delitto, la parte lesa ha una duplice possibilità: -adire direttamente al tribunale, proponendo in via contenziosa una propria azione (azione principale); - Intervenire, a norma del can. 1596 come terzo in causa nel processo penale iniziato ad opera del promotore di giustizia a carico dell’imputato” (L. Chiappetta, Il Codice di Diritto Canonico, commento giuridico-pastorale, vol. III, Roma 19996, p. 280).  Etenim in una c. Corso diei 11 martii 1988 legi potest: “Pars putative laesa tantummodo actionem contentiosam ad reparanda damna ex delicto sibi illato in ipso poenali iudicio exercere valet, tamquam tertius interventor in causa” (RRDecr., vol. VI, p. 68, n. 6). Et ultimo,  coram Serrano Ruiz, diei 1 martii 1991: “Iure quo utimur, actio ad repartionem damnorum ex delicto, praevidetur subordinata, quamvis utique diversa actioni criminali; immo post poenalem exercenda nec vicissim" (RRDecr.,vol. IX, p.27 n. 4).

 

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Considerazioni sul rapporto tra diritto canonico e diritto internazionale.

La relazione tra il diritto canonico e il diritto internazionale è in genere descritta come il rapporto fra due ordinamenti che, costituiti ed operanti in piena autonomia, presentano necessariamente confronti e collegamenti. A determinarli sono le relazioni giuridiche, espressione con cui si indica il realizzarsi di atti e fatti che interessano congiuntamente, e talvolta simultaneamente, i due ordinamenti.

In effetti l’ordinamento canonico è destinatario di norme internazionali generali o stabilisce rapporti con gli ordinamenti statali attraverso trattati (come, in primis, nel caso dei concordati); come pure si relaziona con l’ordinamento di altri soggetti di diritto internazionale recependone le norme o ad esse rinviando (è il caso di norme emanante da Organizzazioni intergovernative – ONG – alle quali l’ordinamento canonico spesso rinvia).

Questo sistema di relazioni, ha come presupposto sostanziale la presenza della Chiesa cattolica nella Comunità internazionale che la Chiesa considera il livello più elevato della convivenza tra i diversi membri della famiglia umana. La Comunità internazionale si presenta, infatti, come una realtà composita dove coesiste una molteplicità di soggetti e strutture caratterizzati da un’unità sintetizzata da obiettivi quali la preminenza del diritto, la pace, la sicurezza, la cooperazione, lo sviluppo, la tutela della persona e dei popoli con i loro diritti fondamentali.

La Chiesa si colloca in tale contesto con una sovranità di tipo spirituale a cui sono soggette non solo persone (christi fideles), ma anche istituzioni. La dimensione spirituale e quella comunitaria rimangono tra loro inscindibili e nelle relazioni giuridiche sono strutturate mediante uno specifico ordinamento, originario ed autonomo nel fondamento, nell’articolazione e nel modo di procedere. Questa connotazione ha portato la dottrina classica del diritto pubblico ecclesiastico a considerare la Chiesa, al pari degli Stati, come una societas iuridice perfecta, un’espressione che accuratamente descrive il concetto di ordinamento giuridico primario ed originario di una comunità di persone unite dal vincolo del sacramento del battesimo. Si tratta di un’immagine che esprime non solo un’autonomia dei fini e della funzione autoritativa rispetto a poteri ad essa esterni (trattasi di sovranità), ma anche una fisionomia istituzionale propria (trattasi di auto-organizzazione) strutturata sulla base di un insieme di regole giuridiche prodotte al suo interno (è l’originarietà).

Basta dare uno sguardo alle relazioni internazionali per comprendere immediatamente che con questa fisionomia la Chiesa cattolica agisce da sempre nella Comunità delle Nazioni, assumendo quel carattere di “potenza” distinta nelle finalità dalle altre istituzioni (Stati e Organizzazioni intergovernative) che della vita internazionale sono protagoniste.

Una circostanza che oggi può essere colta in modo ancor più chiaro attraverso il rapporto di reciprocità Chiesa-Mondo delineato dal Concilio Vaticano II  per esprimere da un lato l’interesse della Chiesa e della sua missione per la Comunità internazionale, in particolar modo in relazione ai fatti che in essa accadono; dall’altro l’interesse che la Comunità internazionale, i suoi membri e le sue forme organizzative, manifestano per la missione della Chiesa. Si tratta di un interesse reciproco che la storia ha ampiamente conosciuto e dibattuto, e che perdura anche nell’attuale contesto delle relazioni internazionali che, nonostante abbiano definitivamente abbandonato ogni riferimento a pretese o a privilegi di tipo confessionale, hanno mantenuto l’interesse per il fattore religioso.

Il diritto internazionale moderno e contemporaneo, infatti, si presenta come a-confessionale, ma non a-religioso, anzi l’elemento religioso è presente e operante almeno in due prospettive sostanziali: quale ispiratore del livello normativo da un lato, e quale ambito da tutelare dall’altro, in particolare nella prevenzione della violazione del principio di uguaglianza, non più confuso con la sola discriminazione, ma riferito all’identità religiosa o basata sulla religione di persone e comunità. 

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La gioia dell’amore che si vive nelle famiglie è anche il giubilo della Chiesa.

Amoris laetitia.

ESORTAZIONE APOSTOLICA POSTSINODALE AMORIS LAETITIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO AI VESCOVI AI PRESBITERI E AI DIACONI ALLE PERSONE CONSACRATE AGLI SPOSI CRISTIANI E A TUTTI I FEDELI LAICI SULL’AMORE NELLA FAMIGLIA

1. La gioia dell’amore che si vive nelle famiglie è anche il giubilo della Chiesa. Come hanno indicato i Padri sinodali, malgrado i numerosi segni di crisi del matrimonio, «il desiderio di famiglia resta vivo, in specie fra i giovani, e motiva la Chiesa».[1] Come risposta a questa aspirazione «l’annuncio cristiano che riguarda la famiglia è davvero una buona notizia».[2]

2. Il cammino sinodale ha permesso di porre sul tappeto la situazione delle famiglie nel mondo attuale, di allargare il nostro sguardo e di ravvivare la nostra consapevolezza sull’importanza del matrimonio e della famiglia. Al tempo stesso, la complessità delle tematiche proposte ci ha mostrato la necessità di continuare ad approfondire con libertà alcune questioni dottrinali, morali, spirituali e pastorali. La riflessione dei pastori e dei teologi, se è fedele alla Chiesa, onesta, realistica e creativa, ci aiuterà a raggiungere una maggiore chiarezza. I dibattiti che si trovano nei mezzi di comunicazione o nelle pubblicazioni e perfino tra i ministri della Chiesa vanno da un desiderio sfrenato di cambiare tutto senza sufficiente riflessione o fondamento, all’atteggiamento che pretende di risolvere tutto applicando normative generali o traendo conclusioni eccessive da alcune riflessioni teologiche.

3. Ricordando che il tempo è superiore allo spazio, desidero ribadire che non tutte le discussioni dottrinali, morali o pastorali devono essere risolte con interventi del magistero. Naturalmente, nella Chiesa è necessaria una unità di dottrina e di prassi, ma ciò non impedisce che esistano diversi modi di interpretare alcuni aspetti della dottrina o alcune conseguenze che da essa derivano. Questo succederà fino a quando lo Spirito ci farà giungere alla verità completa (cfr Gv 16,13), cioè quando ci introdurrà perfettamente nel mistero di Cristo e potremo vedere tutto con il suo sguardo. Inoltre, in ogni paese o regione si possono cercare soluzioni più inculturate, attente alle tradizioni e alle sfide locali. Infatti, «le culture sono molto diverse tra loro e ogni principio generale […] ha bisogno di essere inculturato, se vuole essere osservato e applicato».[3]

4. In ogni modo, devo dire che il cammino sinodale ha portato in sé una grande bellezza e ha offerto molta luce. Ringrazio per i tanti contributi che mi hanno aiutato a considerare i problemi delle famiglie del mondo in tutta la loro ampiezza. L’insieme degli interventi dei Padri, che ho ascoltato con costante attenzione, mi è parso un prezioso poliedro, costituito da molte legittime preoccupazioni e da domande oneste e sincere. Perciò ho ritenuto opportuno redigere una Esortazione Apostolica postsinodale che raccolga contributi dei due recenti Sinodi sulla famiglia, unendo altre considerazioni che possano orientare la riflessione, il dialogo e la prassi pastorale, e al tempo stesso arrechino coraggio, stimolo e aiuto alle famiglie nel loro impegno e nelle loro difficoltà.

5. Questa Esortazione acquista un significato speciale nel contesto di questo Anno Giubilare della Misericordia. In primo luogo, perché la intendo come una proposta per le famiglie cristiane, che le stimoli a stimare i doni del matrimonio e della famiglia, e a mantenere un amore forte e pieno di valori quali la generosità, l’impegno, la fedeltà e la pazienza. In secondo luogo, perché si propone di incoraggiare tutti ad essere segni di misericordia e di vicinanza lì dove la vita familiare non si realizza perfettamente o non si svolge con pace e gioia.

6. Nello sviluppo del testo, comincerò con un’apertura ispirata alle Sacre Scritture, che conferisca un tono adeguato. A partire da lì considererò la situazione attuale delle famiglie, in ordine a tenere i piedi per terra. Poi ricorderò alcuni elementi essenziali dell’insegnamento della Chiesa circa il matrimonio e la famiglia, per fare spazio così ai due capitoli centrali, dedicati all’amore. In seguito metterò in rilievo alcune vie pastorali che ci orientino a costruire famiglie solide e feconde secondo il piano di Dio, e dedicherò un capitolo all’educazione dei figli. Quindi mi soffermerò su un invito alla misericordia e al discernimento pastorale davanti a situazioni che non rispondono pienamente a quello che il Signore ci propone, e infine traccerò brevi linee di spiritualità familiare.

7. A causa della ricchezza dei due anni di riflessioni che ha apportato il cammino sinodale, la presente Esortazione affronta, con stili diversi, molti e svariati temi. Questo spiega la sua inevitabile estensione. Perciò non consiglio una lettura generale affrettata. Potrà essere meglio valorizzata, sia dalle famiglie sia dagli operatori di pastorale familiare, se la approfondiranno pazientemente una parte dopo l’altra, o se vi cercheranno quello di cui avranno bisogno in ogni circostanza concreta. E’ probabile, ad esempio, che i coniugi si riconoscano di più nei capitoli quarto e quinto, che gli operatori pastorali abbiano particolare interesse per il capitolo sesto, e che tutti si vedano molto interpellati dal capitolo ottavo. Spero che ognuno, attraverso la lettura, si senta chiamato a prendersi cura con amore della vita delle famiglie, perché esse «non sono un problema, sono principalmente un’opportunità».[4] CAPITOLO PRIMO ALLA LUCE DELLA PAROLA

8. La Bibbia è popolata da famiglie, da generazioni, da storie di amore e di crisi familiari, fin dalla prima pagina, dove entra in scena la famiglia di Adamo ed Eva, con il suo carico di violenza ma anche con la forza della vita che continua (cfr Gen 4), fino all’ultima pagina dove appaiono le nozze della Sposa e dell’Agnello (cfr Ap 21,2.9). Le due case che Gesù descrive, costruite sulla roccia o sulla sabbia (cfr Mt 7,24-27), rappresentano tante situazioni familiari, create dalla libertà di quanti vi abitano, perché, come scrive il poeta, «ogni casa è un candelabro».[5] Entriamo ora in una di queste case, guidati dal Salmista, attraverso un canto che ancora oggi si proclama sia nella liturgia nuziale ebraica sia in quella cristiana: «Beato chi teme il Signore e cammina nelle sue vie. Della fatica delle tue mani ti nutrirai, sarai felice e avrai ogni bene. La tua sposa come vite feconda nell’intimità della tua casa; i tuoi figli come virgulti d’ulivo intorno alla tua mensa. Ecco com’è benedetto l’uomo che teme il Signore. Ti benedica il Signore da Sion. Possa tu vedere il bene di Gerusalemme tutti i giorni della tua vita! Possa tu vedere i figli dei tuoi figli! Pace su Israele!» (Sal 128,1-6).

Tu e la tua sposa

9. Varchiamo dunque la soglia di questa casa serena, con la sua famiglia seduta intorno alla mensa festiva. Al centro troviamo la coppia del padre e della madre con tutta la loro storia d’amore. In loro si realizza quel disegno primordiale che Cristo stesso evoca con intensità: «Non avete letto che il Creatore da principio li fece maschio e femmina?» (Mt 19,4). E riprende il mandato del Libro della Genesi: «Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno un’unica carne» (Gen 2,24).

10. I due grandiosi capitoli iniziali della Genesi ci offrono la rappresentazione della coppia umana nella sua realtà fondamentale. In quel testo iniziale della Bibbia brillano alcune affermazioni decisive. La prima, citata sinteticamente da Gesù, afferma: «Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò» (1,27). Sorprendentemente, l’“immagine di Dio” ha come parallelo esplicativo proprio la coppia “maschio e femmina”. Questo significa che Dio stesso è sessuato o che lo accompagna una compagna divina, come credevano alcune religioni antiche? Ovviamente no, perché sappiamo con quanta chiarezza la Bibbia ha respinto come idolatriche queste credenze diffuse tra i cananei della Terra Santa. Si preserva la trascendenza di Dio, ma, dato che è al tempo stesso il Creatore, la fecondità della coppia umana è “immagine” viva ed efficace, segno visibile dell’atto creatore.

11. La coppia che ama e genera la vita è la vera “scultura” vivente (non quella di pietra o d’oro che il Decalogo proibisce), capace di manifestare il Dio creatore e salvatore. Perciò l’amore fecondo viene ad essere il simbolo delle realtà intime di Dio (cfr Gen 1,28; 9,7; 17,2-5.16; 28,3; 35,11; 48,3-4). A questo si deve che la narrazione del Libro della Genesi, seguendo la cosiddetta “tradizione sacerdotale”, sia attraversata da varie sequenze genealogiche (cfr 4,17-22.25-26; 5; 10; 11,10-32; 25,1-4.12-17.19-26; 36): infatti la capacità di generare della coppia umana è la via attraverso la quale si sviluppa la storia della salvezza. In questa luce, la relazione feconda della coppia diventa un’immagine per scoprire e descrivere il mistero di Dio, fondamentale nella visione cristiana della Trinità che contempla in Dio il Padre, il Figlio e lo Spirito d’amore. Il Dio Trinità è comunione d’amore, e la famiglia è il suo riflesso vivente. Ci illuminano le parole di san Giovanni Paolo II: «Il nostro Dio, nel suo mistero più intimo, non è solitudine, bensì una famiglia, dato che ha in sé paternità, filiazione e l’essenza della famiglia che è l’amore. Questo amore, nella famiglia divina, è lo Spirito Santo». [6] La famiglia non è dunque qualcosa di estraneo alla stessa essenza divina.[7] Questo aspetto trinitario della coppia ha una nuova rappresentazione nella teologia paolina quando l’Apostolo la mette in relazione con il “mistero” dell’unione tra Cristo e la Chiesa (cfr Ef 5,21-33).

12. Ma Gesù, nella sua riflessione sul matrimonio, ci rimanda a un’altra pagina del Libro della Genesi, il capitolo 2, dove appare un mirabile ritratto della coppia con dettagli luminosi. Ne scegliamo solo due. Il primo è l’inquietudine dell’uomo che cerca «un aiuto che gli corrisponda» (vv. 18.20), capace di risolvere quella solitudine che lo disturba e che non è placata dalla vicinanza degli animali e di tutto il creato. L’espressione originale ebraica ci rimanda a una relazione diretta, quasi “frontale” – gli occhi negli occhi – in un dialogo anche tacito, perché nell’amore i silenzi sono spesso più eloquenti delle parole. E’ l’incontro con un volto, un “tu” che riflette l’amore divino ed è «il primo dei beni, un aiuto adatto a lui e una colonna d’appoggio» (Sir 36,26), come dice un saggio biblico. O anche come esclamerà la sposa del Cantico dei Cantici in una stupenda professione d’amore e di donazione nella reciprocità: «Il mio amato è mio e io sono sua […] Io sono del mio amato e il mio amato è mio» (2,16; 6,3).

13. Da questo incontro che guarisce la solitudine sorgono la generazione e la famiglia. Questo è il secondo dettaglio che possiamo rilevare: Adamo, che è anche l’uomo di tutti i tempi e di tutte le regioni del nostro pianeta, insieme con sua moglie dà origine a una nuova famiglia, come ripete Gesù citando la Genesi: «Si unirà a sua moglie e i due saranno un’unica carne» (Mt 19,5; cfr Gen 2,24). Il verbo “unirsi” nell’originale ebraico indica una stretta sintonia, un’adesione fisica e interiore, fino al punto che si utilizza per descrivere l’unione con Dio: «A te si stringe l’anima mia» (Sal 63,9), canta l’orante. Si evoca così l’unione matrimoniale non solamente nella sua dimensione sessuale e corporea, ma anche nella sua donazione volontaria d’amore. Il frutto di questa unione è “diventare un’unica carne”, sia nell’abbraccio fisico, sia nell’unione dei due cuori e della vita e, forse, nel figlio che nascerà dai due, il quale porterà in sé, unendole sia geneticamente sia spiritualmente, le due “carni”.

I tuoi figli come virgulti d’ulivo

14. Riprendiamo il canto del Salmista. In esso compaiono, dentro la casa dove l’uomo e la sua sposa sono seduti a mensa, i figli, che li accompagnano «come virgulti d’ulivo» (Sal 128,3), ossia pieni di energia e di vitalità. Se i genitori sono come le fondamenta della casa, i figli sono come le “pietre vive” della famiglia (cfr 1 Pt 2,5). E’ significativo che nell’Antico Testamento la parola che compare più volte dopo quella divina (YHWH, il “Signore”) è “figlio” (ben), un vocabolo che rimanda al verbo ebraico che significa “costruire” (banah). Per questo nel Salmo 127 si esalta il dono dei figli con immagini che si riferiscono sia all’edificazione di una casa, sia alla vita sociale e commerciale che si svolgeva presso la porta della città: «Se il Signore non costruisce la casa, invano si affaticano i costruttori […] Ecco eredità del Signore sono i figli, è sua ricompensa il frutto del grembo. Come frecce in mano a un guerriero sono i figli avuti in giovinezza. Beato l’uomo che ne ha piena la faretra: non dovrà vergognarsi quando verrà alla porta a trattare con i propri nemici» (vv. 1.3-5). E’ vero che queste immagini riflettono la cultura di una società antica, però la presenza dei figli è in ogni caso un segno di pienezza della famiglia nella continuità della medesima storia della salvezza, di generazione in generazione.

15. In questa prospettiva possiamo porre un’altra dimensione della famiglia. Sappiamo che nel Nuovo Testamento si parla della “Chiesa che si riunisce nella casa” (cfr 1 Cor 16,19; Rm 16,5; Col 4,15; Fm 2). Lo spazio vitale di una famiglia si poteva trasformare in chiesa domestica, in sede dell’Eucaristia, della presenza di Cristo seduto alla stessa mensa. Indimenticabile è la scena dipinta nell’Apocalisse: «Sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (3,20). Così si delinea una casa che porta al proprio interno la presenza di Dio, la preghiera comune e perciò la benedizione del Signore. E’ ciò che si afferma nel Salmo 128 che abbiamo preso come base: «Ecco com’è benedetto l’uomo che teme il Signore. Ti benedica il Signore da Sion» (vv. 4-5).

16. La Bibbia considera la famiglia anche come la sede della catechesi dei figli. Questo brilla nella descrizione della celebrazione pasquale (cfr Es 12,26-27; Dt 6,20-25), e in seguito fu esplicitato nella haggadah giudaica, ossia nella narrazione dialogica che accompagna il rito della cena pasquale. Ancora di più, un Salmo esalta l’annuncio familiare della fede: «Ciò che abbiamo udito e conosciuto e i nostri padri ci hanno raccontato non lo terremo nascosto ai nostri figli, raccontando alla generazione futura le azioni gloriose e potenti del Signore e le meraviglie che egli ha compiuto. Ha stabilito un insegnamento in Giacobbe, ha posto una legge in Israele, che ha comandato ai nostri padri di far conoscere ai loro figli, perché la conosca la generazione futura, i figli che nasceranno. Essi poi si alzeranno a raccontarlo ai loro figli» (78,3-6). Pertanto, la famiglia è il luogo dove i genitori diventano i primi maestri della fede per i loro figli. E’ un compito “artigianale”, da persona a persona: «Quando tuo figlio un domani ti chiederà […] tu gli risponderai…» (Es 13,14). Così le diverse generazioni intoneranno il loro canto al Signore, «i giovani e le ragazze, i vecchi insieme ai bambini» (Sal 148,12).

17. I genitori hanno il dovere di compiere con serietà lo loro missione educativa, come insegnano spesso i sapienti della Bibbia (cfr Pr 3,11-12; 6,20-22; 13,1; 29,17). I figli sono chiamati ad accogliere e praticare il comandamento: «Onora tuo padre e tua madre» (Es 20,12), dove il verbo “onorare” indica l’adempimento degli impegni familiari e sociali nella loro pienezza, senza trascurarli con pretese scusanti religiose (cfr Mc 7,11-13). Infatti, «chi onora il padre espia i peccati, chi onora sua madre è come chi accumula tesori» (Sir 3,3-4).

18. Il Vangelo ci ricorda anche che i figli non sono una proprietà della famiglia, ma hanno davanti il loro personale cammino di vita. Se è vero che Gesù si presenta come modello di obbedienza ai suoi genitori terreni, stando loro sottomesso (cfr Lc 2,51), è pure certo che Egli mostra che la scelta di vita del figlio e la sua stessa vocazione cristiana possono esigere un distacco per realizzare la propria dedizione al Regno di Dio (cfr Mt 10,34-37; Lc 9,59-62). Di più, Egli stesso, a dodici anni, risponde a Maria e a Giuseppe che ha una missione più alta da compiere al di là della sua famiglia storica (cfr Lc 2,48-50). Perciò esalta la necessità di altri legami più profondi anche dentro le relazioni familiari: «Mia madre e i miei fratelli sono questi: coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica» (Lc 8,21). D’altra parte, nell’attenzione che Egli riserva ai bambini – considerati nella società del Vicino Oriente antico come soggetti privi di diritti particolari e come parte della proprietà familiare – Gesù arriva al punto di presentarli agli adulti quasi come maestri, per la loro fiducia semplice e spontanea verso gli altri: «In verità io vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. Perciò chiunque si farà piccolo come questo bambino, costui è il più grande nel regno dei cieli» (Mt 18,3-4).

Un sentiero di sofferenza e di sangue

19. L’idillio presentato dal Salmo 128 non nega una realtà amara che segna tutte le Sacre Scritture. E’ la presenza del dolore, del male, della violenza che lacerano la vita della famiglia e la sua intima comunione di vita e di amore. Non per nulla il discorso di Cristo sul matrimonio (cfr Mt 19,3-9) è inserito all’interno di una disputa sul divorzio. La Parola di Dio è testimone costante di questa dimensione oscura che si apre già all’inizio quando, con il peccato, la relazione d’amore e di purezza tra l’uomo e la donna si trasforma in un dominio: «Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ed egli ti dominerà» (Gen 3,16).

20. E’ un sentiero di sofferenza e di sangue che attraversa molte pagine della Bibbia, a partire dalla violenza fratricida di Caino su Abele e dai vari litigi tra i figli e tra le spose dei patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe, per giungere poi alle tragedie che riempiono di sangue la famiglia di Davide, fino alle molteplici difficoltà familiari che solcano il racconto di Tobia o l’amara confessione di Giobbe abbandonato: «I miei fratelli si sono allontanati da me, persino i miei familiari mi sono diventati estranei. […] Il mio fiato è ripugnante per mia moglie e faccio ribrezzo ai figli del mio grembo» (Gb 19,13.17).

21. Gesù stesso nasce in una famiglia modesta, che ben presto deve fuggire in una terra straniera. Egli entra nella casa di Pietro dove la suocera di lui giace malata (cfr Mc 1,30-31); si lascia coinvolgere nel dramma della morte nella casa di Giairo e in quella di Lazzaro (cfr Mc 5,22-24.35-43; Gv 11,1-44); ascolta il grido disperato della vedova di Nain davanti a suo figlio morto (cfr Lc 7,11-15); accoglie l’invocazione del padre dell’epilettico in un piccolo villaggio di campagna (cfr Mc 9,17-27). Incontra pubblicani come Matteo e Zaccheo nelle loro case (cfr Mt 9,9-13; Lc 19,1-10), e anche peccatori, come la donna che irrompe nella casa del fariseo (cfr Lc 7,36-50). Conosce le ansie e le tensioni delle famiglie e le inserisce nelle sue parabole: dai figli che se ne vanno di casa in cerca di avventura (cfr Lc 15,11-32) fino ai figli difficili con comportamenti inspiegabili (cfr Mt 21,28-31) o vittime della violenza (cfr Mc 12,1-9). E ancora si preoccupa per le nozze che corrono il rischio di risultare imbarazzanti per la mancanza di vino (cfr Gv 2,1-10) o per la latitanza degli invitati (cfr Mt 22,1-10), come pure conosce l’incubo per la perdita di una moneta in una famiglia povera (cfr Lc 15,8- 10).

22. In questo breve percorso possiamo riscontrare che la Parola di Dio non si mostra come una sequenza di tesi astratte, bensì come una compagna di viaggio anche per le famiglie che sono in crisi o attraversano qualche dolore, e indica loro la meta del cammino, quando Dio «asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno» (Ap 21,4).

La fatica delle tue mani

23. All’inizio del Salmo 128, si presenta il padre come un lavoratore, che con l’opera delle sue mani può sostenere il benessere fisico e la serenità della sua famiglia: «Della fatica delle tue mani ti nutrirai, sarai felice e avrai ogni bene» (v. 2). Che il lavoro sia una parte fondamentale della dignità della vita umana, lo si deduce dalle prime pagine della Bibbia, quando si dice che «il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse» (Gen 2,15). E’ la rappresentazione del lavoratore che trasforma la materia e sfrutta le energie del creato, producendo il «pane di fatica» (Sal 127,2), oltre a coltivare sé stesso.

 24. Il lavoro rende possibile nello stesso tempo lo sviluppo della società, il sostentamento della famiglia e anche la sua stabilità e la sua fecondità: «Possa tu vedere il bene di Gerusalemme tutti i giorni della tua vita! Possa tu vedere i figli dei tuoi figli!» (Sal 128,5-6). Nel Libro dei Proverbi si presenta anche il compito della madre di famiglia, il cui lavoro viene descritto in tutte le sue particolarità quotidiane, attirando la lode dello sposo e dei figli (cfr 31,10-31). Lo stesso apostolo Paolo si mostrava orgoglioso di aver vissuto senza essere di peso per gli altri, perché lavorò con le sue mani assicurandosi così il sostentamento (cfr At 18,3; 1 Cor 4,12; 9,12). Era talmente convinto della necessità del lavoro, che stabilì una ferrea norma per le sue comunità: «Chi non vuole lavorare, neppure mangi» (2 Ts 3,10; cfr 1 Ts 4,11).

25. Detto questo, si capisce come la disoccupazione e la precarietà lavorativa diventino sofferenza, come si registra nel piccolo Libro di Rut e come ricorda Gesù nella parabola dei lavoratori che stanno seduti, in un ozio forzato, nella piazza del paese (cfr Mt 20,1-16), o come Egli sperimenta nel fatto stesso di essere tante volte circondato da bisognosi e affamati. E’ ciò che la società sta vivendo tragicamente in molti paesi, e questa mancanza di lavoro colpisce in diversi modi la serenità delle famiglie.

26. Nemmeno possiamo dimenticare la degenerazione che il peccato introduce nella società, quando l’essere umano si comporta come tiranno nei confronti della natura, devastandola, usandola in modo egoistico e persino brutale. Le conseguenze sono al tempo stesso la desertificazione del suolo (cfr Gen 3,17-19) e gli squilibri economici e sociali, contro i quali si leva con chiarezza la voce dei profeti, da Elia (cfr 1 Re 21) fino alle parole che Gesù stesso pronuncia contro l’ingiustizia (cfr Lc 12,13-21; 16,1-31).

La tenerezza dell’abbraccio

27. Cristo ha introdotto come segno distintivo dei suoi discepoli soprattutto la legge dell’amore e del dono di sé agli altri (cfr Mt 22,39; Gv 13,34), e l’ha fatto attraverso un principio che un padre e una madre sono soliti testimoniare nella propria esistenza: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici» (Gv 15,13). Frutto dell’amore sono anche la misericordia e il perdono. In questa linea, è molto emblematica la scena che mostra un’adultera sulla spianata del tempio di Gerusalemme, circondata dai suoi accusatori, e poi sola con Gesù che non la condanna e la invita ad una vita più dignitosa (cfr Gv 8,1-11).

28. Nell’orizzonte dell’amore, essenziale nell’esperienza cristiana del matrimonio e della famiglia, risalta anche un’altra virtù, piuttosto ignorata in questi tempi di relazioni frenetiche e superficiali: la tenerezza. Ricorriamo al dolce e intenso Salmo 131. Come si riscontra anche in altri testi (cfr Es 4,22; Is 49,15; Sal 27,10), l’unione tra il fedele e il suo Signore si esprime con tratti dell’amore paterno e materno. Qui appare la delicata e tenera intimità che esiste tra la madre e il suo bambino, un neonato che dorme in braccio a sua madre dopo essere stato allattato. Si tratta – come indica la parola ebraica gamul – di un bambino già svezzato, che si afferra coscientemente alla madre che lo porta al suo petto. E’ dunque un’intimità consapevole e non meramente biologica. Perciò il salmista canta: «Io resto quieto e sereno: come un bimbo svezzato in braccio a sua madre» (Sal 131,2). Parallelamente, possiamo rifarci ad un’altra scena, là dove il profeta Osea pone in bocca a Dio come padre queste parole commoventi: «Quando Israele era fanciullo, io l’ho amato […] (gli) insegnavo a camminare tenendolo per mano […] Io lo traevo con legami di bontà, con vincoli d’amore, ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia, mi chinavo su di lui per dargli da mangiare» (11,1.3-4).

 29. Con questo sguardo, fatto di fede e di amore, di grazia e di impegno, di famiglia umana e di Trinità divina, contempliamo la famiglia che la Parola di Dio affida nelle mani dell’uomo, della donna e dei figli perché formino una comunione di persone che sia immagine dell’unione tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. L’attività generativa ed educativa è, a sua volta, un riflesso dell’opera creatrice del Padre. La famiglia è chiamata a condividere la preghiera quotidiana, la lettura della Parola di Dio e la comunione eucaristica per far crescere l’amore e convertirsi sempre più in tempio dove abita lo Spirito.

30. Davanti ad ogni famiglia si presenta l’icona della famiglia di Nazaret, con la sua quotidianità fatta di fatiche e persino di incubi, come quando dovette patire l’incomprensibile violenza di Erode, esperienza che si ripete tragicamente ancor oggi in tante famiglie di profughi rifiutati e inermi. Come i magi, le famiglie sono invitate a contemplare il Bambino e la Madre, a prostrarsi e ad adorarlo (cfr Mt 2,11). Come Maria, sono esortate a vivere con coraggio e serenità le loro sfide familiari, tristi ed entusiasmanti, e a custodire e meditare nel cuore le meraviglie di Dio (cfr Lc 2,19.51). Nel tesoro del cuore di Maria ci sono anche tutti gli avvenimenti di ciascuna delle nostre famiglie, che ella conserva premurosamente. Perciò può aiutarci a interpretarli per riconoscere nella storia familiare il messaggio di Dio.

CAPITOLO SECONDO

LA REALTÀ E LE SFIDE DELLE FAMIGLIE

31. Il bene della famiglia è decisivo per il futuro del mondo e della Chiesa. Sono innumerevoli le analisi che si sono fatte sul matrimonio e la famiglia, sulle loro difficoltà e sfide attuali. E’ sano prestare attenzione alla realtà concreta, perché «le richieste e gli appelli dello Spirito risuonano anche negli stessi avvenimenti della storia», attraverso i quali «la Chiesa può essere guidata ad una intelligenza più profonda dell'inesauribile mistero del matrimonio e della famiglia».[8] Non pretendo di presentare qui tutto ciò che si potrebbe dire circa i diversi temi relativi alla famiglia nel contesto attuale. Ma poiché i Padri sinodali hanno apportato uno sguardo sulla realtà delle famiglie di tutto il mondo, ritengo opportuno raccogliere alcuni dei loro contributi pastorali, aggiungendo altre preoccupazioni che provengono dal mio proprio sguardo. La situazione attuale della famiglia

32. « Fedeli all’insegnamento di Cristo guardiamo alla realtà della famiglia oggi in tutta la sua complessità, nelle sue luci e nelle sue ombre. […] Il cambiamento antropologico-culturale influenza oggi tutti gli aspetti della vita e richiede un approccio analitico e diversificato».[9] Nel contesto di vari decenni fa, i Vescovi di Spagna riconoscevano già una realtà domestica con maggiori spazi di libertà, «con un’equa ripartizione di incarichi, responsabilità e compiti […] Valorizzando di più la comunicazione personale tra gli sposi, si contribuisce a umanizzare l’intera convivenza familiare […] Né la società in cui viviamo né quella verso la quale camminiamo permettono la sopravvivenza indiscriminata di forme e modelli del passato».[10] Ma «siamo consapevoli dell’orientamento principale dei cambiamenti antropologico-culturali, in ragione dei quali gli individui sono meno sostenuti che in passato dalle strutture sociali nella loro vita affettiva e familiare».[11]

33. D’altra parte, «bisogna egualmente considerare il crescente pericolo rappresentato da un individualismo esasperato che snatura i legami familiari e finisce per considerare ogni componente della famiglia come un'isola, facendo prevalere, in certi casi, l'idea di un soggetto che si costruisce secondo i propri desideri assunti come un assoluto».[12] «Le tensioni indotte da una esasperata cultura individualistica del possesso e del godimento generano all’interno delle famiglie dinamiche di insofferenza e di aggressività».[13] Vorrei aggiungere il ritmo della vita attuale, lo stress, l’organizzazione sociale e lavorativa, perché sono fattori culturali che mettono a rischio la possibilità di scelte permanenti. Nello stesso tempo troviamo fenomeni ambigui. Per esempio, si apprezza una personalizzazione che punta sull’autenticità invece che riprodurre comportamenti prestabiliti. E’ un valore che può promuovere le diverse capacità e la spontaneità, ma che, orientato male, può creare atteggiamenti di costante diffidenza, fuga dagli impegni, chiusura nella comodità, arroganza. La libertà di scegliere permette di proiettare la propria vita e coltivare il meglio di sé, ma, se non ha obiettivi nobili e disciplina personale, degenera in una incapacità di donarsi generosamente. Di fatto, in molti paesi dove diminuisce il numero di matrimoni, cresce il numero di persone che decidono di vivere sole, o che convivono senza coabitare. Possiamo rilevare anche un lodevole senso di giustizia; però, se male inteso, esso trasforma i cittadini in clienti che pretendono soltanto la prestazione di servizi.

34. Se questi rischi si trasferiscono al modo di intendere la famiglia, questa può trasformarsi in un luogo di passaggio, al quale ci si rivolge quando pare conveniente per sé, o dove si va a reclamare diritti, mentre i vincoli rimangono abbandonati alla precarietà volubile dei desideri e delle circostanze. In fondo, oggi è facile confondere la genuina libertà con l’idea che ognuno giudica come gli pare, come se al di là degli individui non ci fossero verità, valori, principi che ci orientino, come se tutto fosse uguale e si dovesse permettere qualsiasi cosa. In tale contesto, l’ideale matrimoniale, con un impegno di esclusività e di stabilità, finisce per essere distrutto dalle convenienze contingenti o dai capricci della sensibilità. Si teme la solitudine, si desidera uno spazio di protezione e di fedeltà, ma nello stesso tempo cresce il timore di essere catturati da una relazione che possa rimandare il soddisfacimento delle aspirazioni personali.

35. Come cristiani non possiamo rinunciare a proporre il matrimonio allo scopo di non contraddire la sensibilità attuale, per essere alla moda, o per sentimenti di inferiorità di fronte al degrado morale e umano. Staremmo privando il mondo dei valori che possiamo e dobbiamo offrire. Certo, non ha senso fermarsi a una denuncia retorica dei mali attuali, come se con ciò potessimo cambiare qualcosa. Neppure serve pretendere di imporre norme con la forza dell’autorità. Ci è chiesto uno sforzo più responsabile e generoso, che consiste nel presentare le ragioni e le motivazioni per optare in favore del matrimonio e della famiglia, così che le persone siano più disposte a rispondere alla grazia che Dio offre loro.

36. Al tempo stesso dobbiamo essere umili e realisti, per riconoscere che a volte il nostro modo di presentare le convinzioni cristiane e il modo di trattare le persone hanno aiutato a provocare ciò di cui oggi ci lamentiamo, per cui ci spetta una salutare reazione di autocritica. D’altra parte, spesso abbiamo presentato il matrimonio in modo tale che il suo fine unitivo, l’invito a crescere nell’amore e l’ideale di aiuto reciproco sono rimasti in ombra per un accento quasi esclusivo posto sul dovere della procreazione. Né abbiamo fatto un buon accompagnamento dei nuovi sposi nei loro primi anni, con proposte adatte ai loro orari, ai loro linguaggi, alle loro preoccupazioni più concrete. Altre volte abbiamo presentato un ideale teologico del matrimonio troppo astratto, quasi artificiosamente costruito, lontano dalla situazione concreta e dalle effettive possibilità delle famiglie così come sono. Questa idealizzazione eccessiva, soprattutto quando non abbiamo risvegliato la fiducia nella grazia, non ha fatto sì che il matrimonio sia più desiderabile e attraente, ma tutto il contrario.

37. Per molto tempo abbiamo creduto che solamente insistendo su questioni dottrinali, bioetiche e morali, senza motivare l’apertura alla grazia, avessimo già sostenuto a sufficienza le famiglie, consolidato il vincolo degli sposi e riempito di significato la loro vita insieme. Abbiamo difficoltà a presentare il matrimonio più come un cammino dinamico di crescita e realizzazione che come un peso da sopportare per tutta la vita. Stentiamo anche a dare spazio alla coscienza dei fedeli, che tante volte rispondono quanto meglio possibile al Vangelo in mezzo ai loro limiti e possono portare avanti il loro personale discernimento davanti a situazioni in cui si rompono tutti gli schemi. Siamo chiamati a formare le coscienze, non a pretendere di sostituirle.

38. Dobbiamo ringraziare per il fatto che la maggior parte della gente stima le relazioni familiari che vogliono durare nel tempo e che assicurano il rispetto all’altro. Perciò si apprezza che la Chiesa offra spazi di accompagnamento e di assistenza su questioni connesse alla crescita dell’amore, al superamento dei conflitti e all’educazione dei figli. Molti stimano la forza della grazia che sperimentano nella Riconciliazione sacramentale e nell’Eucaristia, che permette loro di sostenere le sfide del matrimonio e della famiglia. In alcuni paesi, specialmente in diverse parti dell’Africa, il secolarismo non è riuscito a indebolire alcuni valori tradizionali e in ogni matrimonio si produce una forte unione tra due famiglie allargate, dove ancora si mantiene un sistema ben definito di gestione di conflitti e difficoltà. Nel mondo attuale si apprezza anche la testimonianza dei coniugi che non solo hanno perseverato nel tempo, ma continuano a portare avanti un progetto comune e conservano l’affetto. Questo apre la porta a una pastorale positiva, accogliente, che rende possibile un approfondimento graduale delle esigenze del Vangelo. Tuttavia, molte volte abbiamo agito con atteggiamento difensivo e sprechiamo le energie pastorali moltiplicando gli attacchi al mondo decadente, con poca capacità propositiva per indicare strade di felicità. Molti non percepiscono che il messaggio della Chiesa sul matrimonio e la famiglia sia stato un chiaro riflesso della predicazione e degli atteggiamenti di Gesù, il quale nel contempo proponeva un ideale esigente e non perdeva mai la vicinanza compassionevole alle persone fragili come la samaritana o la donna adultera.

39. Questo non significa non riconoscere più la decadenza culturale che non promuove l’amore e la dedizione. Le consultazioni previe ai due ultimi Sinodi hanno fatto emergere diversi sintomi della “cultura del provvisorio”. Mi riferisco, per esempio, alla rapidità con cui le persone passano da una relazione affettiva ad un’altra. Credono che l’amore, come nelle reti sociali, si possa connettere o disconnettere a piacimento del consumatore e anche bloccare velocemente. Penso anche al timore che suscita la prospettiva di un impegno permanente, all’ossessione per il tempo libero, alle relazioni che calcolano costi e benefici e si mantengono unicamente se sono un mezzo per rimediare alla solitudine, per avere protezione o per ricevere qualche servizio. Si trasferisce alle relazioni affettive quello che accade con gli oggetti e con l’ambiente: tutto è scartabile, ciascuno usa e getta, spreca e rompe, sfrutta e spreme finché serve. E poi addio. Il narcisismo rende le persone incapaci di guardare al di là di sé stesse, dei propri desideri e necessità. Ma chi utilizza gli altri prima o poi finisce per essere utilizzato, manipolato e abbandonato con la stessa logica. E’ degno di nota il fatto che le rotture dei legami avvengono molte volte tra persone adulte che cercano una sorta di “autonomia” e rifiutano l’ideale di invecchiare insieme prendendosi cura l’uno dell’altro e sostenendosi.

40. «A rischio di banalizzare, potremmo dire che viviamo in una cultura che spinge i giovani a non formare una famiglia, perché mancano loro possibilità per il futuro. Ma questa stessa cultura presenta ad altri così tante opzioni che anch’essi sono dissuasi dal formare una famiglia».[14] In alcuni paesi, molti giovani «spesso sono indotti a rimandare le nozze per problemi di tipo economico, lavorativo o di studio. Talora anche per altri motivi, come l’influenza delle ideologie che svalutano il matrimonio e la famiglia, l’esperienza del fallimento di altre coppie che essi non vogliono rischiare, il timore verso qualcosa che considerano troppo grande e sacro, le opportunità sociali ed i vantaggi economici che derivano dalla convivenza, una concezione meramente emotiva e romantica dell’amore, la paura di perdere la libertà e l’autonomia, il rifiuto di qualcosa concepito come istituzionale e burocratico».[15] Abbiamo bisogno di trovare le parole, le motivazioni e le testimonianze che ci aiutino a toccare le fibre più intime dei giovani, là dove sono più capaci di generosità, di impegno, di amore e anche di eroismo, per invitarli ad accettare con entusiasmo e coraggio la sfida del matrimonio.

41. I Padri sinodali hanno fatto riferimento alle attuali «tendenze culturali che sembrano imporre un’affettività senza limiti, […] un’affettività narcisistica, instabile e mutevole che non aiuta sempre i soggetti a raggiungere una maggiore maturità». Si sono detti preoccupati per «una certa diffusione della pornografia e della commercializzazione del corpo, favorita anche da un uso distorto di internet» e per la «situazione di quelle persone che sono obbligate a praticare la prostituzione». In questo contesto, «le coppie sono talvolta incerte, esitanti e faticano a trovare i modi per crescere. Molti sono quelli che tendono a restare negli stadi primari della vita emozionale e sessuale. La crisi della coppia destabilizza la famiglia e può arrivare attraverso le separazioni e i divorzi a produrre serie conseguenze sugli adulti, i figli e la società, indebolendo l’individuo e i legami sociali».[16] Le crisi coniugali frequentemente si affrontano «in modo sbrigativo e senza il coraggio della pazienza, della verifica, del perdono reciproco, della riconciliazione e anche del sacrificio. I fallimenti danno, così, origine a nuove relazioni, nuove coppie, nuove unioni e nuovi matrimoni, creando situazioni famigliari complesse e problematiche per la scelta cristiana».[17]

42. «Anche il calo demografico, dovuto ad una mentalità antinatalista e promosso dalle politiche mondiali di salute riproduttiva, non solo determina una situazione in cui l’avvicendarsi delle generazioni non è più assicurato, ma rischia di condurre nel tempo a un impoverimento economico e a una perdita di speranza nell’avvenire. Lo sviluppo delle biotecnologie ha avuto anch’esso un forte impatto sulla natalità».[18] Possono aggiungersi altri fattori come «l’industrializzazione, la rivoluzione sessuale, il timore della sovrappopolazione, i problemi economici, […]. La società dei consumi può anche dissuadere le persone dall’avere figli anche solo per mantenere la loro libertà e il proprio stile di vita».[19] E’ vero che la retta coscienza degli sposi, quando sono stati molto generosi nella trasmissione della vita, può orientarli alla decisione di limitare il numero dei figli per motivi sufficientemente seri, ma sempre «per amore di questa dignità della coscienza la Chiesa rigetta con tutte le sue forze gli interventi coercitivi dello Stato a favore di contraccezione, sterilizzazione o addirittura aborto».[20] Tali misure sono inaccettabili anche in luoghi con alto tasso di natalità, ma è da rilevare che i politici le incoraggiano anche in alcuni paesi che soffrono il dramma di un tasso di natalità molto basso. Come hanno indicato i Vescovi della Corea, questo è «agire in un modo contraddittorio e venendo meno al proprio dovere».[21]

43. L’indebolimento della fede e della pratica religiosa in alcune società ha effetti sulle famiglie e le lascia più sole con le loro difficoltà. I Padri hanno affermato che «una delle più grandi povertà della cultura attuale è la solitudine, frutto dell’assenza di Dio nella vita delle persone e della fragilità delle relazioni. C’è anche una sensazione generale di impotenza nei confronti della realtà socioeconomica che spesso finisce per schiacciare le famiglie. […] Spesso le famiglie si sentono abbandonate per il disinteresse e la poca attenzione da parte delle istituzioni. Le conseguenze negative dal punto di vista dell’organizzazione sociale sono evidenti: dalla crisi demografica alle difficoltà educative, dalla fatica nell’accogliere la vita nascente all’avvertire la presenza degli anziani come un peso, fino al diffondersi di un disagio affettivo che arriva talvolta alla violenza. È responsabilità dello Stato creare le condizioni legislative e di lavoro per garantire l’avvenire dei giovani e aiutarli a realizzare il loro progetto di fondare una famiglia».[22]

44. La mancanza di una abitazione dignitosa o adeguata porta spesso a rimandare la formalizzazione di una relazione. Occorre ricordare che «la famiglia ha il diritto a un’abitazione decente, adatta per la vita della famiglia e proporzionata al numero dei membri, in un ambiente che provveda i servizi di base per la vita della famiglia e della comunità».[23] Una famiglia e una casa sono due cose che si richiamano a vicenda. Questo esempio mostra che dobbiamo insistere sui diritti della famiglia, e non solo sui diritti individuali. La famiglia è un bene da cui la società non può prescindere, ma ha bisogno di essere protetta.[24] La difesa di questi diritti è «un appello profetico in favore dell'istituzione familiare, la quale deve essere rispettata e difesa da tutte le usurpazioni»,[25] soprattutto nel contesto attuale dove solitamente occupa poco spazio nei progetti politici. Le famiglie hanno, tra gli altri diritti, quello di «poter fare assegnamento su una adeguata politica familiare da parte delle pubbliche autorità nell'ambito giuridico, economico, sociale e fiscale».[26] A volte sono drammatiche le angustie delle famiglie quando, in presenza della malattia di una persona cara, non hanno accesso a servizi sanitari adeguati, o quando si prolunga il tempo senza che si ottenga un impiego dignitoso. «Le coercizioni economiche escludono l’accesso delle famiglie all’educazione, alla vita culturale e alla vita sociale attiva. L’attuale sistema economico produce diverse forme di esclusione sociale. Le famiglie soffrono in modo particolare i problemi che riguardano il lavoro. Le possibilità per i giovani sono poche e l’offerta di lavoro è molto selettiva e precaria. Le giornate lavorative sono lunghe e spesso appesantite da lunghi tempi di trasferta. Questo non aiuta i familiari a ritrovarsi tra loro e con i figli, in modo da alimentare quotidianamente le loro relazioni». [27]

45. «Molti sono i bambini che nascono fuori dal matrimonio, specie in alcuni Paesi, e molti quelli che poi crescono con uno solo dei genitori o in un contesto familiare allargato o ricostituito. […] Lo sfruttamento sessuale dell’infanzia costituisce poi una delle realtà più scandalose e perverse della società attuale. Anche le società attraversate dalla violenza a causa della guerra, del terrorismo o della presenza della criminalità organizzata, vedono situazioni familiari deteriorate e soprattutto nelle grandi metropoli e nelle loro periferie cresce il cosiddetto fenomeno dei bambini di strada».[28] L’abuso sessuale dei bambini diventa ancora più scandaloso quando avviene in luoghi dove essi devono essere protetti, particolarmente nelle famiglie, nelle scuole e nelle comunità e istituzioni cristiane.[29]

46. Le migrazioni «rappresentano un altro segno dei tempi da affrontare e comprendere con tutto il carico di conseguenze sulla vita familiare».[30] L’ultimo Sinodo ha dato una grande importanza a questa problematica, affermando che «tocca, con modalità differenti, intere popolazioni, in diverse parti del mondo. La Chiesa ha esercitato in questo campo un ruolo di primo piano. La necessità di mantenere e sviluppare questa testimonianza evangelica (cf. Mt 25,35) appare oggi più che mai urgente. […] La mobilità umana, che corrisponde al naturale movimento storico dei popoli, può rivelarsi un’autentica ricchezza tanto per la famiglia che emigra quanto per il paese che la accoglie. Altra cosa è la migrazione forzata delle famiglie, frutto di situazioni di guerra, di persecuzione, di povertà, di ingiustizia, segnata dalle peripezie di un viaggio che mette spesso in pericolo la vita, traumatizza le persone e destabilizza le famiglie. L’accompagnamento dei migranti esige una pastorale specifica rivolta alle famiglie in migrazione, ma anche ai membri dei nuclei familiari rimasti nei luoghi d’origine. Ciò deve essere attuato nel rispetto delle loro culture, della formazione religiosa ed umana da cui provengono, della ricchezza spirituale dei loro riti e tradizioni, anche mediante una cura pastorale specifica. […] Le migrazioni appaiono particolarmente drammatiche e devastanti per le famiglie e per gli individui quando hanno luogo al di fuori della legalità e sono sostenute da circuiti internazionali di tratta degli esseri umani. Lo stesso può dirsi quando riguardano donne o bambini non accompagnati, costretti a soggiorni prolungati nei luoghi di passaggio, nei campi profughi, dove è impossibile avviare un percorso di integrazione. La povertà estrema e altre situazioni di disgregazione inducono talvolta le famiglie perfino a vendere i propri figli per la prostituzione o per il traffico di organi».[31] «Le persecuzioni dei cristiani, come anche quelle di minoranze etniche e religiose, in diverse parti del mondo, specialmente in Medio Oriente, rappresentano una grande prova: non solo per la Chiesa, ma anche per l’intera comunità internazionale. Ogni sforzo va sostenuto per favorire la permanenza di famiglie e comunità cristiane nelle loro terre di origine».[32]

47. I Padri hanno dedicato speciale attenzione anche «alle famiglie delle persone con disabilità, in cui l’handicap, che irrompe nella vita, genera una sfida, profonda e inattesa, e sconvolge gli equilibri, i desideri, le aspettative. […] Meritano grande ammirazione le famiglie che accettano con amore la difficile prova di un figlio disabile. Esse danno alla Chiesa e alla società una testimonianza preziosa di fedeltà al dono della vita. La famiglia potrà scoprire, insieme alla comunità cristiana, nuovi gesti e linguaggi, forme di comprensione e di identità, nel cammino di accoglienza e cura del mistero della fragilità. Le persone con disabilità costituiscono per la famiglia un dono e un’opportunità per crescere nell’amore, nel reciproco aiuto e nell’unità. […] La famiglia che accetta con lo sguardo della fede la presenza di persone con disabilità potrà riconoscere e garantire la qualità e il valore di ogni vita, con i suoi bisogni, i suoi diritti e le sue opportunità. Essa solleciterà servizi e cure, e promuoverà compagnia ed affetto, in ogni fase della vita».[33] Desidero sottolineare che l’attenzione dedicata tanto ai migranti quanto alle persone con disabilità è un segno dello Spirito. Infatti entrambe le situazioni sono paradigmatiche: mettono specialmente in gioco il modo in cui si vive oggi la logica dell’accoglienza misericordiosa e dell’integrazione delle persone fragili.

48. «La maggior parte delle famiglie rispetta gli anziani, li circonda di affetto e li considera una benedizione. Uno speciale apprezzamento va alle associazioni e ai movimenti familiari che operano in favore degli anziani, sotto l’aspetto spirituale e sociale […]. Nelle società altamente industrializzate, ove il loro numero tende ad aumentare mentre decresce la natalità, essi rischiano di essere percepiti come un peso. D’altra parte le cure che essi richiedono mettono spesso a dura prova i loro cari».[34] «La valorizzazione della fase conclusiva della vita è oggi tanto più necessaria quanto più si tenta di rimuovere in ogni modo il momento del trapasso. La fragilità e dipendenza dell’anziano talora vengono sfruttate iniquamente per mero vantaggio economico. Numerose famiglie ci insegnano che è possibile affrontare le ultime tappe della vita valorizzando il senso del compimento e dell’integrazione dell’intera esistenza nel mistero pasquale. Un gran numero di anziani è accolto in strutture ecclesiali dove possono vivere in un ambiente sereno e familiare sul piano materiale e spirituale. L’eutanasia e il suicidio assistito sono gravi minacce per le famiglie in tutto il mondo. La loro pratica è legale in molti Stati. La Chiesa, mentre contrasta fermamente queste prassi, sente il dovere di aiutare le famiglie che si prendono cura dei loro membri anziani e ammalati».[35]

49. Voglio mettere in risalto la situazione delle famiglie schiacciate dalla miseria, penalizzate in tanti modi, dove i limiti della vita si vivono in maniera lacerante. Se tutti incontrano difficoltà, in una casa molto povera queste diventano più dure. [36] Per esempio, se una donna deve allevare suo figlio da sola, per una separazione o per altre cause, e deve lavorare senza la possibilità di lasciarlo a un’altra persona, lui cresce in un abbandono che lo espone ad ogni tipo di rischio, e la sua maturazione personale resta compromessa. Nelle difficili situazioni che vivono le persone più bisognose, la Chiesa deve avere una cura speciale per comprendere, consolare, integrare, evitando di imporre loro una serie di norme come se fossero delle pietre, ottenendo con ciò l’effetto di farle sentire giudicate e abbandonate proprio da quella Madre che è chiamata a portare loro la misericordia di Dio. In tal modo, invece di offrire la forza risanatrice della grazia e la luce del Vangelo, alcuni vogliono “indottrinare” il Vangelo, trasformarlo in «pietre morte da scagliare contro gli altri».[37]

Alcune sfide

50. Le risposte ricevute alle due consultazioni, effettuate durante il cammino sinodale, hanno menzionato le più diverse situazioni che pongono nuove sfide. Oltre a quelle già indicate, molti si sono riferiti alla funzione educativa, che si trova in difficoltà perché, tra le altre cause, i genitori tornano a casa stanchi e senza voglia di parlare, in tante famiglie non c’è più nemmeno l’abitudine di mangiare insieme, e cresce una gran varietà di offerte di distrazioni oltre la dipendenza dalla televisione. Questo rende difficile la trasmissione della fede da genitori a figli. Altri hanno segnalato che le famiglie sono spesso malate di un’enorme ansietà. Sembra che siano più preoccupate di prevenire problemi futuri che di condividere il presente. Questo, che è una questione culturale, si aggrava a causa di un futuro professionale incerto, dell’insicurezza economica, o del timore per l’avvenire dei figli.

51. E’ stata menzionata anche la tossicodipendenza come una delle piaghe della nostra epoca, che fa soffrire molte famiglie, e non di rado finisce per distruggerle. Qualcosa di simile succede con l’alcolismo, il gioco e altre dipendenze. La famiglia potrebbe essere il luogo della prevenzione e delle buone regole, ma la società e la politica non arrivano a capire che una famiglia a rischio «perde la capacità di reazione per aiutare i suoi membri […] Notiamo le gravi conseguenze di questa rottura in famiglie distrutte, figli sradicati, anziani abbandonati, bambini orfani di genitori vivi, adolescenti e giovani disorientati e senza regole».[38] Come hanno indicato i Vescovi del Messico, ci sono tristi situazioni di violenza familiare che sono terreno fertile per nuove forme di aggressività sociale, perché «le relazioni familiari spiegano anche la predisposizione a una personalità violenta. Le famiglie che influiscono in tal senso sono quelle che mancano di comunicazione; quelle in cui predominano atteggiamenti difensivi e i membri non si appoggiano tra loro; in cui non ci sono attività familiari che favoriscano la partecipazione; in cui le relazioni dei genitori tra loro sono spesso conflittuali e violente, e quelle genitori-figli si caratterizzano per atteggiamenti ostili. La violenza intrafamiliare è scuola di risentimento e di odio nelle relazioni umane fondamentali».[39]

52. Nessuno può pensare che indebolire la famiglia come società naturale fondata sul matrimonio sia qualcosa che giova alla società. Accade il contrario: pregiudica la maturazione delle persone, la cura dei valori comunitari e lo sviluppo etico delle città e dei villaggi. Non si avverte più con chiarezza che solo l’unione esclusiva e indissolubile tra un uomo e una donna svolge una funzione sociale piena, essendo un impegno stabile e rendendo possibile la fecondità. Dobbiamo riconoscere la grande varietà di situazioni familiari che possono offrire una certa regola di vita, ma le unioni di fatto o tra persone dello stesso sesso, per esempio, non si possono equiparare semplicisticamente al matrimonio. Nessuna unione precaria o chiusa alla trasmissione della vita ci assicura il futuro della società. Ma chi si occupa oggi di sostenere i coniugi, di aiutarli a superare i rischi che li minacciano, di accompagnarli nel loro ruolo educativo, di stimolare la stabilità dell’unione coniugale?

53. «In alcune società vige ancora la pratica della poligamia; in altri contesti permane la pratica dei matrimoni combinati. […] In molti contesti, e non solo occidentali, si va diffondendo ampiamente la prassi della convivenza che precede il matrimonio o anche quella di convivenze non orientate ad assumere la forma di un vincolo istituzionale».[40] In diversi paesi la legislazione facilita lo sviluppo di una molteplicità di alternative, così che un matrimonio connotato da esclusività, indissolubilità e apertura alla vita finisce per apparire una proposta antiquata tra molte altre. Avanza in molti paesi una decostruzione giuridica della famiglia che tende ad adottare forme basate quasi esclusivamente sul paradigma dell’autonomia della volontà. Benché sia legittimo e giusto che si respingano vecchie forme di famiglia “tradizionale” caratterizzate dall’autoritarismo e anche dalla violenza, questo non dovrebbe portare al disprezzo del matrimonio bensì alla riscoperta del suo vero senso e al suo rinnovamento. La forza della famiglia «risiede essenzialmente nella sua capacità di amare e di insegnare ad amare. Per quanto ferita possa essere una famiglia, essa può sempre crescere a partire dall’amore».[41]

54. In questo breve sguardo sulla realtà, desidero rilevare che, per quanto ci siano stati notevoli miglioramenti nel riconoscimento dei diritti della donna e nella sua partecipazione allo spazio pubblico, c’è ancora molto da crescere in alcuni paesi. Non sono ancora del tutto sradicati costumi inaccettabili. Anzitutto la vergognosa violenza che a volte si usa nei confronti delle donne, i maltrattamenti familiari e varie forme di schiavitù che non costituiscono una dimostrazione di forza mascolina bensì un codardo degrado. La violenza verbale, fisica e sessuale che si esercita contro le donne in alcune coppie di sposi contraddice la natura stessa dell’unione coniugale. Penso alla grave mutilazione genitale della donna in alcune culture, ma anche alla disuguaglianza dell’accesso a posti di lavoro dignitosi e ai luoghi in cui si prendono le decisioni. La storia ricalca le orme degli eccessi delle culture patriarcali, dove la donna era considerata di seconda classe, ma ricordiamo anche la pratica dell’“utero in affitto” o la «strumentalizzazione e mercificazione del corpo femminile nell’attuale cultura mediatica».[42] C’è chi ritiene che molti problemi attuali si sono verificati a partire dall’emancipazione della donna. Ma questo argomento non è valido, «è una falsità, non è vero. E’ una forma di maschilismo».[43] L’identica dignità tra l’uomo e la donna ci porta a rallegrarci del fatto che si superino vecchie forme di discriminazione, e che in seno alle famiglie si sviluppi uno stile di reciprocità. Se sorgono forme di femminismo che non possiamo considerare adeguate, ammiriamo ugualmente l’opera dello Spirito nel riconoscimento più chiaro della dignità della donna e dei suoi diritti.

55. L’uomo «riveste un ruolo egualmente decisivo nella vita della famiglia, con particolare riferimento alla protezione e al sostegno della sposa e dei figli. […] Molti uomini sono consapevoli dell’importanza del proprio ruolo nella famiglia e lo vivono con le qualità peculiari dell’indole maschile. L’assenza del padre segna gravemente la vita familiare, l’educazione dei figli e il loro inserimento nella società. La sua assenza può essere fisica, affettiva, cognitiva e spirituale. Questa carenza priva i figli di un modello adeguato del comportamento paterno».[44]

56. Un’altra sfida emerge da varie forme di un’ideologia, genericamente chiamata gender, che «nega la differenza e la reciprocità naturale di uomo e donna. Essa prospetta una società senza differenze di sesso, e svuota la base antropologica della famiglia. Questa ideologia induce progetti educativi e orientamenti legislativi che promuovono un’identità personale e un’intimità affettiva radicalmente svincolate dalla diversità biologica fra maschio e femmina. L’identità umana viene consegnata ad un’opzione individualistica, anche mutevole nel tempo».[45] E’ inquietante che alcune ideologie di questo tipo, che pretendono di rispondere a certe aspirazioni a volte comprensibili, cerchino di imporsi come un pensiero unico che determini anche l’educazione dei bambini. Non si deve ignorare che «sesso biologico (sex) e ruolo sociale-culturale del sesso (gender), si possono distinguere, ma non separare».[46] D’altra parte, «la rivoluzione biotecnologica nel campo della procreazione umana ha introdotto la possibilità di manipolare l’atto generativo, rendendolo indipendente dalla relazione sessuale tra uomo e donna. In questo modo, la vita umana e la genitorialità sono divenute realtà componibili e scomponibili, soggette prevalentemente ai desideri di singoli o di coppie».[47] Una cosa è comprendere la fragilità umana o la complessità della vita, altra cosa è accettare ideologie che pretendono di dividere in due gli aspetti inseparabili della realtà. Non cadiamo nel peccato di pretendere di sostituirci al Creatore. Siamo creature, non siamo onnipotenti. Il creato ci precede e dev’essere ricevuto come dono. Al tempo stesso, siamo chiamati a custodire la nostra umanità, e ciò significa anzitutto accettarla e rispettarla come è stata creata.

57. Rendo grazie a Dio perché molte famiglie, che sono ben lontane dal considerarsi perfette, vivono nell’amore, realizzano la propria vocazione e vanno avanti anche se cadono tante volte lungo il cammino. A partire dalle riflessioni sinodali non rimane uno stereotipo della famiglia ideale, bensì un interpellante mosaico formato da tante realtà diverse, piene di gioie, drammi e sogni. Le realtà che ci preoccupano sono sfide. Non cadiamo nella trappola di esaurirci in lamenti autodifensivi, invece di suscitare una creatività missionaria. In tutte le situazioni «la Chiesa avverte la necessità di dire una parola di verità e di speranza. […] I grandi valori del matrimonio e della famiglia cristiana corrispondono alla ricerca che attraversa l’esistenza umana».[48] Se constatiamo molte difficoltà, esse sono – come hanno affermato i Vescovi della Colombia – un invito a «liberare in noi le energie della speranza traducendole in sogni profetici, azioni trasformatrici e immaginazione della carità».[49]

CAPITOLO TERZO

LO SGUARDO RIVOLTO A GESÙ: LA VOCAZIONE DELLA FAMIGLIA

58. Davanti alle famiglie e in mezzo ad esse deve sempre nuovamente risuonare il primo annuncio, ciò che è «più bello, più grande, più attraente e allo stesso tempo più necessario»[50], e «deve occupare il centro dell’attività evangelizzatrice».[51] È l’annuncio principale, «quello che si deve sempre tornare ad ascoltare in modi diversi e che si deve sempre tornare ad annunciare durante la catechesi in una forma o nell’altra».[52] Perché «non c’è nulla di più solido, di più profondo, di più sicuro, di più consistente e di più saggio di tale annuncio» e «tutta la formazione cristiana è prima di tutto l’approfondimento del kerygma».[53]

59. Il nostro insegnamento sul matrimonio e la famiglia non può cessare di ispirarsi e di trasfigurarsi alla luce di questo annuncio di amore e di tenerezza, per non diventare mera difesa di una dottrina fredda e senza vita. Infatti, non si può neppure comprendere pienamente il mistero della famiglia cristiana se non alla luce dell’infinito amore del Padre, che si è manifestato in Cristo, il quale si è donato sino alla fine ed è vivo in mezzo a noi. Perciò desidero contemplare Cristo vivente che è presente in tante storie d’amore, e invocare il fuoco dello Spirito su tutte le famiglie del mondo.

60. Entro tale quadro, questo breve capitolo raccoglie una sintesi dell’insegnamento della Chiesa sul matrimonio e la famiglia. Anche a questo riguardo citerò diversi contributi presentati dai Padri sinodali nelle loro considerazioni sulla luce che ci offre la fede. Essi sono partiti dallo sguardo di Gesù e hanno indicato che Egli «ha guardato alle donne e agli uomini che ha incontrato con amore e tenerezza, accompagnando i loro passi con verità, pazienza e misericordia, nell’annunciare le esigenze del Regno di Dio».[54] Allo stesso modo, il Signore ci accompagna oggi nel nostro impegno per vivere e trasmettere il Vangelo della famiglia.

Gesù recupera e porta a compimento il progetto divino

61. Di fronte a quelli che proibivano il matrimonio, il Nuovo Testamento insegna che «ogni creazione di Dio è buona e nulla va rifiutato» (1 Tm 4,4). Il matrimonio è un «dono» del Signore (cfr 1 Cor 7,7). Nello stesso tempo, a causa di tale valutazione positiva, si pone un forte accento sull’avere cura di questo dono divino: «Il matrimonio sia rispettato da tutti e il letto nuziale sia senza macchia» (Eb 13,4). Tale dono di Dio include la sessualità: «Non rifiutatevi l’un l’altro» (1 Cor 7,5).

62. I Padri sinodali hanno ricordato che Gesù, «riferendosi al disegno primigenio sulla coppia umana, riafferma l’unione indissolubile tra l’uomo e la donna, pur dicendo che “per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli, ma da principio non fu così” (Mt 19,8). L’indissolubilità del matrimonio (“Quello dunque che Dio ha congiunto, l’uomo non lo separi”: Mt 19,6), non è innanzitutto da intendere come “giogo” imposto agli uomini, bensì come un “dono” fatto alle persone unite in matrimonio. […] La condiscendenza divina accompagna sempre il cammino umano, guarisce e trasforma il cuore indurito con la sua grazia, orientandolo verso il suo principio, attraverso la via della croce. Dai Vangeli emerge chiaramente l’esempio di Gesù, che […] annunciò il messaggio concernente il significato del matrimonio come pienezza della rivelazione che recupera il progetto originario di Dio (cfr Mt 19,3)».[55]

63. «Gesù, che ha riconciliato ogni cosa in sé, ha riportato il matrimonio e la famiglia alla loro forma originale (cfr Mc 10,1-12). La famiglia e il matrimonio sono stati redenti da Cristo (cfr Ef 5,21-32), restaurati a immagine della Santissima Trinità, mistero da cui scaturisce ogni vero amore. L’alleanza sponsale, inaugurata nella creazione e rivelata nella storia della salvezza, riceve la piena rivelazione del suo significato in Cristo e nella sua Chiesa. Da Cristo attraverso la Chiesa, il matrimonio e la famiglia ricevono la grazia necessaria per testimoniare l'amore di Dio e vivere la vita di comunione. Il Vangelo della famiglia attraversa la storia del mondo sin dalla creazione dell’uomo ad immagine e somiglianza di Dio (cfr Gen 1,26-27) fino al compimento del mistero dell’Alleanza in Cristo alla fine dei secoli con le nozze dell’Agnello (cfr Ap 19,9)». [56]

64. «L’esempio di Gesù è paradigmatico per la Chiesa. […] Egli ha inaugurato la sua vita pubblica con il segno di Cana, compiuto ad un banchetto di nozze (cfr Gv 2,1-11). […] Ha condiviso momenti quotidiani di amicizia con la famiglia di Lazzaro e le sue sorelle (cfr Lc 10,38) e con la famiglia di Pietro (cfr Mt 8,14). Ha ascoltato il pianto dei genitori per i loro figli, restituendoli alla vita (cfr Mc 5,41; Lc 7,14-15) e manifestando così il vero significato della misericordia, la quale implica il ristabilimento dell’Alleanza (cfr Giovanni Paolo II, Dives in misericordia, 4). Ciò appare chiaramente negli incontri con la donna samaritana (cfr Gv 4,1- 30) e con l’adultera (cfr Gv 8,1-11), nei quali la percezione del peccato si desta davanti all’amore gratuito di Gesù».[57]

 65. L’incarnazione del Verbo in una famiglia umana, a Nazaret, commuove con la sua novità la storia del mondo. Abbiamo bisogno di immergerci nel mistero della nascita di Gesù, nel sì di Maria all’annuncio dell’angelo, quando venne concepita la Parola nel suo seno; anche nel sì di Giuseppe, che ha dato il nome a Gesù e si fece carico di Maria; nella festa dei pastori al presepe; nell’adorazione dei Magi; nella fuga in Egitto, in cui Gesù partecipa al dolore del suo popolo esiliato, perseguitato e umiliato; nella religiosa attesa di Zaccaria e nella gioia che accompagna la nascita di Giovanni Battista; nella promessa compiuta per Simeone e Anna nel tempio; nell’ammirazione dei dottori della legge mentre ascoltano la saggezza di Gesù adolescente. E quindi penetrare nei trenta lunghi anni nei quali Gesù si guadagnò il pane lavorando con le sue mani, sussurrando le orazioni e la tradizione credente del suo popolo ed educandosi nella fede dei suoi padri, fino a farla fruttificare nel mistero del Regno. Questo è il mistero del Natale e il segreto di Nazaret, pieno di profumo di famiglia! E’ il mistero che tanto ha affascinato Francesco di Assisi, Teresa di Gesù Bambino e Charles de Foucauld, e al quale si dissetano anche le famiglie cristiane per rinnovare la loro speranza e la loro gioia.

66. «L’alleanza di amore e fedeltà, di cui vive la Santa Famiglia di Nazaret, illumina il principio che dà forma ad ogni famiglia, e la rende capace di affrontare meglio le vicissitudini della vita e della storia. Su questo fondamento, ogni famiglia, pur nella sua debolezza, può diventare una luce nel buio del mondo. “Qui comprendiamo il modo di vivere in famiglia. Nazaret ci ricordi che cos’è la famiglia, cos’è la comunione di amore, la sua bellezza austera e semplice, il suo carattere sacro e inviolabile; ci faccia vedere come è dolce ed insostituibile l’educazione in famiglia, ci insegni la sua funzione naturale nell’ordine sociale” (Paolo VI, Discorso a Nazaret, 5 gennaio 1964)».[58]

La famiglia nei documenti della Chiesa

67. Il Concilio Ecumenico Vaticano II, nella Costituzione pastorale Gaudium et spes, si è occupato della promozione della dignità del matrimonio e della famiglia (cfr nn. 47-52). «Esso ha definito il matrimonio come comunità di vita e di amore (cfr 48), mettendo l’amore al centro della famiglia […]. Il “vero amore tra marito e moglie” (49) implica la mutua donazione di sé, include e integra la dimensione sessuale e l’affettività, corrispondendo al disegno divino (cfr 48-49). Inoltre sottolinea il radicamento in Cristo degli sposi: Cristo Signore “viene incontro ai coniugi cristiani nel sacramento del matrimonio” (48) e con loro rimane. Nell’incarnazione, Egli assume l’amore umano, lo purifica, lo porta a pienezza, e dona agli sposi, con il suo Spirito, la capacità di viverlo, pervadendo tutta la loro vita di fede, speranza e carità. In questo modo gli sposi sono come consacrati e, mediante una grazia propria, edificano il Corpo di Cristo e costituiscono una Chiesa domestica (cfr Lumen gentium, 11), così che la Chiesa, per comprendere pienamente il suo mistero, guarda alla famiglia cristiana, che lo manifesta in modo genuino».[59]

68. In seguito, «il beato Paolo VI, sulla scia del Concilio Vaticano II, ha approfondito la dottrina sul matrimonio e sulla famiglia. In particolare, con l’Enciclica Humanae vitae, ha messo in luce il legame intrinseco tra amore coniugale e generazione della vita: “L’amore coniugale richiede dagli sposi che essi conoscano convenientemente la loro missione di paternità responsabile, sulla quale oggi a buon diritto tanto si insiste e che va anch’essa esattamente compresa. […] L’esercizio responsabile della paternità implica dunque che i coniugi riconoscano i propri doveri verso Dio, verso se stessi, verso la famiglia e verso la società, in una giusta gerarchia dei valori» (n. 10). Nell’Esortazione Apostolica Evangelii nuntiandi, Paolo VI ha evidenziato il rapporto tra la famiglia e la Chiesa».[60]

69. «San Giovanni Paolo II ha dedicato alla famiglia una particolare attenzione attraverso le sue catechesi sull’amore umano, la Lettera alle famiglie Gratissimam sane e soprattutto con l’Esortazione apostolica Familiaris consortio. In tali documenti, il Pontefice ha definito la famiglia “via della Chiesa”; ha offerto una visione d’insieme sulla vocazione all’amore dell’uomo e della donna; ha proposto le linee fondamentali per la pastorale della famiglia e per la presenza della famiglia nella società. In particolare, trattando della carità coniugale (cfr Familiaris consortio, 13), ha descritto il modo in cui i coniugi, nel loro mutuo amore, ricevono il dono dello Spirito di Cristo e vivono la loro chiamata alla santità».[61]

70. «Benedetto XVI, nell’Enciclica Deus caritas est, ha ripreso il tema della verità dell’amore tra uomo e donna, che s’illumina pienamente solo alla luce dell’amore di Cristo crocifisso (cfr 2). Egli ribadisce come “il matrimonio basato su un amore esclusivo e definitivo diventa l’icona del rapporto di Dio con il suo popolo e viceversa: il modo di amare di Dio diventa la misura dell’amore umano” (11). Inoltre, nell’Enciclica Caritas in veritate, evidenzia l’importanza dell’amore come principio di vita nella società (cfr 44), luogo in cui s’impara l’esperienza del bene comune».[62]

Il sacramento del matrimonio

71. «La Scrittura e la Tradizione ci aprono l’accesso a una conoscenza della Trinità che si rivela con tratti familiari. La famiglia è immagine di Dio, che […] è comunione di persone. Nel battesimo, la voce del Padre designa Gesù come suo Figlio amato, e in questo amore ci è dato di riconoscere lo Spirito Santo (cfr Mc 1,10-11). Gesù, che ha riconciliato ogni cosa in sé e ha redento l’uomo dal peccato, non solo ha riportato il matrimonio e la famiglia alla loro forma originale, ma ha anche elevato il matrimonio a segno sacramentale del suo amore per la Chiesa (cfr Mt 19,1-12; Mc 10,1-12; Ef 5,21-32). Nella famiglia umana, radunata da Cristo, è restituita la “immagine e somiglianza” della Santissima Trinità (cfr Gen 1,26), mistero da cui scaturisce ogni vero amore. Da Cristo, attraverso la Chiesa, il matrimonio e la famiglia ricevono la grazia dello Spirito Santo, per testimoniare il Vangelo dell’amore di Dio».[63]

72. Il sacramento del matrimonio non è una convenzione sociale, un rito vuoto o il mero segno esterno di un impegno. Il sacramento è un dono per la santificazione e la salvezza degli sposi, perché «la loro reciproca appartenenza è la rappresentazione reale, per il tramite del segno sacramentale, del rapporto stesso di Cristo con la Chiesa. Gli sposi sono pertanto il richiamo permanente per la Chiesa di ciò che è accaduto sulla Croce; sono l’uno per l’altra, e per i figli, testimoni della salvezza, di cui il sacramento li rende partecipi».[64] Il matrimonio è una vocazione, in quanto è una risposta alla specifica chiamata a vivere l’amore coniugale come segno imperfetto dell’amore tra Cristo e la Chiesa. Pertanto, la decisione di sposarsi e di formare una famiglia dev’essere frutto di un discernimento vocazionale.

73. «Il dono reciproco costitutivo del matrimonio sacramentale è radicato nella grazia del battesimo che stabilisce l’alleanza fondamentale di ogni persona con Cristo nella Chiesa. Nella reciproca accoglienza e con la grazia di Cristo i nubendi si promettono dono totale, fedeltà e apertura alla vita, essi riconoscono come elementi costitutivi del matrimonio i doni che Dio offre loro, prendendo sul serio il loro vicendevole impegno, in suo nome e di fronte alla Chiesa. Ora, nella fede è possibile assumere i beni del matrimonio come impegni meglio sostenibili mediante l’aiuto della grazia del sacramento. […] Pertanto, lo sguardo della Chiesa si volge agli sposi come al cuore della famiglia intera che volge anch’essa lo sguardo verso Gesù».[65] Il sacramento non è una “cosa” o una “forza”, perché in realtà Cristo stesso «viene incontro ai coniugi cristiani attraverso il sacramento del matrimonio. Egli rimane con loro, dà loro la forza di seguirlo prendendo su di sé la propria croce, di rialzarsi dopo le loro cadute, di perdonarsi vicendevolmente, di portare gli uni i pesi degli altri».[66] Il matrimonio cristiano è un segno che non solo indica quanto Cristo ha amato la sua Chiesa nell’Alleanza sigillata sulla Croce, ma rende presente tale amore nella comunione degli sposi. Unendosi in una sola carne rappresentano lo sposalizio del Figlio di Dio con la natura umana. Per questo «nelle gioie del loro amore e della loro vita familiare egli concede loro, fin da quaggiù, una pregustazione del banchetto delle nozze dell’Agnello».[67] Benché «l’analogia tra la coppia marito-moglie e quella Cristo-Chiesa» sia una «analogia imperfetta»,[68] essa invita ad invocare il Signore perché riversi il suo amore dentro i limiti delle relazioni coniugali.

74. L’unione sessuale, vissuta in modo umano e santificata dal sacramento, è a sua volta per gli sposi via di crescita nella vita della grazia. È il «mistero nuziale». [69] Il valore dell’unione dei corpi è espresso nelle parole del consenso, dove i coniugi si sono accolti e si sono donati reciprocamente per condividere tutta la vita. Queste parole conferiscono un significato alla sessualità, liberandola da qualsiasi ambiguità. Tuttavia, in realtà, tutta la vita in comune degli sposi, tutta la rete delle relazioni che tesseranno tra loro, con i loro figli e con il mondo, sarà impregnata e irrobustita dalla grazia del sacramento che sgorga dal mistero dell’Incarnazione e della Pasqua, in cui Dio ha espresso tutto il suo amore per l’umanità e si è unito intimamente ad essa. Non saranno mai soli con le loro forze ad affrontare le sfide che si presentano. Essi sono chiamati a rispondere al dono di Dio con il loro impegno, la loro creatività, la loro resistenza e lotta quotidiana, ma potranno sempre invocare lo Spirito Santo che ha consacrato la loro unione, perché la grazia ricevuta si manifesti nuovamente in ogni nuova situazione.

75. Secondo la tradizione latina della Chiesa, nel sacramento del matrimonio i ministri sono l’uomo e la donna che si sposano,[70] i quali, manifestando il loro mutuo consenso ed esprimendolo nel reciproco dono corporale, ricevono un grande dono. Il loro consenso e l’unione dei corpi sono gli strumenti dell’azione divina che li rende una sola carne. Nel Battesimo è stata consacrata la loro capacità di unirsi in matrimonio come ministri del Signore per rispondere alla chiamata di Dio. Pertanto, quando due coniugi non cristiani ricevono il Battesimo, non è necessario che rinnovino la promessa matrimoniale ed è sufficiente che non la rifiutino, dal momento che, a causa del Battesimo che ricevono, la loro unione diventa per ciò stesso sacramentale. Il Diritto Canonico riconosce anche la validità di alcuni matrimoni che si celebrano senza un ministro ordinato.[71] Infatti l’ordine naturale è stato assunto dalla redenzione di Gesù Cristo, in maniera tale che «tra i battezzati, non può sussistere un valido contratto matrimoniale, che non sia per ciò stesso sacramento».[72] La Chiesa può esigere che l’atto sia pubblico, la presenza di testimoni e altre condizioni che sono mutate nel corso della storia, però questo non toglie ai due sposi il loro carattere di ministri del sacramento, né diminuisce la centralità del consenso dell’uomo e della donna, che è ciò che di per sé stabilisce il vincolo sacramentale. In ogni caso, abbiamo bisogno di riflettere ulteriormente circa l’azione divina nel rito nuziale, che è posta in grande risalto nelle Chiese orientali, con l’attribuire particolare importanza alla benedizione dei contraenti come segno del dono dello Spirito.

Semi del Verbo e situazioni imperfette

76. «Il Vangelo della famiglia nutre pure quei semi che ancora attendono di maturare, e deve curare quegli alberi che si sono inariditi e necessitano di non essere trascurati»,[73] in modo che, partendo dal dono di Cristo nel sacramento, «siano pazientemente condotti oltre, giungendo ad una conoscenza più ricca e ad una integrazione più piena di questo Mistero nella loro vita».[74]

77. Assumendo l’insegnamento biblico secondo il quale tutto è stato creato da Cristo e in vista di Cristo (cfr Col 1,16), i Padri sinodali hanno ricordato che «l’ordine della redenzione illumina e compie quello della creazione. Il matrimonio naturale, pertanto, si comprende pienamente alla luce del suo compimento sacramentale: solo fissando lo sguardo su Cristo si conosce fino in fondo la verità sui rapporti umani. “In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo. […] Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l’uomo a se stesso e gli manifesta la sua altissima vocazione” (Gaudium et spes, 22). Risulta particolarmente opportuno comprendere in chiave cristocentrica le proprietà naturali del matrimonio, che costituiscono il bene dei coniugi (bonum coniugum)»,[75] che comprende l’unità, l’apertura alla vita, la fedeltà e l’indissolubilità, e all’interno del matrimonio cristiano anche l’aiuto reciproco nel cammino verso una più piena amicizia con il Signore. «Il discernimento della presenza dei semina Verbi nelle altre culture (cfr Ad gentes, 11) può essere applicato anche alla realtà matrimoniale e familiare. Oltre al vero matrimonio naturale ci sono elementi positivi presenti nelle forme matrimoniali di altre tradizioni religiose»,[76] benché non manchino neppure le ombre. Possiamo affermare che «ogni persona che desideri formare in questo mondo una famiglia che insegni ai figli a gioire per ogni azione che si proponga di vincere il male – una famiglia che mostri che lo Spirito è vivo e operante –, troverà la gratitudine e la stima, a qualunque popolo, religione o regione appartenga».[77]

78. «Lo sguardo di Cristo, la cui luce rischiara ogni uomo (cfr Gv 1,9; Gaudium et spes, 22) ispira la cura pastorale della Chiesa verso i fedeli che semplicemente convivono o che hanno contratto matrimonio soltanto civile o sono divorziati risposati. Nella prospettiva della pedagogia divina, la Chiesa si volge con amore a coloro che partecipano alla sua vita in modo imperfetto: invoca con essi la grazia della conversione, li incoraggia a compiere il bene, a prendersi cura con amore l’uno dell’altro e a mettersi al servizio della comunità nella quale vivono e lavorano. […] Quando l’unione raggiunge una notevole stabilità attraverso un vincolo pubblico – ed è connotata da affetto profondo, da responsabilità nei confronti della prole, da capacità di superare le prove – può essere vista come un’occasione da accompagnare verso il sacramento del matrimonio, laddove questo sia possibile».[78]

79. «Di fronte a situazioni difficili e a famiglie ferite, occorre sempre ricordare un principio generale: “Sappiano i pastori che, per amore della verità, sono obbligati a ben discernere le situazioni” (Familiaris consortio, 84). Il grado di responsabilità non è uguale in tutti i casi, e possono esistere fattori che limitano la capacità di decisione. Perciò, mentre va espressa con chiarezza la dottrina, sono da evitare giudizi che non tengono conto della complessità delle diverse situazioni, ed è necessario essere attenti al modo in cui le persone vivono e soffrono a motivo della loro condizione».[79]

La trasmissione della vita e l’educazione dei figli

80. Il matrimonio è in primo luogo una «intima comunità di vita e di amore coniugale»[80] che costituisce un bene per gli stessi sposi,[81] e la sessualità «è ordinata all’amore coniugale dell’uomo e della donna».[82] Perciò anche «i coniugi ai quali Dio non ha concesso di avere figli, possono nondimeno avere una vita coniugale piena di senso, umanamente e cristianamente».[83] Ciò nonostante, questa unione è ordinata alla generazione «per la sua stessa natura».[84] Il bambino che nasce «non viene ad aggiungersi dall’esterno al reciproco amore degli sposi; sboccia al cuore stesso del loro mutuo dono, di cui è frutto e compimento».[85] Non giunge come alla fine di un processo, ma invece è presente dall’inizio del loro amore come una caratteristica essenziale che non può venire negata senza mutilare lo stesso amore. Fin dall’inizio l’amore rifiuta ogni impulso di chiudersi in sé stesso e si apre a una fecondità che lo prolunga oltre la sua propria esistenza. Dunque nessun atto genitale degli sposi può negare questo significato,[86] benché per diverse ragioni non sempre possa di fatto generare una nuova vita.

81. Il figlio chiede di nascere da un tale amore e non in qualsiasi modo, dal momento che egli «non è qualcosa di dovuto ma un dono»,[87] che è «il frutto dello specifico atto dell’amore coniugale dei suoi genitori».[88] Perché «secondo l’ordine della creazione l’amore coniugale tra un uomo e una donna e la trasmissione della vita sono ordinati l’uno all’altra (cfr Gen 1,27-28). In questo modo il Creatore ha reso partecipi l’uomo e la donna dell’opera della sua creazione e li ha contemporaneamente resi strumenti del suo amore, affidando alla loro responsabilità il futuro dell’umanità attraverso la trasmissione della vita umana».[89]

82. I Padri sinodali hanno affermato che «non è difficile constatare il diffondersi di una mentalità che riduce la generazione della vita a una variabile della progettazione individuale o di coppia».[90] L’insegnamento della Chiesa «aiuta a vivere in maniera armoniosa e consapevole la comunione tra i coniugi, in tutte le sue dimensioni, insieme alla responsabilità generativa. Va riscoperto il messaggio dell’Enciclica Humanae vitae di Paolo VI, che sottolinea il bisogno di rispettare la dignità della persona nella valutazione morale dei metodi di regolazione della natalità […] La scelta dell’adozione e dell’affido esprime una particolare fecondità dell’esperienza coniugale».[91] Con particolare gratitudine, la Chiesa «sostiene le famiglie che accolgono, educano e circondano del loro affetto i figli diversamente abili».[92]

83. In questo contesto, non posso non affermare che, se la famiglia è il santuario della vita, il luogo dove la vita è generata e curata, costituisce una lacerante contraddizione il fatto che diventi il luogo dove la vita viene negata e distrutta. È così grande il valore di una vita umana, ed è così inalienabile il diritto alla vita del bambino innocente che cresce nel seno di sua madre, che in nessun modo è possibile presentare come un diritto sul proprio corpo la possibilità di prendere decisioni nei confronti di tale vita, che è un fine in sé stessa e che non può mai essere oggetto di dominio da parte di un altro essere umano. La famiglia protegge la vita in ogni sua fase e anche al suo tramonto. Perciò «a coloro che operano nelle strutture sanitarie si rammenta l’obbligo morale dell’obiezione di coscienza. Allo stesso modo, la Chiesa non solo sente l’urgenza di affermare il diritto alla morte naturale, evitando l’accanimento terapeutico e l’eutanasia», ma «rigetta fermamente la pena di morte».[93]

84. I Padri hanno voluto sottolineare anche che «una delle sfide fondamentali di fronte a cui si trovano le famiglie oggi è sicuramente quella educativa, resa più impegnativa e complessa dalla realtà culturale attuale e della grande influenza dei media».[94] «La Chiesa svolge un ruolo prezioso di sostegno alle famiglie, partendo dall'iniziazione cristiana, attraverso comunità accoglienti».[95] Tuttavia mi sembra molto importante ricordare che l’educazione integrale dei figli è «dovere gravissimo» e allo stesso tempo «diritto primario» dei genitori.[96] Non si tratta solamente di un’incombenza o di un peso, ma anche di un diritto essenziale e insostituibile che sono chiamati a difendere e che nessuno dovrebbe pretendere di togliere loro. Lo Stato offre un servizio educativo in maniera sussidiaria, accompagnando la funzione non delegabile dei genitori, che hanno il diritto di poter scegliere con libertà il tipo di educazione – accessibile e di qualità – che intendono dare ai figli secondo le proprie convinzioni. La scuola non sostituisce i genitori bensì è ad essi complementare. Questo è un principio basilare: «Qualsiasi altro collaboratore nel processo educativo deve agire in nome dei genitori, con il loro consenso e, in una certa misura, anche su loro incarico».[97] Tuttavia «si è aperta una frattura tra famiglia e società, tra famiglia e scuola, il patto educativo oggi si è rotto; e così, l’alleanza educativa della società con la famiglia è entrata in crisi».[98]

85. La Chiesa è chiamata a collaborare, con un’azione pastorale adeguata, affinché gli stessi genitori possano adempiere la loro missione educativa. Deve farlo aiutandoli sempre a valorizzare il loro ruolo specifico, e a riconoscere che coloro che hanno ricevuto il sacramento del matrimonio diventano veri ministri educativi, perché nel formare i loro figli edificano la Chiesa,[99] e nel farlo accettano una vocazione che Dio propone loro.[100]

La famiglia e la Chiesa

86. «Con intima gioia e profonda consolazione, la Chiesa guarda alle famiglie che restano fedeli agli insegnamenti del Vangelo, ringraziandole e incoraggiandole per la testimonianza che offrono. Grazie ad esse, infatti, è resa credibile la bellezza del matrimonio indissolubile e fedele per sempre. Nella famiglia, “che si potrebbe chiamare Chiesa domestica” (Lumen gentium, 11), matura la prima esperienza ecclesiale della comunione tra persone, in cui si riflette, per grazia, il mistero della Santa Trinità. “È qui che si apprende la fatica e la gioia del lavoro, l’amore fraterno, il perdono generoso, sempre rinnovato, e soprattutto il culto divino attraverso la preghiera e l’offerta della propria vita” (Catechismo della Chiesa Cattolica, 1657)».[101]

87. La Chiesa è famiglia di famiglie, costantemente arricchita dalla vita di tutte le Chiese domestiche. Pertanto, «in virtù del sacramento del matrimonio ogni famiglia diventa a tutti gli effetti un bene per la Chiesa. In questa prospettiva sarà certamente un dono prezioso, per l’oggi della Chiesa, considerare anche la reciprocità tra famiglia e Chiesa: la Chiesa è un bene per la famiglia, la famiglia è un bene per la Chiesa. La custodia del dono sacramentale del Signore coinvolge non solo la singola famiglia, ma la stessa comunità cristiana».[102]

88. L’amore vissuto nelle famiglie è una forza permanente per la vita della Chiesa. «Il fine unitivo del matrimonio è un costante richiamo al crescere e all’approfondirsi di questo amore. Nella loro unione di amore gli sposi sperimentano la bellezza della paternità e della maternità; condividono i progetti e le fatiche, i desideri e le preoccupazioni; imparano la cura reciproca e il perdono vicendevole. In questo amore celebrano i loro momenti felici e si sostengono nei passaggi difficili della loro storia di vita […] La bellezza del dono reciproco e gratuito, la gioia per la vita che nasce e la cura amorevole di tutti i membri, dai piccoli agli anziani, sono alcuni dei frutti che rendono unica e insostituibile la risposta alla vocazione della famiglia»,[103] tanto per la Chiesa quanto per l’intera società.

CAPITOLO QUARTO

L’AMORE NEL MATRIMONIO

89. Tutto quanto è stato detto non è sufficiente ad esprimere il vangelo del matrimonio e della famiglia se non ci soffermiamo in modo specifico a parlare dell’amore. Perché non potremo incoraggiare un cammino di fedeltà e di reciproca donazione se non stimoliamo la crescita, il consolidamento e l’approfondimento dell’amore coniugale e familiare. In effetti, la grazia del sacramento del matrimonio è destinata prima di tutto «a perfezionare l’amore dei coniugi».[104] Anche in questo caso rimane valido che, anche «se possedessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sarei nulla. E se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo per averne vanto, ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe» (1 Cor 13,2-3). La parola “amore”, tuttavia, che è una delle più utilizzate, molte volte appare sfigurata. [105]

Il nostro amore quotidiano

90. Nel cosiddetto inno alla carità scritto da San Paolo, riscontriamo alcune caratteristiche del vero amore: «La carità è paziente, benevola è la carità; non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità. Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta» (1 Cor 13,4-7). Questo si vive e si coltiva nella vita che condividono tutti i giorni gli sposi, tra di loro e con i loro figli. Perciò è prezioso soffermarsi a precisare il senso delle espressioni di questo testo, per tentarne un’applicazione all’esistenza concreta di ogni famiglia.

Pazienza

91. La prima espressione utilizzata è macrothymei. La traduzione non è semplicemente “che sopporta ogni cosa”, perché questa idea viene espressa alla fine del v. 7. Il senso si coglie dalla traduzione greca dell’Antico Testamento, dove si afferma che Dio è «lento all’ira» (Es 34,6; Nm 14,18). Si mostra quando la persona non si lascia guidare dagli impulsi e evita di aggredire. È una caratteristica del Dio dell’Alleanza che chiama ad imitarlo anche all’interno della vita familiare. I testi in cui Paolo fa uso di questo termine si devono leggere sullo sfondo del libro della Sapienza (cfr 11,23; 12,2.15-18): nello stesso tempo in cui si loda la moderazione di Dio al fine di dare spazio al pentimento, si insiste sul suo potere che si manifesta quando agisce con misericordia. La pazienza di Dio è esercizio di misericordia verso il peccatore e manifesta l’autentico potere.

92. Essere pazienti non significa lasciare che ci maltrattino continuamente, o tollerare aggressioni fisiche, o permettere che ci trattino come oggetti. Il problema si pone quando pretendiamo che le relazioni siano idilliache o che le persone siano perfette, o quando ci collochiamo al centro e aspettiamo unicamente che si faccia la nostra volontà. Allora tutto ci spazientisce, tutto ci porta a reagire con aggressività. Se non coltiviamo la pazienza, avremo sempre delle scuse per rispondere con ira, e alla fine diventeremo persone che non sanno convivere, antisociali incapaci di dominare gli impulsi, e la famiglia si trasformerà in un campo di battaglia. Per questo la Parola di Dio ci esorta: «Scompaiano da voi ogni asprezza, sdegno, ira, grida e maldicenze con ogni sorta di malignità» (Ef 4,31). Questa pazienza si rafforza quando riconosco che anche l’altro possiede il diritto a vivere su questa terra insieme a me, così com’è. Non importa se è un fastidio per me, se altera i miei piani, se mi molesta con il suo modo di essere o con le sue idee, se non è in tutto come mi aspettavo. L’amore comporta sempre un senso di profonda compassione, che porta ad accettare l’altro come parte di questo mondo, anche quando agisce in un modo diverso da quello che io avrei desiderato.

Atteggiamento di benevolenza

93. Segue la parola chresteuetai, che è unica in tutta la Bibbia, derivata da chrestos (persona buona, che mostra la sua bontà nelle azioni). Però, considerata la posizione in cui si trova, in stretto parallelismo con il verbo precedente, ne diventa un complemento. In tal modo Paolo vuole mettere in chiaro che la “pazienza” nominata al primo posto non è un atteggiamento totalmente passivo, bensì è accompagnata da un’attività, da una reazione dinamica e creativa nei confronti degli altri. Indica che l’amore fa del bene agli altri e li promuove. Perciò si traduce come “benevola”.

94. Nell’insieme del testo si vede che Paolo vuole insistere sul fatto che l’amore non è solo un sentimento, ma che si deve intendere nel senso che il verbo “amare” ha in ebraico, vale a dire: “fare il bene”. Come diceva sant’Ignazio di Loyola, «l’amore si deve porre più nelle opere che nelle parole».[106] In questo modo può mostrare tutta la sua fecondità, e ci permette di sperimentare la felicità di dare, la nobiltà e la grandezza di donarsi in modo sovrabbondante, senza misurare, senza esigere ricompense, per il solo gusto di dare e di servire.

Guarendo l’invidia

95. Quindi si rifiuta come contrario all’amore un atteggiamento espresso con il termine zelos (gelosia o invidia). Significa che nell’amore non c’è posto per il provare dispiacere a causa del bene dell’altro (cfr At 7,9; 17,5). L’invidia è una tristezza per il bene altrui che dimostra che non ci interessa la felicità degli altri, poiché siamo esclusivamente concentrati sul nostro benessere. Mentre l’amore ci fa uscire da noi stessi, l’invidia ci porta a centrarci sul nostro io. Il vero amore apprezza i successi degli altri, non li sente come una minaccia, e si libera del sapore amaro dell’invidia. Accetta il fatto che ognuno ha doni differenti e strade diverse nella vita. Dunque fa in modo di scoprire la propria strada per essere felice, lasciando che gli altri trovino la loro.

96. In definitiva si tratta di adempiere quello che richiedevano gli ultimi due comandamenti della Legge di Dio: «Non desidererai la casa del tuo prossimo. Non desidererai la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo né la sua schiava, né il suo bue né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo» (Es 20,17). L’amore ci porta a un sincero apprezzamento di ciascun essere umano, riconoscendo il suo diritto alla felicità. Amo quella persona, la guardo con lo sguardo di Dio Padre, che ci dona tutto «perché possiamo goderne» (1 Tm 6,17), e dunque accetto dentro di me che possa godere di un buon momento. Questa stessa radice dell’amore, in ogni caso, è quella che mi porta a rifiutare l’ingiustizia per il fatto che alcuni hanno troppo e altri non hanno nulla, o quella che mi spinge a far sì che anche quanti sono scartati dalla società possano vivere un po’ di gioia. Questo però non è invidia, ma desiderio di equità.

Senza vantarsi o gonfiarsi

97. Segue l’espressione perpereuetai, che indica la vanagloria, l’ansia di mostrarsi superiori per impressionare gli altri con un atteggiamento pedante e piuttosto aggressivo. Chi ama, non solo evita di parlare troppo di sé stesso, ma inoltre, poiché è centrato negli altri, sa mettersi al suo posto, senza pretendere di stare al centro. La parola seguente – physioutai – è molto simile, perché indica che l’amore non è arrogante. Letteralmente esprime il fatto che non si “ingrandisce” di fronte agli altri, e indica qualcosa di più sottile. Non è solo un’ossessione per mostrare le proprie qualità, ma fa anche perdere il senso della realtà. Ci si considera più grandi di quello che si è perché ci si crede più “spirituali” o “saggi”. Paolo usa questo verbo altre volte, per esempio per dire che «la conoscenza riempie di orgoglio, mentre l’amore edifica» (1 Cor 8,1). Vale a dire, alcuni si credono grandi perché sanno più degli altri, e si dedicano a pretendere da loro e a controllarli, quando in realtà quello che ci rende grandi è l’amore che comprende, cura, sostiene il debole. In un altro versetto lo utilizza per criticare quelli che si “gonfiano d’orgoglio” (cfr 1 Cor 4,18), ma in realtà hanno più verbosità che vero “potere” dello Spirito (cfr 1 Cor 4,19).

98. E’ importante che i cristiani vivano questo atteggiamento nel loro modo di trattare i familiari poco formati nella fede, fragili o meno sicuri nelle loro convinzioni. A volte accade il contrario: quelli che, nell’ambito della loro famiglia, si suppone siano cresciuti maggiormente, diventano arroganti e insopportabili. L’atteggiamento dell’umiltà appare qui come qualcosa che è parte dell’amore, perché per poter comprendere, scusare e servire gli altri di cuore, è indispensabile guarire l’orgoglio e coltivare l’umiltà. Gesù ricordava ai suoi discepoli che nel mondo del potere ciascuno cerca di dominare l’altro, e per questo dice loro: «tra voi non sarà così» (Mt 20,26). La logica dell’amore cristiano non è quella di chi si sente superiore agli altri e ha bisogno di far loro sentire il suo potere, ma quella per cui «chi vuole diventare grande tra voi, sarà vostro servitore» (Mt 20,27). Nella vita familiare non può regnare la logica del dominio degli uni sugli altri, o la competizione per vedere chi è più intelligente o potente, perché tale logica fa venir meno l’amore. Vale anche per la famiglia questo consiglio: «Rivestitevi tutti di umiltà gli uni verso gli altri, perché Dio resiste ai superbi, ma dà grazia agli umili» (1 Pt 5,5).

Amabilità

99. Amare significa anche rendersi amabili, e qui trova senso l’espressione aschemonei. Vuole indicare che l’amore non opera in maniera rude, non agisce in modo scortese, non è duro nel tratto. I suoi modi, le sue parole, i suoi gesti, sono gradevoli e non aspri o rigidi. Detesta far soffrire gli altri. La cortesia «è una scuola di sensibilità e disinteresse» che esige dalla persona che «coltivi la sua mente e i suoi sensi, che impari ad ascoltare, a parlare e in certi momenti a tacere».[107] Essere amabile non è uno stile che un cristiano possa scegliere o rifiutare: è parte delle esigenze irrinunciabili dell’amore, perciò «ogni essere umano è tenuto ad essere affabile con quelli che lo circondano».[108] Ogni giorno, «entrare nella vita dell’altro, anche quando fa parte della nostra vita, chiede la delicatezza di un atteggiamento non invasivo, che rinnova la fiducia e il rispetto. […] E l’amore, quanto più è intimo e profondo, tanto più esige il rispetto della libertà e la capacità di attendere che l’altro apra la porta del suo cuore». [109]

100. Per disporsi ad un vero incontro con l’altro, si richiede uno sguardo amabile posato su di lui. Questo non è possibile quando regna un pessimismo che mette in rilievo i difetti e gli errori altrui, forse per compensare i propri complessi. Uno sguardo amabile ci permette di non soffermarci molto sui limiti dell’altro, e così possiamo tollerarlo e unirci in un progetto comune, anche se siamo differenti. L’amore amabile genera vincoli, coltiva legami, crea nuove reti d’integrazione, costruisce una solida trama sociale. In tal modo protegge sé stesso, perché senza senso di appartenenza non si può sostenere una dedizione agli altri, ognuno finisce per cercare unicamente la propria convenienza e la convivenza diventa impossibile. Una persona antisociale crede che gli altri esistano per soddisfare le sue necessità, e che quando lo fanno compiono solo il loro dovere. Dunque non c’è spazio per l’amabilità dell’amore e del suo linguaggio. Chi ama è capace di dire parole di incoraggiamento, che confortano, che danno forza, che consolano, che stimolano. Vediamo, per esempio, alcune parole che Gesù diceva alle persone: «Coraggio figlio!» (Mt 9,2). «Grande è la tua fede!» (Mt 15,28). «Alzati!» (Mc 5,41). «Va’ in pace» (Lc 7,50). «Non abbiate paura» (Mt 14,27). Non sono parole che umiliano, che rattristano, che irritano, che disprezzano. Nella famiglia bisogna imparare questo linguaggio amabile di Gesù.

Distacco generoso

101. Abbiamo detto molte volte che per amare gli altri occorre prima amare sé stessi. Tuttavia, questo inno all’amore afferma che l’amore “non cerca il proprio interesse”, o che “non cerca quello che è suo”. Questa espressione si usa pure in un altro testo: «Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri» (Fil 2,4). Davanti ad un’affermazione così chiara delle Scritture, bisogna evitare di attribuire priorità all’amore per sé stessi come se fosse più nobile del dono di sé stessi agli altri. Una certa priorità dell’amore per sé stessi può intendersi solamente come una condizione psicologica, in quanto chi è incapace di amare sé stesso incontra difficoltà ad amare gli altri: «Chi è cattivo con sé stesso con chi sarà buono? [...] Nessuno è peggiore di chi danneggia sé stesso» (Sir 14,5-6).

102. Però lo stesso Tommaso d’Aquino ha spiegato che «è più proprio della carità voler amare che voler essere amati»[110] e che, in effetti, «le madri, che sono quelle che amano di più, cercano più di amare che di essere amate».[111] Perciò l’amore può spingersi oltre la giustizia e straripare gratuitamente, «senza sperarne nulla» (Lc 6,35), fino ad arrivare all’amore più grande, che è «dare la vita» per gli altri (Gv 15,13). È ancora possibile questa generosità che permette di donare gratuitamente, e di donare sino alla fine? Sicuramente è possibile, perché è ciò che chiede il Vangelo: «Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date» (Mt 10,8).

Senza violenza interiore

103. Se la prima espressione dell’inno ci invitava alla pazienza che evita di reagire bruscamente di fronte alle debolezze o agli errori degli altri, adesso appare un’altra parola – paroxynetai – che si riferisce ad una reazione interiore di indignazione provocata da qualcosa di esterno. Si tratta di una violenza interna, di una irritazione non manifesta che ci mette sulla difensiva davanti agli altri, come se fossero nemici fastidiosi che occorre evitare. Alimentare tale aggressività intima non serve a nulla. Ci fa solo ammalare e finisce per isolarci. L’indignazione è sana quando ci porta a reagire di fronte a una grave ingiustizia, ma è dannosa quando tende ad impregnare tutti i nostri atteggiamenti verso gli altri.

104. Il Vangelo invita piuttosto a guardare la trave nel proprio occhio (cfr Mt 7,5), e come cristiani non possiamo ignorare il costante invito della Parola di Dio a non alimentare l’ira: «Non lasciarti vincere dal male» (Rm 12,21). «E non stanchiamoci di fare il bene» (Gal 6,9). Una cosa è sentire la forza dell’aggressività che erompe e altra cosa è acconsentire ad essa, lasciare che diventi un atteggiamento permanente: «Adiratevi, ma non peccate; non tramonti il sole sopra la vostra ira» (Ef 4,26). Perciò, non bisogna mai finire la giornata senza fare pace in famiglia. «E come devo fare la pace? Mettermi in ginocchio? No! Soltanto un piccolo gesto, una cosina così, e l’armonia familiare torna. Basta una carezza, senza parole. Ma mai finire la giornata in famiglia senza fare la pace!».[112]La reazione interiore di fronte a una molestia causata dagli altri dovrebbe essere anzitutto benedire nel cuore, desiderare il bene dell’altro, chiedere a Dio che lo liberi e lo guarisca: «Rispondete augurando il bene. A questo infatti siete stati chiamati da Dio per avere in eredità la sua benedizione» (1 Pt 3,9). Se dobbiamo lottare contro un male, facciamolo, ma diciamo sempre “no” alla violenza interiore.

Perdono

105. Se permettiamo ad un sentimento cattivo di penetrare nelle nostre viscere, diamo spazio a quel rancore che si annida nel cuore. La frase logizetai to kakon significa “tiene conto del male”, “se lo porta annotato”, vale a dire, è rancoroso. Il contrario è il perdono, un perdono fondato su un atteggiamento positivo, che tenta di comprendere la debolezza altrui e prova a cercare delle scuse per l’altra persona, come Gesù che disse: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34). Invece la tendenza è spesso quella di cercare sempre più colpe, di immaginare sempre più cattiverie, di supporre ogni tipo di cattive intenzioni, e così il rancore va crescendo e si radica. In tal modo, qualsiasi errore o caduta del coniuge può danneggiare il vincolo d’amore e la stabilità familiare. Il problema è che a volte si attribuisce ad ogni cosa la medesima gravità, con il rischio di diventare crudeli per qualsiasi errore dell’altro. La giusta rivendicazione dei propri diritti si trasforma in una persistente e costante sete di vendetta più che in una sana difesa della propria dignità.

106. Quando siamo stati offesi o delusi, il perdono è possibile e auspicabile, ma nessuno dice che sia facile. La verità è che «la comunione familiare può essere conservata e perfezionata solo con un grande spirito di sacrificio. Esige, infatti, una pronta e generosa disponibilità di tutti e di ciascuno alla comprensione, alla tolleranza, al perdono, alla riconciliazione. Nessuna famiglia ignora come l’egoismo, il disaccordo, le tensioni, i conflitti aggrediscano violentemente e a volte colpiscano mortalmente la propria comunione: di qui le molteplici e varie forme di divisione nella vita familiare».[113]

107. Oggi sappiamo che per poter perdonare abbiamo bisogno di passare attraverso l’esperienza liberante di comprendere e perdonare noi stessi. Tante volte i nostri sbagli, o lo sguardo critico delle persone che amiamo, ci hanno fatto perdere l’affetto verso noi stessi. Questo ci induce alla fine a guardarci dagli altri, a fuggire dall’affetto, a riempirci di paure nelle relazioni interpersonali. Dunque, poter incolpare gli altri si trasforma in un falso sollievo. C’è bisogno di pregare con la propria storia, di accettare sé stessi, di saper convivere con i propri limiti, e anche di perdonarsi, per poter avere questo medesimo atteggiamento verso gli altri.

108. Ma questo presuppone l’esperienza di essere perdonati da Dio, giustificati gratuitamente e non per i nostri meriti. Siamo stati raggiunti da un amore previo ad ogni nostra opera, che offre sempre una nuova opportunità, promuove e stimola. Se accettiamo che l’amore di Dio è senza condizioni, che l’affetto del Padre non si deve comprare né pagare, allora potremo amare al di là di tutto, perdonare gli altri anche quando sono stati ingiusti con noi. Diversamente, la nostra vita in famiglia cesserà di essere un luogo di comprensione, accompagnamento e stimolo, e sarà uno spazio di tensione permanente e di reciproco castigo.

Rallegrarsi con gli altri

109. L’espressione chairei epi te adikia indica qualcosa di negativo insediato nel segreto del cuore della persona. È l’atteggiamento velenoso di chi si rallegra quando vede che si commette ingiustizia verso qualcuno. La frase si completa con quella che segue, che si esprime in modo positivo: synchairei te aletheia: si compiace della verità. Vale a dire, si rallegra per il bene dell’altro, quando viene riconosciuta la sua dignità, quando si apprezzano le sue capacità e le sue buone opere. Questo è impossibile per chi deve sempre paragonarsi e competere, anche con il proprio coniuge, fino al punto di rallegrarsi segretamente per i suoi fallimenti.

110. Quando una persona che ama può fare del bene a un altro, o quando vede che all’altro le cose vanno bene, lo vive con gioia e in quel modo dà gloria a Dio, perché «Dio ama chi dona con gioia» (2 Cor 9,7), nostro Signore apprezza in modo speciale chi si rallegra della felicità dell’altro. Se non alimentiamo la nostra capacità di godere del bene dell’altro e ci concentriamo soprattutto sulle nostre necessità, ci condanniamo a vivere con poca gioia, dal momento che, come ha detto Gesù, «si è più beati nel dare che nel ricevere!» (At 20,35). La famiglia dev’essere sempre il luogo in cui chiunque faccia qualcosa di buono nella vita, sa che lì lo festeggeranno insieme a lui.

Tutto scusa

111. L’elenco si completa con quattro espressioni che parlano di una totalità: “tutto”. Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. In questo modo, si sottolinea con forza il dinamismo contro-culturale dell’amore, capace di far fronte a qualsiasi cosa lo possa minacciare.

112. In primo luogo si afferma che “tutto scusa” (panta stegei). Si differenzia da “non tiene conto del male”, perché questo termine ha a che vedere con l’uso della lingua; può significare “mantenere il silenzio” circa il negativo che può esserci nell’altra persona. Implica limitare il giudizio, contenere l’inclinazione a lanciare una condanna dura e implacabile. «Non condannate e non sarete condannati» (Lc 6,37). Benché vada contro il nostro uso abituale della lingua, la Parola di Dio ci chiede: «Non sparlate gli uni degli altri, fratelli» (Gc 4,11). Soffermarsi a danneggiare l’immagine dell’altro è un modo per rafforzare la propria, per scaricare i rancori e le invidie senza fare caso al danno che causiamo. Molte volte si dimentica che la diffamazione può essere un grande peccato, una seria offesa a Dio, quando colpisce gravemente la buona fama degli altri procurando loro dei danni molto difficili da riparare. Per questo la Parola di Dio è così dura con la lingua, dicendo che è «il mondo del male» che «contagia tutto il corpo e incendia tutta la nostra vita» (Gc 3,6), «è un male ribelle, è piena di veleno mortale» (Gc 3,8). Se «con essa malediciamo gli uomini fatti a somiglianza di Dio» (Gc 3,9), l’amore si prende cura dell’immagine degli altri, con una delicatezza che porta a preservare persino la buona fama dei nemici. Nel difendere la legge divina non bisogna mai dimenticare questa esigenza dell’amore.

113. Gli sposi che si amano e si appartengono, parlano bene l’uno dell’altro, cercano di mostrare il lato buono del coniuge al di là delle sue debolezze e dei suoi errori. In ogni caso, mantengono il silenzio per non danneggiarne l’immagine. Però non è soltanto un gesto esterno, ma deriva da un atteggiamento interiore. E non è neppure l’ingenuità di chi pretende di non vedere le difficoltà e i punti deboli dell’altro, bensì è l’ampiezza dello sguardo di chi colloca quelle debolezze e quegli sbagli nel loro contesto; ricorda che tali difetti sono solo una parte, non sono la totalità dell’essere dell’altro. Un fatto sgradevole nella relazione non è la totalità di quella relazione. Dunque si può accettare con semplicità che tutti siamo una complessa combinazione di luci e ombre. L’altro non è soltanto quello che a me dà fastidio. È molto più di questo. Per la stessa ragione, non pretendo che il suo amore sia perfetto per apprezzarlo. Mi ama come è e come può, con i suoi limiti, ma il fatto che il suo amore sia imperfetto non significa che sia falso o che non sia reale. È reale, ma limitato e terreno. Perciò, se pretendo troppo, in qualche modo me lo farà capire, dal momento che non potrà né accetterà di giocare il ruolo di un essere divino né di stare al servizio di tutte le mie necessità. L’amore convive con l’imperfezione, la scusa, e sa stare in silenzio davanti ai limiti della persona amata.

Ha fiducia

114. Panta pisteuei: “tutto crede”. Per il contesto, non si deve intendere questa “fede” in senso teologico, bensì in quello corrente di “fiducia”. Non si tratta soltanto di non sospettare che l’altro stia mentendo o ingannando. Tale fiducia fondamentale riconosce la luce accesa da Dio che si nasconde dietro l’oscurità, o la brace che arde ancora sotto le ceneri.

115. Questa stessa fiducia rende possibile una relazione di libertà. Non c’è bisogno di controllare l’altro, di seguire minuziosamente i suoi passi, per evitare che sfugga dalle nostre braccia. L’amore ha fiducia, lascia in libertà, rinuncia a controllare tutto, a possedere, a dominare. Questa libertà, che rende possibili spazi di autonomia, apertura al mondo e nuove esperienze, permette che la relazione si arricchisca e non diventi una endogamia senza orizzonti. In tal modo i coniugi, ritrovandosi, possono vivere la gioia di condividere quello che hanno ricevuto e imparato al di fuori del cerchio familiare. Nello stesso tempo rende possibili la sincerità e la trasparenza, perché quando uno sa che gli altri confidano in lui e ne apprezzano la bontà di fondo, allora si mostra com’è, senza occultamenti. Uno che sa che sospettano sempre di lui, che lo giudicano senza compassione, che non lo amano in modo incondizionato, preferirà mantenere i suoi segreti, nascondere le sue cadute e debolezze, fingersi quello che non è. Viceversa, una famiglia in cui regna una solida e affettuosa fiducia, e dove si torna sempre ad avere fiducia nonostante tutto, permette che emerga la vera identità dei suoi membri e fa sì che spontaneamente si rifiuti l’inganno, la falsità e la menzogna.

Spera

116. Panta elpizei: non dispera del futuro. In connessione con la parola precedente, indica la speranza di chi sa che l’altro può cambiare. Spera sempre che sia possibile una maturazione, un sorprendente sbocciare di bellezza, che le potenzialità più nascoste del suo essere germoglino un giorno. Non vuol dire che tutto cambierà in questa vita. Implica accettare che certe cose non accadano come uno le desidera, ma che forse Dio scriva diritto sulle righe storte di quella persona e tragga qualche bene dai mali che essa non riesce a superare in questa terra.

117. Qui si fa presente la speranza nel suo senso pieno, perché comprende la certezza di una vita oltre la morte. Quella persona, con tutte le sue debolezze, è chiamata alla pienezza del Cielo. Là, completamente trasformata dalla risurrezione di Cristo, non esisteranno più le sue fragilità, le sue oscurità né le sue patologie. Là l’essere autentico di quella persona brillerà con tutta la sua potenza di bene e di bellezza. Questo altresì ci permette, in mezzo ai fastidi di questa terra, di contemplare quella persona con uno sguardo soprannaturale, alla luce della speranza, e attendere quella pienezza che un giorno riceverà nel Regno celeste, benché ora non sia visibile.

Tutto sopporta

 118. Panta hypomenei significa che sopporta con spirito positivo tutte le contrarietà. Significa mantenersi saldi nel mezzo di un ambiente ostile. Non consiste soltanto nel tollerare alcune cose moleste, ma in qualcosa di più ampio: una resistenza dinamica e costante, capace di superare qualsiasi sfida. È amore malgrado tutto, anche quando tutto il contesto invita a un’altra cosa. Manifesta una dose di eroismo tenace, di potenza contro qualsiasi corrente negativa, una opzione per il bene che niente può rovesciare. Questo mi ricorda le parole di Martin Luther King, quando ribadiva la scelta dell’amore fraterno anche in mezzo alle peggiori persecuzioni e umiliazioni: «La persona che ti odia di più, ha qualcosa di buono dentro di sé; e anche la nazione che più odia, ha qualcosa di buono in sé; anche la razza che più odia, ha qualcosa di buono in sé. E quando arrivi al punto di guardare il volto di ciascun essere umano e vedi molto dentro di lui quello che la religione chiama “immagine di Dio”, cominci ad amarlo nonostante tutto. Non importa quello che fa, tu vedi lì l’immagine di Dio. C’è un elemento di bontà di cui non ti potrai mai sbarazzare […] Un altro modo in cui ami il tuo nemico è questo: quando si presenta l’opportunità di sconfiggere il tuo nemico, quello è il momento nel quale devi decidere di non farlo […] Quando ti elevi al livello dell’amore, della sua grande bellezza e potere, l’unica cosa che cerchi di sconfiggere sono i sistemi maligni. Le persone che sono intrappolate da quel sistema le ami, però cerchi di sconfiggere quel sistema […] Odio per odio intensifica solo l’esistenza dell’odio e del male nell’universo. Se io ti colpisco e tu mi colpisci, e ti restituisco il colpo e tu mi restituisci il colpo, e così di seguito, è evidente che si continua all’infinito. Semplicemente non finisce mai. Da qualche parte, qualcuno deve avere un po’ di buon senso, e quella è la persona forte. La persona forte è la persona che è capace di spezzare la catena dell’odio, la catena del male […] Qualcuno deve avere abbastanza fede e moralità per spezzarla e iniettare dentro la stessa struttura dell’universo l’elemento forte e potente dell’amore».[114]

119. Nella vita familiare c’è bisogno di coltivare questa forza dell’amore, che permette di lottare contro il male che la minaccia. L’amore non si lascia dominare dal rancore, dal disprezzo verso le persone, dal desiderio di ferire o di far pagare qualcosa. L’ideale cristiano, e in modo particolare nella famiglia, è amore malgrado tutto. A volte ammiro, per esempio, l’atteggiamento di persone che hanno dovuto separarsi dal coniuge per proteggersi dalla violenza fisica, e tuttavia, a causa della carità coniugale che sa andare oltre i sentimenti, sono stati capaci di agire per il suo bene, benché attraverso altri, in momenti di malattia, di sofferenza o di difficoltà. Anche questo è amore malgrado tutto.

Crescere nella carità coniugale

120. L’inno di san Paolo, che abbiamo percorso, ci permette di passare alla carità coniugale. Essa è l’amore che unisce gli sposi,[115] santificato, arricchito e illuminato dalla grazia del sacramento del matrimonio. È «un’unione affettiva», [116] spirituale e oblativa, che però raccoglie in sé la tenerezza dell’amicizia e la passione erotica, benché sia in grado di sussistere anche quando i sentimenti e la passione si indebolissero. Il Papa Pio XI ha insegnato che tale amore permea tutti i doveri della vita coniugale e «tiene come il primato della nobiltà».[117] Infatti, tale amore forte, versato dallo Spirito Santo, è il riflesso dell’Alleanza indistruttibile tra Cristo e l’umanità, culminata nella dedizione sino alla fine, sulla croce: «Lo Spirito, che il Signore effonde, dona il cuore nuovo e rende l’uomo e la donna capaci di amarsi come Cristo ci ha amato. L’amore coniugale raggiunge quella pienezza a cui è interiormente ordinato, la carità coniugale».[118]

121. Il matrimonio è un segno prezioso, perché «quando un uomo e una donna celebrano il sacramento del Matrimonio, Dio, per così dire, si “rispecchia” in essi, imprime in loro i propri lineamenti e il carattere indelebile del suo amore. Il matrimonio è l’icona dell’amore di Dio per noi. Anche Dio, infatti, è comunione: le tre Persone del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo vivono da sempre e per sempre in unità perfetta. Ed è proprio questo il mistero del Matrimonio: Dio fa dei due sposi una sola esistenza».[119] Questo comporta conseguenze molto concrete e quotidiane, perché gli sposi, «in forza del Sacramento, vengono investiti di una vera e propria missione, perché possano rendere visibile, a partire dalle cose semplici, ordinarie, l’amore con cui Cristo ama la sua Chiesa, continuando a donare la vita per lei».[120]

122. Tuttavia, non è bene confondere piani differenti: non si deve gettare sopra due persone limitate il tremendo peso di dover riprodurre in maniera perfetta l’unione che esiste tra Cristo e la sua Chiesa, perché il matrimonio come segno implica «un processo dinamico, che avanza gradualmente con la progressiva integrazione dei doni di Dio».[121]

Tutta la vita, tutto in comune

123. Dopo l’amore che ci unisce a Dio, l’amore coniugale è la «più grande amicizia».[122] E’ un’unione che possiede tutte le caratteristiche di una buona amicizia: ricerca del bene dell’altro, reciprocità, intimità, tenerezza, stabilità, e una somiglianza tra gli amici che si va costruendo con la vita condivisa. Però il matrimonio aggiunge a tutto questo un’esclusività indissolubile, che si esprime nel progetto stabile di condividere e costruire insieme tutta l’esistenza. Siamo sinceri e riconosciamo i segni della realtà: chi è innamorato non progetta che tale relazione possa essere solo per un periodo di tempo, chi vive intensamente la gioia di sposarsi non pensa a qualcosa di passeggero; coloro che accompagnano la celebrazione di un’unione piena d’amore, anche se fragile, sperano che possa durare nel tempo; i figli non solo desiderano che i loro genitori si amino, ma anche che siano fedeli e rimangano sempre uniti. Questi e altri segni mostrano che nella stessa natura dell’amore coniugale vi è l’apertura al definitivo. L’unione che si cristallizza nella promessa matrimoniale per sempre, è più che una formalità sociale o una tradizione, perché si radica nelle inclinazioni spontanee della persona umana; e, per i credenti, è un’alleanza davanti a Dio che esige fedeltà: «Il Signore è testimone fra te e la donna della tua giovinezza, che hai tradito, mentre era la tua compagna, la donna legata a te da un patto: […] nessuno tradisca la donna della sua giovinezza. Perché io detesto il ripudio» (Ml 2,14.15.16).

124. Un amore debole o malato, incapace di accettare il matrimonio come una sfida che richiede di lottare, di rinascere, di reinventarsi e ricominciare sempre di nuovo fino alla morte, non è in grado di sostenere un livello alto di impegno. Cede alla cultura del provvisorio, che impedisce un processo costante di crescita. Però «promettere un amore che sia per sempre è possibile quando si scopre un disegno più grande dei propri progetti, che ci sostiene e ci permette di donare l’intero futuro alla persona amata».[123] Perché tale amore possa attraversare tutte le prove e mantenersi fedele nonostante tutto, si richiede il dono della grazia che lo fortifichi e lo elevi. Come diceva san Roberto Bellarmino, «il fatto che un uomo e una donna si uniscano in un legame esclusivo e indissolubile, in modo che non possano separarsi, quali che siano le difficoltà, e persino quando si sia persa la speranza della prole, questo non può avvenire senza un grande mistero».[124]

125. Il matrimonio, inoltre, è un’amicizia che comprende le note proprie della passione, ma sempre orientata verso un’unione via via più stabile e intensa. Perché «non è stato istituito soltanto per la procreazione», ma affinché l’amore reciproco «abbia le sue giuste manifestazioni, si sviluppi e arrivi a maturità»[125]. Questa peculiare amicizia tra un uomo e una donna acquista un carattere totalizzante che si dà unicamente nell’unione coniugale. Proprio perché è totalizzante questa unione è anche esclusiva, fedele e aperta alla generazione. Si condivide ogni cosa, compresa la sessualità, sempre nel reciproco rispetto. Il Concilio Vaticano II lo ha affermato dicendo che «un tale amore, unendo assieme valori umani e divini, conduce gli sposi al libero e mutuo dono di sé stessi, che si esprime mediante sentimenti e gesti di tenerezza e pervade tutta quanta la vita dei coniugi».[126]

Gioia e bellezza

126. Nel matrimonio è bene avere cura della gioia dell’amore. Quando la ricerca del piacere è ossessiva, rinchiude in un solo ambito e non permette di trovare altri tipi di soddisfazione. La gioia, invece, allarga la capacità di godere e permette di trovare gusto in realtà varie, anche nelle fasi della vita in cui il piacere si spegne. Per questo san Tommaso diceva che si usa la parola “gioia” per riferirsi alla dilatazione dell’ampiezza del cuore.[127] La gioia matrimoniale, che si può vivere anche in mezzo al dolore, implica accettare che il matrimonio è una necessaria combinazione di gioie e di fatiche, di tensioni e di riposo, di sofferenze e di liberazioni, di soddisfazioni e di ricerche, di fastidi e di piaceri, sempre nel cammino dell’amicizia, che spinge gli sposi a prendersi cura l’uno dell’altro: «prestandosi un mutuo aiuto e servizio».[128]

127. L’amore di amicizia si chiama “carità” quando si coglie e si apprezza “l’alto valore” che ha l’altro.[129] La bellezza – “l’alto valore” dell’altro che non coincide con le sue attrattive fisiche o psicologiche – ci permette di gustare la sacralità della sua persona senza l’imperiosa necessità di possederla. Nella società dei consumi si impoverisce il senso estetico e così si spegne la gioia. Tutto esiste per essere comprato, posseduto e consumato; anche le persone. La tenerezza, invece, è una manifestazione di questo amore che si libera dal desiderio egoistico di possesso egoistico. Ci porta a vibrare davanti a una persona con un immenso rispetto e con un certo timore di farle danno o di toglierle la sua libertà. L’amore per l’altro implica tale gusto di contemplare e apprezzare ciò che è bello e sacro del suo essere personale, che esiste al di là dei miei bisogni. Questo mi permette di ricercare il suo bene anche quando so che non può essere mio o quando è diventato fisicamente sgradevole, aggressivo o fastidioso. Perciò, «dall’amore per cui a uno è gradita un’altra persona dipende il fatto che le dia qualcosa gratis». [130]

128. L’esperienza estetica dell’amore si esprime in quello sguardo che contempla l’altro come un fine in sé stesso, quand’anche sia malato, vecchio o privo di attrattive sensibili. Lo sguardo che apprezza ha un’importanza enorme e lesinarlo produce di solito un danno. Quante cose fanno a volte i coniugi e i figli per essere considerati e tenuti in conto! Molte ferite e crisi hanno la loro origine nel momento in cui smettiamo di contemplarci. Questo è ciò che esprimono alcune lamentele e proteste che si sentono nelle famiglie. “Mio marito non mi guarda, sembra che per lui io sia invisibile”. “Per favore, guardami quando ti parlo”. “Mia moglie non mi guarda più, ora ha occhi solo per i figli”. “A casa mia non interesso a nessuno e neppure mi vedono, come se non esistessi”. L’amore apre gli occhi e permette di vedere, al di là di tutto, quanto vale un essere umano.

129. La gioia di tale amore contemplativo va coltivata. Dal momento che siamo fatti per amare, sappiamo che non esiste gioia maggiore che nel condividere un bene: «Regala e accetta regali, e divertiti» (Sir 14,16). Le gioie più intense della vita nascono quando si può procurare la felicità degli altri, in un anticipo del Cielo. Va ricordata la felice scena del film Il pranzo di Babette, dove la generosa cuoca riceve un abbraccio riconoscente e un elogio: «Come delizierai gli angeli!». È dolce e consolante la gioia che deriva dal procurare diletto agli altri, di vederli godere. Tale gioia, effetto dell’amore fraterno, non è quella della vanità di chi guarda sé stesso, ma quella di chi ama e si compiace del bene dell’amato, che si riversa nell’altro e diventa fecondo in lui.

130. Per altro verso, la gioia si rinnova nel dolore. Come diceva sant’Agostino, «quanto maggiore è stato il pericolo nella battaglia, tanto più intensa è la gioia nel trionfo».[131] Dopo aver sofferto e combattuto uniti, i coniugi possono sperimentare che ne è valsa la pena, perché hanno ottenuto qualcosa di buono, hanno imparato qualcosa insieme, o perché possono maggiormente apprezzare quello che hanno. Poche gioie umane sono tanto profonde e festose come quando due persone che si amano hanno conquistato insieme qualcosa che è loro costato un grande sforzo condiviso.

Sposarsi per amore

131. Voglio dire ai giovani che nulla di tutto questo viene pregiudicato quando l’amore assume la modalità dell’istituzione matrimoniale. L’unione trova in tale istituzione il modo di incanalare la sua stabilità e la sua crescita reale e concreta. E’ vero che l’amore è molto di più di un consenso esterno o di una forma di contratto matrimoniale, ma è altrettanto certo che la decisione di dare al matrimonio una configurazione visibile nella società con determinati impegni, manifesta la sua rilevanza: mostra la serietà dell’identificazione con l’altro, indica un superamento dell’individualismo adolescenziale, ed esprime la ferma decisione di appartenersi l’un l’altro. Sposarsi è un modo di esprimere che realmente si è abbandonato il nido materno per tessere altri legami forti e assumere una nuova responsabilità di fronte ad un’altra persona. Questo vale molto di più di una mera associazione spontanea per la mutua gratificazione, che sarebbe una privatizzazione del matrimonio. Il matrimonio come istituzione sociale è protezione e strumento per l’impegno reciproco, per la maturazione dell’amore, perché la decisione per l’altro cresca in solidità, concretezza e profondità, e al tempo stesso perché possa compiere la sua missione nella società. Perciò il matrimonio va oltre ogni moda passeggera e persiste. La sua essenza è radicata nella natura stessa della persona umana e del suo carattere sociale. Implica una serie di obblighi, che scaturiscono però dall’amore stesso, da un amore tanto determinato e generoso che è capace di rischiare il futuro.

132. Scegliere il matrimonio in questo modo esprime la decisione reale ed effettiva di trasformare due strade in un’unica strada, accada quel che accada e nonostante qualsiasi sfida. A causa della serietà di questo impegno pubblico di amore, non può essere una decisione affrettata, ma per la stessa ragione non la si può rimandare indefinitamente. Impegnarsi con un altro in modo esclusivo e definitivo comporta sempre una quota di rischio e di scommessa audace. Il rifiuto di assumere tale impegno è egoistico, interessato, meschino, non riesce a riconoscere i diritti dell’altro e non arriva mai a presentarlo alla società come degno di essere amato incondizionatamente. D’altra parte, quelli che sono veramente innamorati, tendono a manifestare agli altri il loro amore. L’amore concretizzato in un matrimonio contratto davanti agli altri, con tutti gli obblighi che derivano da questa istituzionalizzazione, è manifestazione e protezione di un “sì” che si dà senza riserve e senza restrizioni. Quel “sì” significa dire all’altro che potrà sempre fidarsi, che non sarà abbandonato se perderà attrattiva, se avrà difficoltà o se si offriranno nuove possibilità di piacere o di interessi egoistici.

Amore che si manifesta e cresce

133. L’amore di amicizia unifica tutti gli aspetti della vita matrimoniale e aiuta i membri della famiglia ad andare avanti in tutte le sue fasi. Perciò i gesti che esprimono tale amore devono essere costantemente coltivati, senza avarizia, ricchi di parole generose. Nella famiglia «è necessario usare tre parole. Vorrei ripeterlo. Tre parole: permesso, grazie, scusa. Tre parole chiave!».[132] «Quando in una famiglia non si è invadenti e si chiede “permesso”, quando in una famiglia non si è egoisti e si impara a dire “grazie”, e quando in una famiglia uno si accorge che ha fatto una cosa brutta e sa chiedere “scusa”, in quella famiglia c’è pace e c’è gioia».[133] Non siamo avari nell’utilizzare queste parole, siamo generosi nel ripeterle giorno dopo giorno, perché «alcuni silenzi pesano, a volte anche in famiglia, tra marito e moglie, tra padri e figli, tra fratelli».[134] Invece le parole adatte, dette al momento giusto, proteggono e alimentano l’amore giorno dopo giorno.

134. Tutto questo si realizza in un cammino di permanente crescita. Questa forma così particolare di amore che è il matrimonio, è chiamata ad una costante maturazione, perché ad essa bisogna sempre applicare quello che san Tommaso d’Aquino diceva della carità: «La carità, in ragione della sua natura, non ha un limite di aumento, essendo essa una partecipazione dell’infinita carità, che è lo Spirito Santo. […] Nemmeno da parte del soggetto le si può porre un limite, poiché col crescere della carità, cresce sempre più anche la capacità di un aumento ulteriore ».[135] San Paolo esortava con forza: «Il Signore vi faccia crescere e sovrabbondare nell’amore fra voi e verso tutti» (1 Ts 3,12); e aggiunge: «Riguardo all’amore fraterno […] vi esortiamo, fratelli, a progredire ancora di più» (1 Ts 4,9-10). Ancora di più. L’amore matrimoniale non si custodisce prima di tutto parlando dell’indissolubilità come di un obbligo, o ripetendo una dottrina, ma fortificandolo grazie ad una crescita costante sotto l’impulso della grazia. L’amore che non cresce inizia a correre rischi, e possiamo crescere soltanto corrispondendo alla grazia divina mediante più atti di amore, con atti di affetto più frequenti, più intensi, più generosi, più teneri, più allegri. Il marito e la moglie «sperimentano il senso della propria unità e sempre più pienamente la conseguono».[136] Il dono dell’amore divino che si effonde sugli sposi è al tempo stesso un appello ad un costante sviluppo di questo regalo della grazia.

135. Non fanno bene alcune fantasie su un amore idilliaco e perfetto, privato in tal modo di ogni stimolo a crescere. Un’idea celestiale dell’amore terreno dimentica che il meglio è quello che non è stato ancora raggiunto, il vino maturato col tempo. Come hanno ricordato i Vescovi del Cile, «non esistono le famiglie perfette che ci propone la pubblicità ingannevole e consumistica. In esse non passano gli anni, non esistono le malattie, il dolore, la morte […]. La pubblicità consumistica mostra un’illusione che non ha nulla a che vedere con la realtà che devono affrontare giorno per giorno i padri e la madri di famiglia». [137] È più sano accettare con realismo i limiti, le sfide e le imperfezioni, e dare ascolto all’appello a crescere uniti, a far maturare l’amore e a coltivare la solidità dell’unione, accada quel che accada.

Il dialogo

136. Il dialogo è una modalità privilegiata e indispensabile per vivere, esprimere e maturare l’amore nella vita coniugale e familiare. Ma richiede un lungo e impegnativo tirocinio. Uomini e donne, adulti e giovani, hanno modi diversi di comunicare, usano linguaggi differenti, si muovono con altri codici. Il modo di fare domande, la modalità delle risposte, il tono utilizzato, il momento e molti altri fattori possono condizionare la comunicazione. Inoltre, è sempre necessario sviluppare alcuni atteggiamenti che sono espressione di amore e rendono possibile il dialogo autentico.

137. Darsi tempo, tempo di qualità, che consiste nell’ascoltare con pazienza e attenzione, finché l’altro abbia espresso tutto quello che aveva bisogno di esprimere. Questo richiede l’ascesi di non incominciare a parlare prima del momento adatto. Invece di iniziare ad offrire opinioni o consigli, bisogna assicurarsi di aver ascoltato tutto quello che l’altro ha la necessità di dire. Questo implica fare silenzio interiore per ascoltare senza rumori nel cuore e nella mente: spogliarsi di ogni fretta, mettere da parte le proprie necessità e urgenze, fare spazio. Molte volte uno dei coniugi non ha bisogno di una soluzione ai suoi problemi ma di essere ascoltato. Deve percepire che è stata colta la sua pena, la sua delusione, la sua paura, la sua ira, la sua speranza, il suo sogno. Tuttavia sono frequenti queste lamentele: “Non mi ascolta. Quando sembra che lo stia facendo, in realtà sta pensando ad un’altra cosa”. “Parlo e sento che sta aspettando che finisca una buona volta”. “Quando parlo tenta di cambiare argomento, o mi dà risposte rapide per chiudere la conversazione”.

138. Sviluppare l’abitudine di dare importanza reale all’altro. Si tratta di dare valore alla sua persona, di riconoscere che ha il diritto di esistere, a pensare in maniera autonoma e ad essere felice. Non bisogna mai sottovalutare quello che può dire o reclamare, benché sia necessario esprimere il proprio punto di vista. È qui sottesa la convinzione secondo la quale tutti hanno un contributo da offrire, perché hanno un’altra esperienza della vita, perché guardano le cose da un altro punto di vista, perché hanno maturato altre preoccupazioni e hanno altre abilità e intuizioni. È possibile riconoscere la verità dell’altro, l’importanza delle sue più profonde preoccupazioni e il sottofondo di quello che dice, anche dietro parole aggressive. Per tale ragione bisogna cercare di mettersi nei suoi panni e di interpretare la profondità del suo cuore, individuare quello che lo appassiona e prendere quella passione come punto di partenza per approfondire il dialogo.

139. Ampiezza mentale, per non rinchiudersi con ossessione su poche idee, e flessibilità per poter modificare o completare le proprie opinioni. È possibile che dal mio pensiero e dal pensiero dell’altro possa emergere una nuova sintesi che arricchisca entrambi. L’unità alla quale occorre aspirare non è uniformità, ma una “unità nella diversità” o una “diversità riconciliata”. In questo stile arricchente di comunione fraterna, i diversi si incontrano, si rispettano e si apprezzano, mantenendo tuttavia differenti sfumature e accenti che arricchiscono il bene comune. C’è bisogno di liberarsi dall’obbligo di essere uguali. E ci vuole anche astuzia per accorgersi in tempo delle “interferenze” che possono comparire, in modo che non distruggano un processo di dialogo. Per esempio, riconoscere i cattivi sentimenti che potrebbero emergere e relativizzarli affinché non pregiudichino la comunicazione. È importante la capacità di esprimere ciò che si sente senza ferire; utilizzare un linguaggio e un modo di parlare che possano essere più facilmente accettati o tollerati dall’altro, benché il contenuto sia esigente; esporre le proprie critiche senza però scaricare l’ira come forma di vendetta, ed evitare un linguaggio moralizzante che cerchi soltanto di aggredire, ironizzare, incolpare, ferire. Molte discussioni nella coppia non sono per questioni molto gravi. A volte si tratta di cose piccole, poco rilevanti, ma quello che altera gli animi è il modo di pronunciarle o l’atteggiamento che si assume nel dialogo.

140. Avere gesti di attenzione per l’altro e dimostrazioni di affetto. L’amore supera le peggiori barriere. Quando si può amare qualcuno o quando ci sentiamo amati da lui, riusciamo a comprendere meglio quello che vuole esprimere e farci capire. Superare la fragilità che ci porta ad avere timore dell’altro come se fosse un “concorrente”. È molto importante fondare la propria sicurezza su scelte profonde, convinzioni e valori, e non sul vincere una discussione o sul fatto che ci venga data ragione.

141. Infine, riconosciamo che affinché il dialogo sia proficuo bisogna avere qualcosa da dire, e ciò richiede una ricchezza interiore che si alimenta nella lettura, nella riflessione personale, nella preghiera e nell’apertura alla società. Diversamente, le conversazioni diventano noiose e inconsistenti. Quando ognuno dei coniugi non cura il proprio spirito e non esiste una varietà di relazioni con altre persone, la vita familiare diventa endogamica e il dialogo si impoverisce.

Amore appassionato

142. Il Concilio Vaticano II ha insegnato che questo amore coniugale «abbraccia il bene di tutta la persona; perciò ha la possibilità di arricchire di particolare dignità le espressioni del corpo e della vita psichica e di nobilitarle come elementi e segni speciali dell’amicizia coniugale».[138] Ci deve essere qualche ragione per il fatto che un amore senza piacere né passione non è sufficiente a simboleggiare l’unione del cuore umano con Dio: «Tutti i mistici hanno affermato che l’amore soprannaturale e l’amore celeste trovano i simboli di cui vanno alla ricerca nell’amore matrimoniale, più che nell’amicizia, più che nel sentimento filiale o nella dedizione a una causa. E il motivo risiede giustamente nella sua totalità». [139] Perché allora non soffermarci a parlare dei sentimenti e della sessualità nel matrimonio?

Il mondo delle emozioni

143. Desideri, sentimenti, emozioni, quello che i classici chiamavano “passioni”, occupano un posto importante nel matrimonio. Si generano quando un “altro” si fa presente e si manifesta nella propria vita. È proprio di ogni essere vivente tendere verso un’altra realtà, e questa tendenza presenta sempre segni affettivi basilari: il piacere o il dolore, la gioia o la pena, la tenerezza o il timore. Sono il presupposto dell’attività psicologica più elementare. L’essere umano è un vivente di questa terra e tutto quello che fa e cerca è carico di passioni.

144. Gesù, come vero uomo, viveva le cose con una carica di emotività. Perciò lo addolorava il rifiuto di Gerusalemme (cfr Mt 23,37) e questa situazione gli faceva versare lacrime (cfr Lc 19,41). Ugualmente provava compassione di fronte alla sofferenza della gente (cfr Mc 6,34). Vedendo piangere gli altri si commuoveva e si turbava (cfr Gv 11,33), ed Egli stesso pianse la morte di un amico (cfr Gv 11,35). Queste manifestazioni della sua sensibilità mostravano fino a che punto il suo cuore umano era aperto agli altri.

145. Provare un’emozione non è qualcosa di moralmente buono o cattivo per sé stesso.[140] Incominciare a provare desiderio o rifiuto non è peccaminoso né riprovevole. Quello che è bene o male è l’atto che uno compie spinto o accompagnato da una passione. Ma se i sentimenti sono alimentati, ricercati e a causa di essi commettiamo cattive azioni, il male sta nella decisione di alimentarli e negli atti cattivi che ne conseguono. Sulla stessa linea, provare piacere per qualcuno non è di per sé un bene. Se con tale piacere io faccio in modo che quella persona diventi mia schiava, il sentimento sarà al servizio del mio egoismo. Credere che siamo buoni solo perché “proviamo dei sentimenti” è un tremendo inganno. Ci sono persone che si sentono capaci di un grande amore solo perché hanno una grande necessità di affetto, però non sono in grado di lottare per la felicità degli altri e vivono rinchiusi nei propri desideri. In tal caso i sentimenti distolgono dai grandi valori e nascondono un egocentrismo che non rende possibile coltivare una vita in famiglia sana e felice.

146. D’altro canto, se una passione accompagna l’atto libero, può manifestare la profondità di quella scelta. L’amore matrimoniale porta a fare in modo che tutta la vita emotiva diventi un bene per la famiglia e sia al servizio della vita in comune. La maturità giunge in una famiglia quando la vita emotiva dei suoi membri si trasforma in una sensibilità che non domina né oscura le grandi opzioni e i valori ma che asseconda la loro libertà,[141] sorge da essa, la arricchisce, la abbellisce e la rende più armoniosa per il bene di tutti.

Dio ama la gioia dei suoi figli

147. Questo richiede un cammino pedagogico, un processo che comporta delle rinunce. È una convinzione della Chiesa che molte volte è stata rifiutata, come se fosse nemica della felicità umana. Benedetto XVI ha raccolto questo interrogativo con grande chiarezza: «La Chiesa con i suoi comandamenti e divieti non ci rende forse amara la cosa più bella della vita? Non innalza forse cartelli di divieto proprio là dove la gioia, predisposta per noi dal Creatore, ci offre una felicità che ci fa pregustare qualcosa del Divino?».[142] Ma egli rispondeva che, seppure non sono mancati nel cristianesimo esagerazioni o ascetismi deviati, l’insegnamento ufficiale della Chiesa, fedele alle Scritture, non ha rifiutato «l’eros come tale, ma ha dichiarato guerra al suo stravolgimento distruttore, poiché la falsa divinizzazione dell’eros [...] lo priva della sua dignità, lo disumanizza».[143]

148. L’educazione dell’emotività e dell’istinto è necessaria, e a tal fine a volte è indispensabile porsi qualche limite. L’eccesso, la mancanza di controllo, l’ossessione per un solo tipo di piaceri, finiscono per debilitare e far ammalare lo stesso piacere,[144] e danneggiano la vita della famiglia. In realtà si può compiere un bel cammino con le passioni, il che significa orientarle sempre più in un progetto di autodonazione e di piena realizzazione di sé che arricchisce le relazioni interpersonali in seno alla famiglia. Non implica rinunciare ad istanti di intensa gioia,[145] ma assumerli in un intreccio con altri momenti di generosa dedizione, di speranza paziente, di inevitabile stanchezza, di sforzo per un ideale. La vita in famiglia è tutto questo e merita di essere vissuta interamente.

149. Alcune correnti spirituali insistono sull’eliminare il desiderio per liberarsi dal dolore. Ma noi crediamo che Dio ama la gioia dell’essere umano, che Egli ha creato tutto «perché possiamo goderne» (1 Tm 6,17). Lasciamo sgorgare la gioia di fronte alla sua tenerezza quando ci propone: «Figlio, trattati bene […]. Non privarti di un giorno felice» (Sir 14,11.14). Anche una coppia di coniugi risponde alla volontà di Dio seguendo questo invito biblico: «Nel giorno lieto sta’ allegro» (Qo 7,14). La questione è avere la libertà per accettare che il piacere trovi altre forme di espressione nei diversi momenti della vita, secondo le necessità del reciproco amore. In tal senso, si può accogliere la proposta di alcuni maestri orientali che insistono sull’allargare la coscienza, per non rimanere prigionieri in un’esperienza molto limitata che ci chiuderebbe le prospettive. Tale ampliamento della coscienza non è la negazione o la distruzione del desiderio, bensì la sua dilatazione e il suo perfezionamento.

La dimensione erotica dell’amore

150. Tutto questo ci porta a parlare della vita sessuale dei coniugi. Dio stesso ha creato la sessualità, che è un regalo meraviglioso per le sue creature. Quando la si coltiva e si evita che manchi di controllo, è per impedire che si verifichi «l’impoverimento di un valore autentico».[146] San Giovanni Paolo II ha respinto l’idea che l’insegnamento della Chiesa porti a «una negazione del valore del sesso umano» o che semplicemente lo tolleri «per la necessità stessa della procreazione».[147] Il bisogno sessuale degli sposi non è oggetto di disprezzo e «non si tratta in alcun modo di mettere in questione quel bisogno».[148]

151. A coloro che temono che con l’educazione delle passioni e della sessualità si pregiudichi la spontaneità dell’amore sessuato, san Giovanni Paolo II rispondeva che l’essere umano è «chiamato alla piena e matura spontaneità dei rapporti», che «è il graduale frutto del discernimento degli impulsi del proprio cuore».[149] È qualcosa che si conquista, dal momento che ogni essere umano «deve con perseveranza e coerenza imparare che cosa è il significato del corpo».[150] La sessualità non è una risorsa per gratificare o intrattenere, dal momento che è un linguaggio interpersonale dove l’altro è preso sul serio, con il suo sacro e inviolabile valore. In tal modo «il cuore umano diviene partecipe, per così dire, di un’altra spontaneità».[151] In questo contesto, l’erotismo appare come manifestazione specificamente umana della sessualità. In esso si può ritrovare «il significato sponsale del corpo e l’autentica dignità del dono».[152] Nelle sue catechesi sulla teologia del corpo umano, san Giovanni Paolo II ha insegnato che la corporeità sessuata «è non soltanto sorgente di fecondità e di procreazione», ma possiede «la capacità di esprimere l’amore: quell’amore appunto nel quale l’uomo-persona diventa dono».[153] L’erotismo più sano, sebbene sia unito a una ricerca di piacere, presuppone lo stupore, e perciò può umanizzare gli impulsi.

152. Pertanto, in nessun modo possiamo intendere la dimensione erotica dell’amore come un male permesso o come un peso da sopportare per il bene della famiglia, bensì come dono di Dio che abbellisce l’incontro tra gli sposi. Trattandosi di una passione sublimata dall’amore che ammira la dignità dell’altro, diventa una «piena e limpidissima affermazione d’amore» che ci mostra di quali meraviglie è capace il cuore umano, e così per un momento «si percepisce che l’esistenza umana è stata un successo».[154]

Violenza e manipolazione

153. Nel contesto di questa visione positiva della sessualità, è opportuno impostare il tema nella sua integrità e con un sano realismo. Infatti non possiamo ignorare che molte volte la sessualità si spersonalizza ed anche si colma di patologie, in modo tale che «diventa sempre più occasione e strumento di affermazione del proprio io e di soddisfazione egoistica dei propri desideri e istinti».[155] In questa epoca diventa alto il rischio che anche la sessualità sia dominata dallo spirito velenoso dell’“usa e getta”. Il corpo dell’altro è spesso manipolato come una cosa da tenere finché offre soddisfazione e da disprezzare quando perde attrattiva. Si possono forse ignorare o dissimulare le costanti forme di dominio, prepotenza, abuso, perversione e violenza sessuale, che sono frutto di una distorsione del significato della sessualità e che seppelliscono la dignità degli altri e l’appello all’amore sotto un’oscura ricerca di sé stessi?

154. Non è superfluo ricordare che anche nel matrimonio la sessualità può diventare fonte di sofferenza e di manipolazione. Per questo dobbiamo ribadire con chiarezza che «un atto coniugale imposto al coniuge senza nessun riguardo alle sue condizioni ed ai suoi giusti desideri non è un vero atto di amore e nega pertanto un’esigenza del retto ordine morale nei rapporti tra gli sposi».[156] Gli atti propri dell’unione sessuale dei coniugi rispondono alla natura della sessualità voluta da Dio se sono «compiuti in modo veramente umano».[157] Per questo san Paolo esortava: «Che nessuno in questo campo offenda o inganni il proprio fratello» (1 Ts 4,6). Sebbene egli scrivesse in un’epoca in cui dominava una cultura patriarcale, nella quale la donna era considerata un essere completamente subordinato all’uomo, tuttavia insegnò che la sessualità dev’essere una questione da trattare tra i coniugi: prospettò la possibilità di rimandare i rapporti sessuali per un certo periodo, però «di comune accordo» (1 Cor 7,5).

155. San Giovanni Paolo II ha dato un avvertimento molto sottile quando ha affermato che l’uomo e la donna sono «minacciati dall’insaziabilità».[158] Vale a dire, sono chiamati ad un’unione sempre più intensa, ma il rischio sta nel pretendere di cancellare le differenze e quell’inevitabile distanza che vi è tra i due. Perché ciascuno possiede una dignità propria e irripetibile. Quando la preziosa appartenenza reciproca si trasforma in dominio, «cambia […] essenzialmente la struttura di comunione nella relazione interpersonale».[159] Nella logica del dominio, anche chi domina finisce per negare la propria dignità[160] e in definitiva cessa di «identificarsi soggettivamente con il proprio corpo»,[161] dal momento che lo priva di ogni significato. Vive il sesso come evasione da sé stesso e come rinuncia alla bellezza dell’unione.

156. E’ importante essere chiari nel rifiuto di qualsiasi forma di sottomissione sessuale. Perciò è opportuno evitare ogni interpretazione inadeguata del testo della Lettera agli Efesini dove si chiede che «le mogli siano [sottomesse] ai loro mariti» (Ef 5,22). San Paolo qui si esprime in categorie culturali proprie di quell’epoca, ma noi non dobbiamo assumere tale rivestimento culturale, bensì il messaggio rivelato che soggiace all’insieme della pericope. Riprendiamo la sapiente spiegazione di san Giovanni Paolo II: «L’amore esclude ogni genere di sottomissione, per cui la moglie diverrebbe serva o schiava del marito [...]. La comunità o unità che essi debbono costituire a motivo del matrimonio, si realizza attraverso una reciproca donazione, che è anche una sottomissione vicendevole».[162] Per questo si dice anche che «i mariti hanno il dovere di amare le mogli come il proprio corpo» (Ef 5,28). In realtà il testo biblico invita a superare il comodo individualismo per vivere rivolti agli altri: «Siate sottomessi gli uni agli altri» (Ef 5,21). Tra i coniugi questa reciproca “sottomissione” acquisisce un significato speciale e si intende come un’appartenenza reciproca liberamente scelta, con un insieme di caratteristiche di fedeltà, rispetto e cura. La sessualità è in modo inseparabile al servizio di tale amicizia coniugale, perché si orienta a fare in modo che l’altro viva in pienezza.

157. Tuttavia, il rifiuto delle distorsioni della sessualità e dell’erotismo non dovrebbe mai condurci a disprezzarli o a trascurarli. L’ideale del matrimonio non si può configurare solo come una donazione generosa e sacrificata, dove ciascuno rinuncia ad ogni necessità personale e si preoccupa soltanto di fare il bene dell’altro senza alcuna soddisfazione. Ricordiamo che un vero amore sa anche ricevere dall’altro, è capace di accettarsi come vulnerabile e bisognoso, non rinuncia ad accogliere con sincera e felice gratitudine le espressioni corporali dell’amore nella carezza, nell’abbraccio, nel bacio e nell’unione sessuale. Benedetto XVI era chiaro a tale proposito: «Se l’uomo ambisce di essere solamente spirito e vuol rifiutare la carne come una eredità soltanto animalesca, allora spirito e corpo perdono la loro dignità».[163] Per questa ragione «l’uomo non può neanche vivere esclusivamente nell’amore oblativo, discendente. Non può sempre soltanto donare, deve anche ricevere. Chi vuol donare amore, deve egli stesso riceverlo in dono».[164] Questo richiede, in ogni modo, di ricordare che l’equilibrio umano è fragile, che rimane sempre qualcosa che resiste ad essere umanizzato e che in qualsiasi momento può scatenarsi nuovamente, recuperando le sue tendenze più primitive ed egoistiche.

Matrimonio e verginità

158. «Molte persone che vivono senza sposarsi non soltanto sono dedite alla propria famiglia d’origine, ma spesso rendono grandi servizi nella loro cerchia di amici, nella comunità ecclesiale e nella vita professionale. […] Molti, poi, mettono i loro talenti a servizio della comunità cristiana nel segno della carità e del volontariato. Vi sono poi coloro che non si sposano perché consacrano la vita per amore di Cristo e dei fratelli. Dalla loro dedizione la famiglia, nella Chiesa e nella società, è grandemente arricchita».[165]

159. La verginità è una forma d’amore. Come segno, ci ricorda la premura per il Regno, l’urgenza di dedicarsi senza riserve al servizio dell’evangelizzazione (cfr 1 Cor 7,32), ed è un riflesso della pienezza del Cielo, dove «non si prende né moglie né marito» (Mt 22,30). San Paolo la raccomandava perché attendeva un imminente ritorno di Gesù e voleva che tutti si concentrassero unicamente sull’evangelizzazione: «Il tempo si è fatto breve» (1 Cor 7,29). Tuttavia rimaneva chiaro che era un’opinione personale e un suo desiderio (cfr 1 Cor 7,6-8) e non una richiesta di Cristo: «Non ho alcun comando dal Signore» (1 Cor 7,25). Nello stesso tempo, riconosceva il valore delle diverse chiamate: «Ciascuno riceve da Dio il proprio dono, chi in un modo, chi in un altro» (1 Cor 7,7). In questo senso san Giovanni Paolo II ha affermato che i testi biblici «non forniscono motivo per sostenere né l’“inferiorità” del matrimonio, né la “superiorità” della verginità o del celibato»[166] a motivo dell’astinenza sessuale. Più che parlare della superiorità della verginità sotto ogni profilo, sembra appropriato mostrare che i diversi stati di vita sono complementari, in modo tale che uno può essere più perfetto per qualche aspetto e l’altro può esserlo da un altro punto di vista. Alessandro di Hales, per esempio, affermava che in un senso il matrimonio può considerarsi superiore agli altri sacramenti: perché simboleggia qualcosa di così grande come «l’unione di Cristo con la Chiesa o l’unione della natura divina con quella umana».[167]

160. Pertanto, «non si tratta di sminuire il valore del matrimonio a vantaggio della continenza»[168] e «non vi è invece alcuna base per una supposta contrapposizione [...]. Se, stando a una certa tradizione teologica, si parla dello stato di perfezione (status perfectionis), lo si fa non a motivo della continenza stessa, ma riguardo all’insieme della vita fondata sui consigli evangelici».[169] Tuttavia una persona sposata può vivere la carità in altissimo grado. Dunque «perviene a quella perfezione che scaturisce dalla carità, mediante la fedeltà allo spirito di quei consigli. Tale perfezione è possibile e accessibile ad ogni uomo». [170]

161. La verginità ha il valore simbolico dell’amore che non ha la necessità di possedere l’altro, e riflette in tal modo la libertà del Regno dei Cieli. È un invito agli sposi perché vivano il loro amore coniugale nella prospettiva dell’amore definitivo a Cristo, come un cammino comune verso la pienezza del Regno. A sua volta, l’amore degli sposi presenta altri valori simbolici: da una parte, è un peculiare riflesso della Trinità. Infatti la Trinità è unità piena, nella quale però esiste anche la distinzione. Inoltre, la famiglia è un segno cristologico, perché manifesta la vicinanza di Dio che condivide la vita dell’essere umano unendosi ad esso nell’Incarnazione, nella Croce e nella Risurrezione: ciascun coniuge diventa “una sola carne” con l’altro e offre sé stesso per condividerlo interamente con l’altro sino alla fine. Mentre la verginità è un segno “escatologico” di Cristo risorto, il matrimonio è un segno “storico” per coloro che camminano sulla terra, un segno di Cristo terreno che accettò di unirsi a noi e si donò fino a donare il suo sangue. La verginità e il matrimonio sono, e devono essere, modalità diverse di amare, perché «l'uomo non può vivere senza amore. Egli rimane per sé stesso un essere incomprensibile, la sua vita è priva di senso, se non gli viene rivelato l’amore».[171]

162. Il celibato corre il rischio di essere una comoda solitudine, che offre libertà per muoversi con autonomia, per cambiare posto, compiti e scelte, per disporre del proprio denaro, per frequentare persone diverse secondo l’attrattiva del momento. In tal caso, risplende la testimonianza delle persone sposate. Coloro che sono stati chiamati alla verginità possono trovare in alcune coppie di coniugi un segno chiaro della generosa e indistruttibile fedeltà di Dio alla sua Alleanza, che può stimolare i loro cuori a una disponibilità più concreta e oblativa. Infatti ci sono persone sposate che mantengono la loro fedeltà quando il coniuge è diventato sgradevole fisicamente, o quando non soddisfa le loro necessità, nonostante che molte occasioni li invitino all’infedeltà o all’abbandono. Una donna può curare suo marito malato e lì, accanto alla Croce, torna a ripetere il “sì” del suo amore fino alla morte. In tale amore si manifesta in modo splendido la dignità di chi ama, dignità come riflesso della carità, dal momento che è proprio della carità amare più che essere amati.[172]Possiamo anche riscontrare in molte famiglie una capacità di servizio oblativo e tenero nei confronti di figli difficili e persino ingrati. Questo fa di tali genitori un segno dell’amore libero e disinteressato di Gesù. Tutto ciò diventa un invito alle persone celibi perché vivano la loro dedizione per il Regno con maggiore generosità e disponibilità. Oggi la secolarizzazione ha offuscato il valore di un’unione per tutta la vita e ha sminuito la ricchezza della dedizione matrimoniale, per cui «occorre approfondire gli aspetti positivi dell’amore coniugale».[173]

La trasformazione dell’amore

163. Il prolungarsi della vita fa sì che si verifichi qualcosa che non era comune in altri tempi: la relazione intima e la reciproca appartenenza devono conservarsi per quattro, cinque o sei decenni, e questo comporta la necessità di ritornare a scegliersi a più riprese. Forse il coniuge non è più attratto da un desiderio sessuale intenso che lo muova verso l’altra persona, però sente il piacere di appartenerle e che essa gli appartenga, di sapere che non è solo, di aver un “complice” che conosce tutto della sua vita e della sua storia e che condivide tutto. È il compagno nel cammino della vita con cui si possono affrontare le difficoltà e godere le cose belle. Anche questo genera una soddisfazione che accompagna il desiderio proprio dell’amore coniugale. Non possiamo prometterci di avere gli stessi sentimenti per tutta la vita. Ma possiamo certamente avere un progetto comune stabile, impegnarci ad amarci e a vivere uniti finché la morte non ci separi, e vivere sempre una ricca intimità. L’amore che ci promettiamo supera ogni emozione, sentimento o stato d’animo, sebbene possa includerli. È un voler bene più profondo, con una decisione del cuore che coinvolge tutta l’esistenza. Così, in mezzo ad un conflitto non risolto, e benché molti sentimenti confusi si aggirino nel cuore, si mantiene viva ogni giorno la decisione di amare, di appartenersi, di condividere la vita intera e di continuare ad amarsi e perdonarsi. Ciascuno dei due compie un cammino di crescita e di cambiamento personale. Nel corso di tale cammino, l’amore celebra ogni passo e ogni nuova tappa.

164. Nella storia di un matrimonio, l’aspetto fisico muta, ma questo non è un motivo perché l’attrazione amorosa venga meno. Ci si innamora di una persona intera con una identità propria, non solo di un corpo, sebbene tale corpo, al di là del logorio del tempo, non finisca mai di esprimere in qualche modo quell’identità personale che ha conquistato il cuore. Quando gli altri non possono più riconoscere la bellezza di tale identità, il coniuge innamorato continua ad essere capace di percepirla con l’istinto dell’amore, e l’affetto non scompare. Riafferma la sua decisione di appartenere ad essa, la sceglie nuovamente ed esprime tale scelta attraverso una vicinanza fedele e colma di tenerezza. La nobiltà della sua decisione per essa, essendo intensa e profonda, risveglia una nuova forma di emozione nel compimento della missione coniugale. Perché «l’emozione provocata da un altro essere umano come persona [...] non tende di per sé all’atto coniugale».[174] Acquisisce altre espressioni sensibili perché l’amore «è un’unica realtà, seppur con diverse dimensioni; di volta in volta, l’una o l’altra dimensione può emergere maggiormente».[175] Il vincolo trova nuove modalità ed esige la decisione di riprendere sempre nuovamente a stabilirlo. Non solo però per conservarlo, ma per farlo crescere. È il cammino di costruirsi giorno per giorno. Ma nulla di questo è possibile se non si invoca lo Spirito Santo, se non si grida ogni giorno chiedendo la sua grazia, se non si cerca la sua forza soprannaturale, se non gli si richiede ansiosamente che effonda il suo fuoco sopra il nostro amore per rafforzarlo, orientarlo e trasformarlo in ogni nuova situazione.

CAPITOLO QUINTO

L’AMORE CHE DIVENTA FECONDO

165. L’amore dà sempre vita. Per questo, l’amore coniugale «non si esaurisce all’interno della coppia [...]. I coniugi, mentre si donano tra loro, donano al di là di se stessi la realtà del figlio, riflesso vivente del loro amore, segno permanente della unità coniugale e sintesi viva ed indissociabile del loro essere padre e madre».[176]

Accogliere una nuova vita

166. La famiglia è l’ambito non solo della generazione, ma anche dell’accoglienza della vita che arriva come dono di Dio. Ogni nuova vita «ci permette di scoprire la dimensione più gratuita dell’amore, che non finisce mai di stupirci. E’ la bellezza di essere amati prima: i figli sono amati prima che arrivino».[177] Questo riflette il primato dell’amore di Dio che prende sempre l’iniziativa, perché i figli «sono amati prima di aver fatto qualsiasi cosa per meritarlo».[178] Tuttavia, «tanti bambini fin dall’inizio sono rifiutati, abbandonati, derubati della loro infanzia e del loro futuro. Qualcuno osa dire, quasi per giustificarsi, che è stato un errore farli venire al mondo. Questo è vergognoso! […] Che ne facciamo delle solenni dichiarazioni dei diritti dell’uomo e dei diritti del bambino, se poi puniamo i bambini per gli errori degli adulti?».[179] Se un bambino viene al mondo in circostanze non desiderate, i genitori o gli altri membri della famiglia, devono fare tutto il possibile per accettarlo come dono di Dio e per assumere la responsabilità di accoglierlo con apertura e affetto. Perché «quando si tratta dei bambini che vengono al mondo, nessun sacrificio degli adulti sarà giudicato troppo costoso o troppo grande, pur di evitare che un bambino pensi di essere uno sbaglio, di non valere niente e di essere abbandonato alle ferite della vita e alla prepotenza degli uomini».[180] Il dono di un nuovo figlio che il Signore affida a papà e mamma ha inizio con l’accoglienza, prosegue con la custodia lungo la vita terrena e ha come destino finale la gioia della vita eterna. Uno sguardo sereno verso il compimento ultimo della persona umana renderà i genitori ancora più consapevoli del prezioso dono loro affidato: ad essi infatti Dio concede di scegliere il nome col quale Egli chiamerà ogni suo figlio per l’eternità. [181]

167. Le famiglie numerose sono una gioia per la Chiesa. In esse l’amore esprime la sua fecondità generosa. Questo non implica dimenticare una sana avvertenza di san Giovanni Paolo II, quando spiegava che la paternità responsabile non è «procreazione illimitata o mancanza di consapevolezza circa il significato di allevare figli, ma piuttosto la possibilità data alle coppie di utilizzare la loro inviolabile libertà saggiamente e responsabilmente, tenendo presente le realtà sociali e demografiche così come la propria situazione e i legittimi desideri».[182]

L’amore nell’attesa propria della gravidanza

168. La gravidanza è un periodo difficile, ma anche un tempo meraviglioso. La madre collabora con Dio perché si produca il miracolo di una nuova vita. La maternità proviene da una «particolare potenzialità dell’organismo femminile, che con peculiarità creatrice serve al concepimento e alla generazione dell’essere umano».[183] Ogni donna partecipa «del mistero della creazione, che si rinnova nella generazione umana».[184] Come dice il Salmo: «Mi hai tessuto nel grembo di mia madre» (139,13). Ogni bambino che si forma all’interno di sua madre è un progetto eterno di Dio Padre e del suo amore eterno: «Prima di formarti nel grembo materno, ti ho conosciuto, prima che tu uscissi alla luce, ti ho consacrato» (Ger 1,5). Ogni bambino sta da sempre nel cuore di Dio, e nel momento in cui viene concepito si compie il sogno eterno del Creatore. Pensiamo quanto vale l’embrione dall’istante in cui è concepito! Bisogna guardarlo con lo stesso sguardo d’amore del Padre, che vede oltre ogni apparenza.

169. La donna in gravidanza può partecipare a tale progetto di Dio sognando suo figlio: «Tutte le mamme e tutti i papà hanno sognato il loro figlio per nove mesi. […] Non è possibile una famiglia senza il sogno. Quando in una famiglia si perde la capacità di sognare, i bambini non crescono e l’amore non cresce, la vita si affievolisce e si spegne».[185] All’interno di questo sogno, per una coppia di coniugi cristiani, appare necessariamente il Battesimo. I genitori lo preparano con la loro preghiera, affidando il figlio a Gesù già prima della sua nascita.

170. Con i progressi delle scienze oggi si può sapere in anticipo che colore di capelli avrà il bambino e di quali malattie potrà soffrire in futuro, perché tutte le caratteristiche somatiche di quella persona sono inscritte nel suo codice genetico già nello stadio embrionale. Ma solo il Padre che lo ha creato lo conosce pienamente. Solo Lui conosce ciò che è più prezioso, ciò che è più importante, perché Egli sa chi è quel bambino, qual è la sua identità più profonda. La madre che lo porta nel suo grembo ha bisogno di chiedere luce a Dio per poter conoscere in profondità il proprio figlio e per attenderlo quale è veramente. Alcuni genitori sentono che il loro figlio non arriva nel momento migliore. Hanno bisogno di chiedere al Signore che li guarisca e li fortifichi per accettare pienamente quel figlio, per poterlo attendere con il cuore. È importante che quel bambino si senta atteso. Egli non è un complemento o una soluzione per un’aspirazione personale. È un essere umano, con un valore immenso e non può venire usato per il proprio beneficio. Dunque, non è importante se questa nuova vita ti servirà o no, se possiede caratteristiche che ti piacciono o no, se risponde o no ai tuoi progetti e ai tuoi sogni. Perché «i figli sono un dono. Ciascuno è unico e irripetibile […]. Un figlio lo si ama perché è figlio: non perché è bello, o perché è così o cosà; no, perché è figlio! Non perché la pensa come me, o incarna i miei desideri. Un figlio è un figlio».[186] L’amore dei genitori è strumento dell’amore di Dio Padre che attende con tenerezza la nascita di ogni bambino, lo accetta senza condizioni e lo accoglie gratuitamente.

171. Ad ogni donna in gravidanza desidero chiedere con affetto: abbi cura della tua gioia, che nulla ti tolga la gioia interiore della maternità. Quel bambino merita la tua gioia. Non permettere che le paure, le preoccupazioni, i commenti altrui o i problemi spengano la felicità di essere strumento di Dio per portare al mondo una nuova vita. Occupati di quello che c’è da fare o preparare, ma senza ossessionarti, e loda come Maria: «L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio Salvatore, perché ha guardato l’umiltà della sua serva» (Lc 1,46-48). Vivi con sereno entusiasmo in mezzo ai tuoi disagi, e prega il Signore che custodisca la tua gioia perché tu possa trasmetterla al tuo bambino.

Amore di madre e di padre

172. «I bambini, appena nati, incominciano a ricevere in dono, insieme col nutrimento e le cure, la conferma delle qualità spirituali dell’amore. Gli atti dell’amore passano attraverso il dono del nome personale, la condivisione del linguaggio, le intenzioni degli sguardi, le illuminazioni dei sorrisi. Imparano così che la bellezza del legame fra gli esseri umani punta alla nostra anima, cerca la nostra libertà, accetta la diversità dell’altro, lo riconosce e lo rispetta come interlocutore. […] E questo è amore, che porta una scintilla di quello di Dio!». [187] Ogni bambino ha il diritto di ricevere l’amore di una madre e di un padre, entrambi necessari per la sua maturazione integra e armoniosa. Come hanno affermato i Vescovi dell’Australia, entrambi «contribuiscono, ciascuno in una maniera diversa, alla crescita di un bambino. Rispettare la dignità di un bambino significa affermare la sua necessità e il suo diritto naturale ad avere una madre e un padre».[188] Non si tratta solo dell’amore del padre e della madre presi separatamente, ma anche dell’amore tra di loro, percepito come fonte della propria esistenza, come nido che accoglie e come fondamento della famiglia. Diversamente, il figlio sembra ridursi ad un possesso capriccioso. Entrambi, uomo e donna, padre e madre, sono «cooperatori dell’amore di Dio Creatore e quasi suoi interpreti».[189] Mostrano ai loro figli il volto materno e il volto paterno del Signore. Inoltre essi insieme insegnano il valore della reciprocità, dell’incontro tra differenti, dove ciascuno apporta la sua propria identità e sa anche ricevere dall’altro. Se per qualche ragione inevitabile manca uno dei due, è importante cercare qualche maniera per compensarlo, per favorire l’adeguata maturazione del figlio.

173. Il sentimento di essere orfani che sperimentano oggi molti bambini e giovani è più profondo di quanto pensiamo. Oggi riconosciamo come pienamente legittimo, e anche auspicabile, che le donne vogliano studiare, lavorare, sviluppare le proprie capacità e avere obiettivi personali. Ma nello stesso tempo non possiamo ignorare la necessità che hanno i bambini della presenza materna, specialmente nei primi mesi di vita. La realtà è che «la donna sta davanti all’uomo come madre, soggetto della nuova vita umana che in essa è concepita e si sviluppa, e da essa nasce al mondo».[190] Il diminuire della presenza materna con le sue qualità femminili costituisce un rischio grave per la nostra terra. Apprezzo il femminismo quando non pretende l’uniformità né la negazione della maternità. Perché la grandezza della donna implica tutti i diritti che derivano dalla sua inalienabile dignità umana, ma anche dal suo genio femminile, indispensabile per la società. Le sue capacità specificamente femminili – in particolare la maternità – le conferiscono anche dei doveri, perché il suo essere donna comporta anche una missione peculiare su questa terra, che la società deve proteggere e preservare per il bene di tutti.[191]

174. Di fatto, «le madri sono l’antidoto più forte al dilagare dell’individualismo egoistico. […] Sono esse a testimoniare la bellezza della vita».[192] Senza dubbio, «una società senza madri sarebbe una società disumana, perché le madri sanno testimoniare sempre, anche nei momenti peggiori, la tenerezza, la dedizione, la forza morale. Le madri trasmettono spesso anche il senso più profondo della pratica religiosa: nelle prime preghiere, nei primi gesti di devozione che un bambino impara […]. Senza le madri, non solo non ci sarebbero nuovi fedeli, ma la fede perderebbe buona parte del suo calore semplice e profondo. […] Carissime mamme, grazie, grazie per ciò che siete nella famiglia e per ciò che date alla Chiesa e al mondo».[193]

175. La madre, che protegge il bambino con la sua tenerezza e la sua compassione, lo aiuta a far emergere la fiducia, a sperimentare che il mondo è un luogo buono che lo accoglie, e questo permette di sviluppare un’autostima che favorisce la capacità di intimità e l’empatia. La figura paterna, d’altra parte, aiuta a percepire i limiti della realtà e si caratterizza maggiormente per l’orientamento, per l’uscita verso il mondo più ampio e ricco di sfide, per l’invito allo sforzo e alla lotta. Un padre con una chiara e felice identità maschile, che a sua volta unisca nel suo tratto verso la moglie l’affetto e l’accoglienza, è tanto necessario quanto le cure materne. Vi sono ruoli e compiti flessibili, che si adattano alle circostanze concrete di ogni famiglia, ma la presenza chiara e ben definita delle due figure, femminile e maschile, crea l’ambiente più adatto alla maturazione del bambino.

176. Si dice che la nostra società è una “società senza padri”. Nella cultura occidentale, la figura del padre sarebbe simbolicamente assente, distorta, sbiadita. Persino la virilità sembrerebbe messa in discussione. Si è verificata una comprensibile confusione, perché «in un primo momento, la cosa è stata percepita come una liberazione: liberazione dal padre-padrone, dal padre come rappresentante della legge che si impone dall’esterno, dal padre come censore della felicità dei figli e ostacolo all’emancipazione e all’autonomia dei giovani. Talvolta in alcune case regnava in passato l’autoritarismo, in certi casi addirittura la sopraffazione».[194] Tuttavia, «come spesso avviene, si passa da un estremo all’altro. Il problema dei nostri giorni non sembra essere più tanto la presenza invadente dei padri, quanto piuttosto la loro assenza, la loro latitanza. I padri sono talora così concentrati su sé stessi e sul proprio lavoro e alle volte sulle proprie realizzazioni individuali, da dimenticare anche la famiglia. E lasciano soli i piccoli e i giovani».[195]La presenza paterna, e pertanto la sua autorità, risulta intaccata anche dal tempo sempre maggiore che si dedica ai mezzi di comunicazione e alla tecnologia dello svago. Inoltre oggi l’autorità è vista con sospetto e gli adulti sono duramente messi in discussione. Loro stessi abbandonano le certezze e perciò non offrono ai figli orientamenti sicuri e ben fondati. Non è sano che si scambino i ruoli tra genitori e figli: ciò danneggia l’adeguato processo di maturazione che i bambini hanno bisogno di compiere e nega loro un amore capace di orientarli e che li aiuti a maturare.[196]

177. Dio pone il padre nella famiglia perché, con le preziose caratteristiche della sua mascolinità, «sia vicino alla moglie, per condividere tutto, gioie e dolori, fatiche e speranze. E [perché] sia vicino ai figli nella loro crescita: quando giocano e quando si impegnano, quando sono spensierati e quando sono angosciati, quando si esprimono e quando sono taciturni, quando osano e quando hanno paura, quando fanno un passo sbagliato e quando ritrovano la strada; padre presente, sempre. Dire presente non è lo stesso che dire controllore. Perché i padri troppo controllori annullano i figli».[197] Alcuni padri si sentono inutili o non necessari, ma la verità è che «i figli hanno bisogno di trovare un padre che li aspetta quando ritornano dai loro fallimenti. Faranno di tutto per non ammetterlo, per non darlo a vedere, ma ne hanno bisogno».[198] Non è bene che i bambini rimangano senza padri e così smettano di essere bambini prima del tempo.

Fecondità allargata

178. Molte coppie di sposi non possono avere figli. Sappiamo quanta sofferenza questo comporti. D’altra parte, sappiamo pure che «il matrimonio non è stato istituito soltanto per la procreazione […]. E perciò anche se la prole, molto spesso tanto vivamente desiderata, non c’è, il matrimonio perdura come comunità e comunione di tutta la vita e conserva il suo valore e la sua indissolubilità».[199] Inoltre «la maternità non è una realtà esclusivamente biologica, ma si esprime in diversi modi».[200]

179. L’adozione è una via per realizzare la maternità e la paternità in un modo molto generoso, e desidero incoraggiare quanti non possono avere figli ad allargare e aprire il loro amore coniugale per accogliere coloro che sono privi di un adeguato contesto familiare. Non si pentiranno mai di essere stati generosi. Adottare è l’atto d’amore di donare una famiglia a chi non l’ha. È importante insistere affinché la legislazione possa facilitare le procedure per l’adozione, soprattutto nei casi di figli non desiderati, al fine di prevenire l’aborto o l’abbandono. Coloro che affrontano la sfida di adottare e accolgono una persona in modo incondizionato e gratuito, diventano mediazione dell’amore di Dio che afferma: “Anche se tua madre ti dimenticasse, io invece non ti dimenticherò mai” (cfr Is 49,15).

180. «La scelta dell’adozione e dell’affido esprime una particolare fecondità dell’esperienza coniugale, al di là dei casi in cui è dolorosamente segnata dalla sterilità. […] A fronte di quelle situazioni in cui il figlio è preteso a qualsiasi costo, come diritto del proprio completamento, l’adozione e l’affido rettamente intesi mostrano un aspetto importante della genitorialità e della figliolanza, in quanto aiutano a riconoscere che i figli, sia naturali sia adottivi o affidati, sono altro da sé ed occorre accoglierli, amarli, prendersene cura e non solo metterli al mondo. L’interesse prevalente del bambino dovrebbe sempre ispirare le decisioni sull’adozione e l’affido».[201] D’altra parte «il traffico di bambini fra Paesi e Continenti va impedito con opportuni interventi legislativi e controlli degli Stati». [202]

181. E’ opportuno anche ricordare che la procreazione e l’adozione non sono gli unici modi di vivere la fecondità dell’amore. Anche la famiglia con molti figli è chiamata a lasciare la sua impronta nella società dove è inserita, per sviluppare altre forme di fecondità che sono come il prolungamento dell’amore che la sostiene. Le famiglie cristiane non dimentichino che «la fede non ci toglie dal mondo, ma ci inserisce più profondamente in esso. […] Ognuno di noi, infatti, svolge un ruolo speciale nella preparazione della venuta del Regno di Dio».[203] La famiglia non deve pensare sé stessa come un recinto chiamato a proteggersi dalla società. Non rimane ad aspettare, ma esce da sé nella ricerca solidale. In tal modo diventa un luogo d’integrazione della persona con la società e un punto di unione tra il pubblico e il privato. I coniugi hanno bisogno di acquisire una chiara e convinta consapevolezza riguardo ai loro doveri sociali. Quando questo accade, l’affetto che li unisce non viene meno, ma si riempie di nuova luce, come esprimono i seguenti versi: «Le tue mani sono la mia carezza i miei accordi quotidiani ti amo perché le tue mani si adoperano per la giustizia. Se ti amo è perché sei il mio amore la mia complice e tutto e per la strada fianco a fianco siamo molto più di due».[204]

182. Nessuna famiglia può essere feconda se si concepisce come troppo differente o “separata”. Per evitare questo rischio, ricordiamo che la famiglia di Gesù, piena di grazia e di saggezza, non era vista come una famiglia “strana”, come una casa estranea e distante dal popolo. Proprio per tale ragione la gente faceva fatica a riconoscere la sapienza di Gesù e diceva: «Da dove gli vengono queste cose? […] Non è costui il falegname, il figlio di Maria?» (Mc 6,2-3). «Non è costui il figlio del falegname?» (Mt 13,55). Questo conferma che era una famiglia semplice, vicina a tutti, inserita in maniera normale nel popolo. Neppure Gesù crebbe in una relazione chiusa ed esclusiva con Maria e Giuseppe, ma si muoveva con piacere nella famiglia allargata in cui c’erano parenti e amici. Questo spiega che, quando tornavano da Gerusalemme, i suoi genitori accettassero che il bambino di dodici anni si perdesse nella carovana per un giorno intero, ascoltando i racconti e condividendo le preoccupazioni di tutti: «Credendo che egli fosse nella comitiva, fecero una giornata di viaggio» (Lc 2,44). Invece a volte succede che certe famiglie cristiane, per il linguaggio che usano, per il modo di dire le cose, per lo stile del loro tratto, per la ripetizione continua di due o tre temi, sono viste come lontane, come separate dalla società, persino i loro stessi parenti si sentono disprezzati o giudicati da esse.

183. Una coppia di sposi che sperimenta la forza dell’amore, sa che tale amore è chiamato a sanare le ferite degli abbandonati, a instaurare la cultura dell’incontro, a lottare per la giustizia. Dio ha affidato alla famiglia il progetto di rendere “domestico” il mondo,[205] affinché tutti giungano a sentire ogni essere umano come un fratello: «Uno sguardo attento alla vita quotidiana degli uomini e delle donne di oggi mostra immediatamente il bisogno che c’è ovunque di una robusta iniezione di spirito famigliare. […] Non solo l’organizzazione della vita comune si incaglia sempre più in una burocrazia del tutto estranea ai legami umani fondamentali, ma, addirittura, il costume sociale e politico mostra spesso segni di degrado».[206] Invece le famiglie aperte e solidali fanno spazio ai poveri, sono capaci di tessere un’amicizia con quelli che stanno peggio di loro. Se realmente hanno a cuore il Vangelo, non possono dimenticare quello che dice Gesù: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40). In definitiva, vivono quello che ci viene chiesto in modo tanto eloquente in questo testo: «Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici né i tuoi fratelli né i tuoi parenti né i ricchi vicini, perché a loro volta non ti invitino anch’essi e tu abbia il contraccambio. Al contrario, quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato» (Lc 14,12-14). Sarai beato! Ecco qui il segreto di una famiglia felice.

184. Con la testimonianza, e anche con la parola, le famiglie parlano di Gesù agli altri, trasmettono la fede, risvegliano il desiderio di Dio, e mostrano la bellezza del Vangelo e dello stile di vita che ci propone. Così i coniugi cristiani dipingono il grigio dello spazio pubblico riempiendolo con i colori della fraternità, della sensibilità sociale, della difesa delle persone fragili, della fede luminosa, della speranza attiva. La loro fecondità si allarga e si traduce in mille modi di rendere presente l’amore di Dio nella società. Discernere il corpo

185. In questa linea è opportuno prendere molto sul serio un testo biblico che si è soliti interpretare fuori del suo contesto, o in una maniera molto generale, per cui si può disattendere il suo significato più immediato e diretto, che è marcatamente sociale. Si tratta di 1 Cor 11,17-34, dove san Paolo affronta una situazione vergognosa della comunità. In quel contesto alcune persone abbienti tendevano a discriminare quelle povere, e questo si verificava persino nell’incontro conviviale che accompagnava la celebrazione dell’Eucaristia. Mentre i ricchi godevano dei loro cibi prelibati, i poveri facevano da spettatori ed erano affamati: «così uno ha fame, l’altro è ubriaco. Non avete forse le vostre case per mangiare e per bere? O volete gettare il disprezzo sulla Chiesa di Dio e umiliare chi non ha niente?» (vv. 21-22).

186. L’Eucaristia esige l’integrazione nell’unico corpo ecclesiale. Chi si accosta al Corpo e al Sangue di Cristo non può nello stesso tempo offendere quel medesimo Corpo operando scandalose divisioni e discriminazioni tra le sue membra. Si tratta infatti di “discernere” il Corpo del Signore, di riconoscerlo con fede e carità sia nei segni sacramentali sia nella comunità, altrimenti si mangia e si beve la propria condanna (cfr v. 29). Questo testo biblico è un serio avvertimento per le famiglie che si richiudono nella loro propria comodità e si isolano, ma più specificamente per le famiglie che restano indifferenti davanti alle sofferenze delle famiglie povere e più bisognose. La celebrazione eucaristica diventa così un costante appello rivolto a ciascuno perché «esamini se stesso» (v. 28) al fine di aprire le porte della propria famiglia ad una maggior comunione con coloro che sono scartati dalla società e dunque ricevere davvero il Sacramento dell’amore eucaristico che fa di noi un solo corpo. Non bisogna dimenticare che «la “mistica” del Sacramento ha un carattere sociale».[207] Quando coloro che si comunicano non accettano di lasciarsi spingere verso un impegno con i poveri e i sofferenti o acconsentono a diverse forme di divisione, di disprezzo e di ingiustizia, l’Eucaristia è ricevuta indegnamente. Invece, le famiglie che si nutrono dell’Eucaristia con la giusta disposizione, rafforzano il loro desiderio di fraternità, il loro senso sociale e il loro impegno con i bisognosi.

La vita nella famiglia in senso ampio

187. Il piccolo nucleo familiare non dovrebbe isolarsi dalla famiglia allargata, dove ci sono i genitori, gli zii, i cugini ed anche i vicini. In tale famiglia larga ci possono essere alcuni che hanno bisogno di aiuto o almeno di compagnia e di gesti di affetto, o possono esserci grandi sofferenze che hanno bisogno di un conforto.[208] L’individualismo di questi tempi a volte conduce a rinchiudersi nella sicurezza di un piccolo nido e a percepire gli altri come un pericolo molesto. Tuttavia, tale isolamento non offre più pace e felicità, ma chiude il cuore della famiglia e la priva dell’orizzonte ampio dell’esistenza.

Essere figli

188. In primo luogo parliamo dei propri genitori. Gesù ricordava ai farisei che l’abbandono dei genitori è contrario alla Legge di Dio (cfr Mc 7,8-13). A nessuno fa bene perdere la coscienza di essere figlio. In ogni persona, «anche se uno diventa adulto, o anziano, anche se diventa genitore, se occupa un posto di responsabilità, al di sotto di tutto questo rimane l’identità di figlio. Tutti siamo figli. E questo ci riporta sempre al fatto che la vita non ce la siamo data noi ma l’abbiamo ricevuta. Il grande dono della vita è il primo regalo che abbiamo ricevuto».[209]

189. Per questo «il quarto comandamento chiede ai figli […] di onorare il padre e la madre (cfr Es 20,12). Questo comandamento viene subito dopo quelli che riguardano Dio stesso. Infatti contiene qualcosa di sacro, qualcosa di divino, qualcosa che sta alla radice di ogni altro genere di rispetto fra gli uomini. E nella formulazione biblica del quarto comandamento si aggiunge: “perché si prolunghino i tuoi giorni nel paese che il Signore tuo Dio ti dà”. Il legame virtuoso tra le generazioni è garanzia di futuro, ed è garanzia di una storia davvero umana. Una società di figli che non onorano i genitori è una società senza onore […]. È una società destinata a riempirsi di giovani aridi e avidi». [210]

190. Ma c’è anche l’altra faccia della medaglia: «L’uomo lascerà suo padre e sua madre» (Gen 2,24), afferma la Parola di Dio. Questo a volte non si realizza, e il matrimonio non viene assunto fino in fondo perché non si è compiuta tale rinuncia e tale dedizione. I genitori non devono essere abbandonati né trascurati, tuttavia, per unirsi in matrimonio occorre lasciarli, in modo che la nuova casa sia la dimora, la protezione, la piattaforma e il progetto, e sia possibile diventare realmente «una sola carne» (ibid.). In alcuni matrimoni capita che si nascondano molte cose al proprio coniuge, che invece si dicono ai propri genitori, al punto che contano di più le opinioni dei genitori che i sentimenti e le opinioni del coniuge. Non è facile sostenere questa situazione per molto tempo, ed essa è possibile solo provvisoriamente, mentre si creano le condizioni per crescere nella fiducia e nel dialogo. Il matrimonio sfida a trovare un nuovo modo di essere figli.

Gli anziani

191. «Non gettarmi via nel tempo della vecchiaia, non abbandonarmi quando declinano le mie forze» (Sal 71,9). È il grido dell’anziano, che teme l’oblio e il disprezzo. Così come Dio ci invita ad essere suoi strumenti per ascoltare la supplica dei poveri, Egli attende anche da noi che ascoltiamo il grido degli anziani.[211] Questo interpella le famiglie e le comunità, perché «la Chiesa non può e non vuole conformarsi ad una mentalità di insofferenza, e tanto meno di indifferenza e di disprezzo, nei confronti della vecchiaia. Dobbiamo risvegliare il senso collettivo di gratitudine, di apprezzamento, di ospitalità, che facciano sentire l’anziano parte viva della sua comunità. Gli anziani sono uomini e donne, padri e madri che sono stati prima di noi sulla nostra stessa strada, nella nostra stessa casa, nella nostra quotidiana battaglia per una vita degna».[212] Perciò, «come vorrei una Chiesa che sfida la cultura dello scarto con la gioia traboccante di un nuovo abbraccio tra i giovani e gli anziani!».[213]

192. San Giovanni Paolo II ci ha invitato a prestare attenzione al posto dell’anziano nella famiglia, perché vi sono culture che «in seguito ad un disordinato sviluppo industriale ed urbanistico, hanno condotto e continuano a condurre gli anziani a forme inaccettabili di emarginazione».[214] Gli anziani aiutano a percepire «la continuità delle generazioni», con «il carisma di ricucire gli strappi».[215] Molte volte sono i nonni che assicurano la trasmissione dei grandi valori ai loro nipoti e «molte persone possono constatare che proprio ai nonni debbono la loro iniziazione alla vita cristiana».[216] Le loro parole, le loro carezze o la loro sola presenza aiutano i bambini a riconoscere che la storia non inizia con loro, che sono eredi di un lungo cammino e che bisogna rispettare il retroterra che ci precede. Coloro che rompono i legami con la storia avranno difficoltà a tessere relazioni stabili e a riconoscere che non sono i padroni della realtà. Dunque, «l’attenzione agli anziani fa la differenza di una civiltà. In una civiltà c’è attenzione all’anziano? C’è posto per l’anziano? Questa civiltà andrà avanti se saprà rispettare la saggezza, la sapienza degli anziani».[217]

193. La mancanza di memoria storica è un grave difetto della nostra società. E’ la mentalità immatura dell’“ormai è passato”. Conoscere e poter prendere posizione di fronte agli avvenimenti passati è l’unica possibilità di costruire un futuro che abbia senso. Non si può educare senza memoria: «Richiamate alla memoria quei primi giorni» (Eb 10,32). I racconti degli anziani fanno molto bene ai bambini e ai giovani, poiché li mettono in collegamento con la storia vissuta sia della famiglia sia del quartiere e del Paese. Una famiglia che non rispetta e non ha cura dei suoi nonni, che sono la sua memoria viva, è una famiglia disintegrata; invece una famiglia che ricorda è una famiglia che ha futuro. Pertanto, «in una civiltà in cui non c’è posto per gli anziani o sono scartati perché creano problemi, questa società porta con sé il virus della morte»,[218] dal momento che «si strappa dalle proprie radici».[219] Il fenomeno contemporaneo del sentirsi orfani, in termini di discontinuità, sradicamento e caduta delle certezze che danno forma alla vita, ci sfida a fare delle nostre famiglie un luogo in cui i bambini possano radicarsi nel terreno di una storia collettiva.

Essere fratelli

194. La relazione tra i fratelli si approfondisce con il passare del tempo, e «il legame di fraternità che si forma in famiglia tra i figli, se avviene in un clima di educazione all’apertura agli altri, è la grande scuola di libertà e di pace. In famiglia, tra fratelli si impara la convivenza umana […]. Forse non sempre ne siamo consapevoli, ma è proprio la famiglia che introduce la fraternità nel mondo! A partire da questa prima esperienza di fraternità, nutrita dagli affetti e dall’educazione familiare, lo stile della fraternità si irradia come una promessa sull’intera società».[220]

195. Crescere tra fratelli offre la bella esperienza di una cura reciproca, di aiutare e di essere aiutati. Perciò «la fraternità in famiglia risplende in modo speciale quando vediamo la premura, la pazienza, l’affetto di cui vengono circondati il fratellino o la sorellina più deboli, malati, o portatori di handicap».[221] Bisogna riconoscere che «avere un fratello, una sorella che ti vuole bene è un’esperienza forte, impagabile, insostituibile»,[222] però occorre insegnare con pazienza ai figli a trattarsi da fratelli. Tale tirocinio, a volte faticoso, è una vera scuola di socialità. In alcuni Paesi esiste una forte tendenza ad avere un solo figlio, per cui l’esperienza di essere fratello comincia ad essere poco comune. Nel caso in cui non sia stato possibile avere più di un figlio, si dovrà trovare il modo di far sì che il bambino non cresca solo o isolato.

Un cuore grande

196. Oltre il piccolo cerchio formato dai coniugi e dai loro figli, vi è la famiglia allargata che non può essere ignorata. Infatti «l’amore tra l’uomo e la donna nel matrimonio e, in forma derivata ed allargata, l’amore tra i membri della stessa famiglia - tra genitori e figli, tra fratelli e sorelle, tra parenti e familiari - è animato e sospinto da un interiore e incessante dinamismo, che conduce la famiglia ad una comunione sempre più profonda ed intensa, fondamento e anima della comunità coniugale e familiare».[223] In tale ambito si inseriscono anche gli amici e le famiglie amiche, ed anche le comunità di famiglie che si sostengono a vicenda nelle difficoltà, nell’impegno sociale e nella fede.

197. Questa famiglia allargata dovrebbe accogliere con tanto amore le ragazze madri, i bambini senza genitori, le donne sole che devono portare avanti l’educazione dei loro figli, le persone con disabilità che richiedono molto affetto e vicinanza, i giovani che lottano contro una dipendenza, le persone non sposate, quelle separate o vedove che soffrono la solitudine, gli anziani e i malati che non ricevono l’appoggio dei loro figli, fino ad includere nel loro seno «persino i più disastrati nelle condotte della loro vita».[224] Può anche aiutare a compensare le fragilità dei genitori, o a scoprire e denunciare in tempo possibili situazioni di violenza o anche di abuso subite dai bambini, dando loro un amore sano e un sostegno familiare quando i loro genitori non possono assicurarlo.

198. Infine non si può dimenticare che in questa famiglia allargata vi sono anche il suocero, la suocera e tutti i parenti del coniuge. Una delicatezza propria dell’amore consiste nell’evitare di vederli come dei concorrenti, come persone pericolose, come invasori. L’unione coniugale chiede di rispettare le loro tradizioni e i loro costumi, cercare di comprendere il loro linguaggio, limitare le critiche, avere cura di loro e integrarli in qualche modo nel proprio cuore, anche quando si dovrebbe preservare la legittima autonomia e l’intimità della coppia. Questi atteggiamenti sono anche un modo squisito di esprimere la generosità della dedizione amorosa al proprio coniuge.

CAPITOLO SESTO

ALCUNE PROSPETTIVE PASTORALI

199. I dialoghi del cammino sinodale hanno condotto a prospettare la necessità di sviluppare nuove vie pastorali, che cercherò ora di riassumere in modo generale. Saranno le diverse comunità a dover elaborare proposte più pratiche ed efficaci, che tengano conto sia degli insegnamenti della Chiesa sia dei bisogni e delle sfide locali. Senza pretendere di presentare qui una pastorale della famiglia, intendo limitarmi solo a raccogliere alcune delle principali sfide pastorali.

Annunciare il Vangelo della famiglia oggi

200. I Padri sinodali hanno insistito sul fatto che le famiglie cristiane, per la grazia del sacramento nuziale, sono i principali soggetti della pastorale familiare, soprattutto offrendo «la testimonianza gioiosa dei coniugi e delle famiglie, chiese domestiche».[225] Per questo hanno sottolineato che «si tratta di far sperimentare che il Vangelo della famiglia è gioia che “riempie il cuore e la vita intera”, perché in Cristo siamo “liberati dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore, dall’isolamento” (Evangelii gaudium, 1). Alla luce della parabola del seminatore (cfr Mt 13,3-9), il nostro compito è di cooperare nella semina: il resto è opera di Dio. Non bisogna nemmeno dimenticare che la Chiesa che predica sulla famiglia è segno di contraddizione»,[226] ma gli sposi apprezzano che i Pastori offrano loro motivazioni per una coraggiosa scommessa su un amore forte, solido, duraturo, capace di far fronte a tutto ciò che si presenti sulla loro strada. La Chiesa vuole raggiungere le famiglie con umile comprensione, e il suo desiderio «è di accompagnare ciascuna e tutte le famiglie perché scoprano la via migliore per superare le difficoltà che incontrano sul loro cammino».[227] Non basta inserire una generica preoccupazione per la famiglia nei grandi progetti pastorali. Affinché le famiglie possano essere sempre più soggetti attivi della pastorale familiare, si richiede «uno sforzo evangelizzatore e catechetico indirizzato all’interno della famiglia»,[228] che la orienti in questa direzione.

201. «Per questo si richiede a tutta la Chiesa una conversione missionaria: è necessario non fermarsi ad un annuncio meramente teorico e sganciato dai problemi reali delle persone».[229] La pastorale familiare «deve far sperimentare che il Vangelo della famiglia è risposta alle attese più profonde della persona umana: alla sua dignità e alla realizzazione piena nella reciprocità, nella comunione e nella fecondità. Non si tratta soltanto di presentare una normativa, ma di proporre valori, rispondendo al bisogno di essi che si constata oggi, anche nei paesi più secolarizzati».[230] Inoltre «si è parimenti sottolineata la necessità di una evangelizzazione che denunzi con franchezza i condizionamenti culturali, sociali, politici ed economici, come l’eccessivo spazio dato alla logica del mercato, che impediscono un’autentica vita familiare, determinando discriminazioni, povertà, esclusioni e violenza. Per questo va sviluppato un dialogo e una cooperazione con le strutture sociali, e vanno incoraggiati e sostenuti i laici che si impegnano, come cristiani, in ambito culturale e sociopolitico».[231]

202. «Il principale contributo alla pastorale familiare viene offerto dalla parrocchia, che è una famiglia di famiglie, dove si armonizzano i contributi delle piccole comunità, dei movimenti e delle associazioni ecclesiali».[232] Insieme con una pastorale specificamente orientata alle famiglie, ci si prospetta la necessità di «una formazione più adeguata per i presbiteri, i diaconi, i religiosi e le religiose, per i catechisti e per gli altri agenti di pastorale».[233] Nelle risposte alle consultazioni inviate a tutto il mondo, si è rilevato che ai ministri ordinati manca spesso una formazione adeguata per trattare i complessi problemi attuali delle famiglie. Può essere utile in tal senso anche l’esperienza della lunga tradizione orientale dei sacerdoti sposati.

203. I seminaristi dovrebbero accedere ad una formazione interdisciplinare più ampia sul fidanzamento e il matrimonio, e non solamente alla dottrina. Inoltre, la formazione non sempre permette loro di esprimere il proprio mondo psicoaffettivo. Alcuni portano nella loro vita l’esperienza della propria famiglia ferita, con assenza di genitori e con instabilità emotiva. Occorrerà garantire durante la formazione una maturazione affinché i futuri ministri possiedano l’equilibrio psichico che il loro compito esige. I vincoli familiari sono fondamentali per fortificare la sana autostima dei seminaristi. Perciò è importante che le famiglie accompagnino tutto il processo del seminario e del sacerdozio, poiché aiutano a fortificarlo in modo realistico. In tal senso è salutare la combinazione di tempi di vita in seminario con altri di vita in parrocchia, che permettano di prendere maggior contatto con la realtà concreta delle famiglie. Infatti, lungo tutta la sua vita pastorale il sacerdote si incontra soprattutto con famiglie. «La presenza dei laici e delle famiglie, in particolare la presenza femminile, nella formazione sacerdotale, favorisce l’apprezzamento per la varietà e la complementarietà delle diverse vocazioni nella Chiesa».[234]

204. Le risposte alle consultazioni esprimono anche con insistenza la necessità della formazione di operatori laici di pastorale familiare con l’aiuto di psicopedagogisti, medici di famiglia, medici di comunità, assistenti sociali, avvocati per i minori e le famiglie, con l’apertura a ricevere gli apporti della psicologia, della sociologia, della sessuologia e anche del counseling. I professionisti, specialmente coloro che hanno esperienza di accompagnamento, aiutano a incarnare le proposte pastorali nelle situazioni reali e nelle preoccupazioni concrete delle famiglie. «Itinerari e corsi di formazione destinati specificamente agli operatori pastorali potranno renderli idonei ad inserire lo stesso cammino di preparazione al matrimonio nella più ampia dinamica della vita ecclesiale».[235] Una buona preparazione pastorale è importante «anche in vista delle particolari situazioni di emergenza determinate dai casi di violenza domestica e di abuso sessuale».[236] Tutto ciò in nessun modo sminuisce, bensì integra il valore fondamentale della direzione spirituale, delle inestimabili risorse spirituali della Chiesa e della Riconciliazione sacramentale.

Guidare i fidanzati nel cammino di preparazione al matrimonio

205. I Padri sinodali hanno affermato in diversi modi che bisogna aiutare i giovani a scoprire il valore e la ricchezza del matrimonio.[237] Devono poter cogliere l’attrattiva di un’unione piena che eleva e perfeziona la dimensione sociale dell’esistenza, conferisce alla sessualità il suo senso più grande, e al tempo stesso promuove il bene dei figli e offre loro il miglior contesto per la loro maturazione ed educazione.

206. «La complessa realtà sociale e le sfide che la famiglia oggi è chiamata ad affrontare richiedono un impegno maggiore di tutta la comunità cristiana per la preparazione dei nubendi al matrimonio. È necessario ricordare l’importanza delle virtù. Tra esse la castità risulta condizione preziosa per la crescita genuina dell’amore interpersonale. Riguardo a questa necessità i Padri sinodali sono stati concordi nel sottolineare l’esigenza di un maggiore coinvolgimento dell’intera comunità privilegiando la testimonianza delle stesse famiglie, oltre che di un radicamento della preparazione al matrimonio nel cammino di iniziazione cristiana, sottolineando il nesso del matrimonio con il battesimo e gli altri sacramenti. Si è parimenti evidenziata la necessità di programmi specifici per la preparazione prossima al matrimonio che siano vera esperienza di partecipazione alla vita ecclesiale e approfondiscano i diversi aspetti della vita familiare».[238]

207. Invito le comunità cristiane a riconoscere che accompagnare il cammino di amore dei fidanzati è un bene per loro stesse. Come hanno detto bene i Vescovi d’Italia, coloro che si sposano sono per la comunità cristiana «una preziosa risorsa perché, impegnandosi con sincerità a crescere nell’amore e nel dono vicendevole, possono contribuire a rinnovare il tessuto stesso di tutto il corpo ecclesiale: la particolare forma di amicizia che essi vivono può diventare contagiosa, e far crescere nell’amicizia e nella fraternità la comunità cristiana di cui sono parte».[239] Ci sono diversi modi legittimi di organizzare la preparazione prossima al matrimonio, e ogni Chiesa locale discernerà quale sia migliore, provvedendo ad una formazione adeguata che nello stesso tempo non allontani i giovani dal sacramento. Non si tratta di dare loro tutto il Catechismo, né di saturarli con troppi argomenti. Anche in questo caso, infatti, vale che «non il molto sapere sazia e soddisfa l’anima, ma il sentire e il gustare interiormente le cose».[240] Interessa più la qualità che la quantità, e bisogna dare priorità – insieme ad un rinnovato annuncio del kerygma – a quei contenuti che, trasmessi in modo attraente e cordiale, li aiutino a impegnarsi in un percorso di tutta la vita «con animo grande e liberalità».[241]Si tratta di una sorta di “iniziazione” al sacramento del matrimonio che fornisca loro gli elementi necessari per poterlo ricevere con le migliori disposizioni e iniziare con una certa solidità la vita familiare.

208. E’ inoltre opportuno trovare i modi, attraverso le famiglie missionarie, le famiglie stesse dei fidanzati e varie risorse pastorali, per offrire una preparazione remota che faccia maturare il loro amore con un accompagnamento ricco di vicinanza e testimonianza. Sono spesso molto utili i gruppi di fidanzati e le proposte di conferenze facoltative su una varietà di temi che interessano realmente ai giovani. Comunque, sono indispensabili alcuni momenti personalizzati, dato che l’obiettivo principale è aiutare ciascuno perché impari ad amare questa persona concreta, con la quale desidera condividere tutta la vita. Imparare ad amare qualcuno non è qualcosa che si improvvisa, né può essere l’obiettivo di un breve corso previo alla celebrazione del matrimonio. In realtà, ogni persona si prepara per il matrimonio fin dalla nascita. Tutto quanto la sua famiglia gli ha dato dovrebbe permettergli di imparare dalla propria storia e renderlo capace di un impegno pieno e definitivo. Probabilmente quelli che arrivano meglio preparati a sposarsi sono coloro che hanno imparato dai propri genitori che cos’è un matrimonio cristiano, in cui entrambi si sono scelti senza condizioni e continuano a rinnovare quella decisione. In questo senso, tutte le azioni pastorali tendenti ad aiutare i coniugi a crescere nell’amore e a vivere il Vangelo nella famiglia, sono un aiuto inestimabile perché i loro figli si preparino per la loro futura vita matrimoniale. Non bisogna nemmeno dimenticare i validi contributi della pastorale popolare. Per fare un semplice esempio, ricordo il giorno di San Valentino, che in alcuni Paesi è sfruttato meglio dai commercianti che non dalla creatività dei pastori.

209. La preparazione di quanti hanno già formalizzato un fidanzamento, quando la comunità parrocchiale riesce a seguirli con buon anticipo, deve anche dare loro la possibilità di riconoscere incompatibilità e rischi. In questo modo si può arrivare ad accorgersi che non è ragionevole puntare su quella relazione, per non esporsi ad un fallimento prevedibile che avrà conseguenze molto dolorose. Il problema è che l’abbaglio iniziale porta a cercare di nascondere o di relativizzare molte cose, si evitano le divergenze, e così solamente si scacciano in avanti le difficoltà. I fidanzati dovrebbero essere stimolati e aiutati a poter esprimere ciò che ognuno si aspetta da un eventuale matrimonio, il proprio modo di intendere quello che è l’amore e l’impegno, ciò che si desidera dall’altro, il tipo di vita in comune che si vorrebbe progettare. Queste conversazioni possono aiutare a vedere che in realtà i punti di contatto sono scarsi, e che la sola attrazione reciproca non sarà sufficiente a sostenere l’unione. Nulla è più volubile, precario e imprevedibile del desiderio, e non si deve mai incoraggiare una decisione di contrarre matrimonio se non si sono approfondite altre motivazioni che conferiscano a quel patto possibilità reali di stabilità.

210. In ogni caso, se si riconoscono con chiarezza i punti deboli dell’altro, occorre avere una fiducia realistica nella possibilità di aiutarlo a sviluppare il meglio della sua persona per controbilanciare il peso delle sue fragilità, con un deciso interesse a promuoverlo come essere umano. Questo implica accettare con ferma volontà la possibilità di affrontare alcune rinunce, momenti difficili e situazioni conflittuali, e la salda decisione di prepararsi a questo. Si devono poter individuare i segnali di pericolo che potrà avere la relazione, per trovare prima di sposarsi i mezzi che permettano di affrontarli con successo. Purtroppo molti arrivano alle nozze senza conoscersi. Si sono solo divertiti insieme, hanno fatto esperienze insieme, ma non hanno affrontato la sfida di mostrare sé stessi e di imparare chi è realmente l’altro.

211. Tanto la preparazione prossima quanto l’accompagnamento più prolungato devono fare in modo che i fidanzati non vedano lo sposarsi come il termine del cammino, ma che assumano il matrimonio come una vocazione che li lancia in avanti, con la ferma e realistica decisione di attraversare insieme tutte le prove e i momenti difficili. La pastorale prematrimoniale e la pastorale matrimoniale devono essere prima di tutto una pastorale del vincolo, dove si apportino elementi che aiutino sia a maturare l’amore sia a superare i momenti duri. Questi apporti non sono unicamente convinzioni dottrinali, e nemmeno possono ridursi alle preziose risorse spirituali che sempre offre la Chiesa, ma devono essere anche percorsi pratici, consigli ben incarnati, strategie prese dall’esperienza, orientamenti psicologici. Tutto ciò configura una pedagogia dell’amore che non può ignorare la sensibilità attuale dei giovani, per poterli mobilitare interiormente. Al tempo stesso, nella preparazione dei fidanzati, si deve poter indicare loro luoghi e persone, consultori o famiglie disponibili, a cui potranno rivolgersi per cercare aiuto quando si presentassero delle difficoltà. Ma non bisogna mai dimenticare di proporre loro la Riconciliazione sacramentale, che permette di porre i peccati e gli errori della vita passata, e della stessa relazione, sotto l’influsso del perdono misericordioso di Dio e della sua forza risanatrice.

La preparazione della celebrazione

212. La preparazione prossima al matrimonio tende a concentrarsi sugli inviti, i vestiti, la festa e gli innumerevoli dettagli che consumano tanto le risorse economiche quanto le energie e la gioia. I fidanzati arrivano sfiancati e sfiniti al matrimonio, invece di dedicare le migliori energie a prepararsi come coppia per il gran passo che faranno insieme. Questa mentalità si riscontra anche in alcune unioni di fatto, che non arrivano mai al matrimonio perché pensano a festeggiamenti troppo costosi, invece di dare priorità all’amore reciproco e alla sua formalizzazione davanti agli altri. Cari fidanzati, abbiate il coraggio di essere differenti, non lasciatevi divorare dalla società del consumo e dell’apparenza. Quello che importa è l’amore che vi unisce, fortificato e santificato dalla grazia. Voi siete capaci di scegliere un festeggiamento sobrio e semplice, per mettere l’amore al di sopra di tutto. Gli operatori pastorali e tutta la comunità possono aiutare a far sì che questa priorità diventi la normalità e non l’eccezione.

213. Nella preparazione più immediata è importante illuminare gli sposi perché vivano con grande profondità la celebrazione liturgica, aiutandoli a comprendere e a vivere il senso di ciascun gesto. Ricordiamo che un impegno così grande come quello che esprime il consenso matrimoniale, e l’unione dei corpi che consuma il matrimonio, quando si tratta di due battezzati, si possono interpretare solo come segni dell’amore del Figlio di Dio fatto carne e unito con la sua Chiesa in alleanza d’amore. Nei battezzati, le parole e i gesti si trasformano in un linguaggio che manifesta la fede. Il corpo, con i significati che Dio ha voluto infondere in esso creandolo, «si trasforma nel linguaggio dei ministri del sacramento, coscienti che nel patto coniugale si manifesta e si realizza il mistero».[242]

214. A volte i fidanzati non percepiscono il peso teologico e spirituale del consenso, che illumina il significato di tutti i gesti successivi. E’ necessario evidenziare che quelle parole non possono essere ridotte al presente; esse implicano una totalità che include il futuro: «finché la morte non vi separi». Il significato del consenso mostra che «libertà e fedeltà non si oppongono, anzi piuttosto si sostengono mutuamente, tanto nelle relazioni interpersonali, come in quelle sociali. Effettivamente, pensiamo ai danni che producono, nella civiltà della comunicazione globale, l’inflazione di promesse incompiute […]. Onorare la parola data, la fedeltà alla promessa, non si possono comprare né vendere. Non si possono imporre con la forza, ma nemmeno custodire senza sacrificio».[243]

215. I Vescovi del Kenya hanno osservato che «troppo concentrati sul giorno delle nozze, i futuri sposi si dimenticano che stanno preparandosi per un impegno che dura tutta la vita».[244] Bisogna aiutare a comprendere che il sacramento non è solo un momento che poi entra a far parte del passato e dei ricordi, perché esercita la sua influenza su tutta la vita matrimoniale, in modo permanente.[245] Il significato procreativo della sessualità, il linguaggio del corpo e i gesti d’amore vissuti nella storia di una coppia di coniugi, diventano una «ininterrotta continuità del linguaggio liturgico», e «la vita coniugale diventa, in un certo senso, liturgia».[246]

216. Si può anche meditare con le letture bibliche, e arricchire la comprensione del significato degli anelli che ci si dona a vicenda, o di altri segni che fanno parte del rito. Ma non sarebbe bene che arrivino al matrimonio senza aver pregato insieme, l’uno per l’altro, chiedendo aiuto a Dio per essere fedeli e generosi, domandando insieme a Dio che cosa Lui si aspetta da loro, e anche consacrando il loro amore davanti a un’immagine di Maria. Coloro che li accompagnano nella preparazione al matrimonio dovrebbero orientarli in modo che sappiano vivere questi momenti di preghiera che possono fare loro molto bene. «La liturgia nuziale è un evento unico, che si vive nel contesto familiare e sociale di una festa. Il primo dei segni di Gesù avvenne al banchetto delle nozze di Cana: il vino buono del miracolo del Signore, che allieta la nascita di una nuova famiglia, è il vino nuovo dell’Alleanza di Cristo con gli uomini e le donne di ogni tempo. […] Frequentemente, il celebrante ha l’opportunità di rivolgersi ad un’assemblea composta da persone che partecipano poco alla vita ecclesiale o appartengono ad altra confessione cristiana o comunità religiosa. Si tratta di una preziosa occasione di annuncio del Vangelo di Cristo».[247]

Accompagnare nei primi anni della vita matrimoniale

217. Dobbiamo riconoscere come un gran valore che si comprenda che il matrimonio è una questione di amore, che si possono sposare solo coloro che si scelgono liberamente e si amano. Ciò nonostante, quando l’amore diventa una mera attrazione o una vaga affettività, questo fa sì che i coniugi soffrano una straordinaria fragilità quando l’affettività entra in crisi o quando l’attrazione fisica viene meno. Dato che queste confusioni sono frequenti, si rende indispensabile accompagnare gli sposi nei primi anni di vita matrimoniale per arricchire e approfondire la decisione consapevole e libera di appartenersi e di amarsi sino alla fine. Molte volte il tempo del fidanzamento non è sufficiente, la decisione di sposarsi si affretta per diverse ragioni, mentre, come se non bastasse, la maturazione dei giovani si è ritardata. Dunque, gli sposi novelli si trovano a dover completare quel percorso che si sarebbe dovuto realizzare durante il fidanzamento.

218. D’altro canto, desidero insistere sul fatto che una sfida della pastorale familiare è aiutare a scoprire che il matrimonio non può intendersi come qualcosa di concluso. L’unione è reale, è irrevocabile, ed è stata confermata e consacrata dal sacramento del matrimonio. Ma nell’unirsi, gli sposi diventano protagonisti, padroni della propria storia e creatori di un progetto che occorre portare avanti insieme. Lo sguardo si rivolge al futuro che bisogna costruire giorno per giorno con la grazia di Dio, e proprio per questo non si pretende dal coniuge che sia perfetto. Bisogna mettere da parte le illusioni e accettarlo così com’è: incompiuto, chiamato a crescere, in cammino. Quando lo sguardo verso il coniuge è costantemente critico, questo indica che non si è assunto il matrimonio anche come un progetto da edificare insieme, con pazienza, comprensione, tolleranza e generosità. Questo fa sì che l’amore venga sostituito a poco a poco da uno sguardo inquisitore e implacabile, dal controllo dei meriti e dei diritti di ciascuno, dalle proteste, dalla competizione e dall’autodifesa. Così diventano incapaci di sostenersi l’un l’altro per la maturazione di entrambi e per la crescita dell’unione. Ai nuovi coniugi è necessario presentare questo con chiarezza realistica fin dall’inizio, in modo che prendano coscienza del fatto che stanno incominciando. Il “sì” che si sono scambiati è l’inizio di un itinerario, con un obiettivo capace di superare ciò che potrebbero imporre le circostanze o gli ostacoli che si frapponessero. La benedizione ricevuta è una grazia e una spinta per questo cammino sempre aperto. Spesso aiuta che si mettano seduti a dialogare per elaborare il loro progetto concreto nei suoi obiettivi, nei suoi strumenti, nei suoi dettagli.

219. Ricordo un ritornello che diceva che l’acqua stagnante si corrompe, si guasta. È quanto accade quando la vita dell’amore nei primi anni del matrimonio ristagna, smette di essere in movimento, cessa di avere quella sana inquietudine che la spinge in avanti. La danza proiettata in avanti con quell’amore giovane, la danza con quegli occhi meravigliati pieni di speranza non deve fermarsi. Nel fidanzamento e nei primi anni di matrimonio la speranza è quella che ha in sé la forza del lievito, quella che fa guardare oltre le contraddizioni, i conflitti, le contingenze, quella che fa sempre vedere oltre. E’ quella che mette in moto ogni aspettativa per mantenersi in un cammino di crescita. La stessa speranza ci invita a vivere in pieno il presente, mettendo il cuore nella vita familiare, perché il modo migliore di preparare e consolidare il futuro è vivere bene il presente.

220. Il cammino implica passare attraverso diverse tappe che chiamano a donarsi con generosità: dall’impatto iniziale caratterizzato da un’attrazione marcatamente sensibile, si passa al bisogno dell’altro sentito come parte della propria vita. Da lì si passa al gusto della reciproca appartenenza, poi alla comprensione della vita intera come progetto di entrambi, alla capacità di porre la felicità dell’altro al di sopra delle proprie necessità, e alla gioia di vedere il proprio matrimonio come un bene per la società. La maturazione dell’amore implica anche imparare a “negoziare”. Non è un atteggiamento interessato o un gioco di tipo commerciale, ma in definitiva un esercizio dell’amore vicendevole, perché questa negoziazione è un intreccio di reciproche offerte e rinunce per il bene della famiglia. In ogni nuova tappa della vita matrimoniale, occorre sedersi e negoziare nuovamente gli accordi, in modo che non ci siano vincitori e vinti, ma che vincano entrambi. In casa le decisioni non si prendono unilateralmente, e i due condividono la responsabilità per la famiglia, ma ogni casa è unica e ogni sintesi matrimoniale è differente.

221. Una delle cause che portano alla rottura dei matrimoni è avere aspettative troppo alte riguardo alla vita coniugale. Quando si scopre la realtà, più limitata e problematica di quella che si aveva sognato, la soluzione non è pensare rapidamente e irresponsabilmente alla separazione, ma assumere il matrimonio come un cammino di maturazione, in cui ognuno dei coniugi è uno strumento di Dio per far crescere l’altro. È possibile il cambiamento, la crescita, lo sviluppo delle buone potenzialità che ognuno porta in sé. Ogni matrimonio è una “storia di salvezza”, e questo suppone che si parta da una fragilità che, grazie al dono di Dio e a una risposta creativa e generosa, via via lascia spazio a una realtà sempre più solida e preziosa. La missione forse più grande di un uomo e una donna nell’amore è questa: rendersi a vicenda più uomo e più donna. Far crescere è aiutare l’altro a modellarsi nella sua propria identità. Per questo l’amore è artigianale. Quando si legge il passo della Bibbia sulla creazione dell’uomo e della donna, si osserva prima Dio che plasma l’uomo (cfr Gen 2,7), poi si accorge che manca qualcosa di essenziale e plasma la donna, e allora vede la sorpresa dell’uomo: “Ah, ora sì, questa sì!”. E poi sembra di udire quello stupendo dialogo in cui l’uomo e la donna incominciano a scoprirsi a vicenda. In effetti, anche nei momenti difficili l’altro torna a sorprendere e si aprono nuove porte per ritrovarsi, come se fosse la prima volta; e in ogni nuova tappa ritornano a “plasmarsi” l’un l’altro. L’amore fa sì che uno aspetti l’altro ed eserciti la pazienza propria dell’artigiano che è stata ereditata da Dio.

222. L’accompagnamento deve incoraggiare gli sposi ad essere generosi nella comunicazione della vita. «Conformemente al carattere personale e umanamente completo dell’amore coniugale, la giusta strada per la pianificazione familiare è quella di un dialogo consensuale tra gli sposi, del rispetto dei tempi e della considerazione della dignità del partner. In questo senso l’Enciclica Humanae vitae (cfr 10-14) e l’Esortazione apostolica Familiaris consortio (cfr 14; 28-35) devono essere riscoperte al fine di ridestare la disponibilità a procreare in contrasto con una mentalità spesso ostile alla vita […]. La scelta responsabile della genitorialità presuppone la formazione della coscienza, che è “il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli è solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità” (Gaudium et spes, 16). Quanto più gli sposi cercano di ascoltare nella loro coscienza Dio e i suoi comandamenti (cfr Rm 2,15), e si fanno accompagnare spiritualmente, tanto più la loro decisione sarà intimamente libera da un arbitrio soggettivo e dall’adeguamento ai modi di comportarsi del loro ambiente».[248] Rimane valido quanto affermato con chiarezza nel Concilio Vaticano II: «I coniugi [...], di comune accordo e con sforzo comune, si formeranno un retto giudizio: tenendo conto sia del proprio bene personale che di quello dei figli, tanto di quelli nati che di quelli che si prevede nasceranno; valutando le condizioni sia materiali che spirituali della loro epoca e del loro stato di vita; e, infine, tenendo conto del bene della comunità familiare, della società temporale e della Chiesa stessa. Questo giudizio in ultima analisi lo devono formulare, davanti a Dio, gli sposi stessi».[249] D’altra parte, «il ricorso ai metodi fondati sui “ritmi naturali di fecondità” (Humanae vitae, 11) andrà incoraggiato. Si metterà in luce che “questi metodi rispettano il corpo degli sposi, incoraggiano la tenerezza fra di loro e favoriscono l’educazione di una libertà autentica” (Catechismo della Chiesa Cattolica, 2370). Va evidenziato sempre che i figli sono un meraviglioso dono di Dio, una gioia per i genitori e per la Chiesa. Attraverso di essi il Signore rinnova il mondo».[250]

Alcune risorse

223. I Padri sinodali hanno indicato che «i primi anni di matrimonio sono un periodo vitale e delicato durante il quale le coppie crescono nella consapevolezza delle sfide e del significato del matrimonio. Di qui l’esigenza di un accompagnamento pastorale che continui dopo la celebrazione del sacramento (cfr Familiaris consortio, parte III). Risulta di grande importanza in questa pastorale la presenza di coppie di sposi con esperienza. La parrocchia è considerata come il luogo dove coppie esperte possono essere messe a disposizione di quelle più giovani, con l’eventuale concorso di associazioni, movimenti ecclesiali e nuove comunità. Occorre incoraggiare gli sposi a un atteggiamento fondamentale di accoglienza del grande dono dei figli. Va sottolineata l’importanza della spiritualità familiare, della preghiera e della partecipazione all’Eucaristia domenicale, incoraggiando le coppie a riunirsi regolarmente per promuovere la crescita della vita spirituale e la solidarietà nelle esigenze concrete della vita. Liturgie, pratiche devozionali ed Eucaristie celebrate per le famiglie, soprattutto nell’anniversario del matrimonio, sono state menzionate come vitali per favorire l’evangelizzazione attraverso la famiglia». [251]

224. Questo cammino è una questione di tempo. L’amore ha bisogno di tempo disponibile e gratuito, che metta altre cose in secondo piano. Ci vuole tempo per dialogare, per abbracciarsi senza fretta, per condividere progetti, per ascoltarsi, per guardarsi, per apprezzarsi, per rafforzare la relazione. A volte il problema è il ritmo frenetico della società, o i tempi imposti dagli impegni lavorativi. Altre volte il problema è che il tempo che si passa insieme non ha qualità. Condividiamo solamente uno spazio fisico, ma senza prestare attenzione l’uno all’altro. Gli operatori pastorali e i gruppi di famiglie dovrebbero aiutare le coppie di sposi giovani o fragili a imparare ad incontrarsi in quei momenti, a fermarsi l’uno di fronte all’altro, e anche a condividere momenti di silenzio che li obblighino a sperimentare la presenza del coniuge.

225. Gli sposi che hanno una buona esperienza di “apprendistato” in questo senso possono offrire gli strumenti pratici che sono stati utili per loro: la programmazione dei momenti per stare insieme gratuitamente, i tempi di ricreazione con i figli, i vari modi di celebrare cose importanti, gli spazi di spiritualità condivisa. Ma possono anche insegnare accorgimenti che aiutano a riempire di contenuto e di significato questi momenti, per imparare a comunicare meglio. Questo è di somma importanza quando si è spenta la novità del fidanzamento. Perché quando non si sa che fare col tempo condiviso, uno o l’altro dei coniugi finirà col rifugiarsi nella tecnologia, inventerà altri impegni, cercherà altre braccia o scapperà da un’intimità scomoda.

226. I giovani sposi vanno anche stimolati a crearsi delle proprie abitudini, che offrono una sana sensazione di stabilità e di protezione, e che si costruiscono con una serie di rituali quotidiani condivisi. È buona cosa darsi sempre un bacio al mattino, benedirsi tutte le sere, aspettare l’altro e accoglierlo quando arriva, uscire qualche volta insieme, condividere le faccende domestiche. Ma nello stesso tempo, è bene interrompere le abitudini con la festa, non perdere la capacità di celebrare in famiglia, di gioire e di festeggiare le belle esperienze. Hanno bisogno di sorprendersi insieme per i doni di Dio e alimentare insieme l’entusiasmo per la vita. Quando si sa celebrare, questa capacità rinnova l’energia dell’amore, lo libera dalla monotonia e riempie di colore e di speranza le abitudini quotidiane.

227. Noi Pastori dobbiamo incoraggiare le famiglie a crescere nella fede. Per questo è bene esortare alla Confessione frequente, alla direzione spirituale, alla partecipazione ai ritiri. Ma non bisogna dimenticare di invitare a creare spazi settimanali di preghiera familiare, perché “la famiglia che prega unita resta unita”. Come pure, quando visitiamo le case, dovremmo invitare tutti i membri della famiglia a un momento per pregare gli uni per gli altri e per affidare la famiglia alle mani del Signore. Allo stesso tempo, è opportuno incoraggiare ciascuno dei coniugi a prendersi dei momenti di preghiera in solitudine davanti a Dio, perché ognuno ha le sue croci segrete. Perché non raccontare a Dio ciò che turba il cuore, o chiedergli la forza per sanare le proprie ferite e implorare la luce di cui si ha bisogno per sostenere il proprio impegno? I Padri sinodali hanno anche evidenziato che «la Parola di Dio è fonte di vita e spiritualità per la famiglia. Tutta la pastorale familiare dovrà lasciarsi modellare interiormente e formare i membri della Chiesa domestica mediante la lettura orante e ecclesiale della Sacra Scrittura. La Parola di Dio non solo è una buona novella per la vita privata delle persone, ma anche un criterio di giudizio e una luce per il discernimento delle diverse sfide con cui si confrontano i coniugi e le famiglie». [252]

228. È possibile che uno dei coniugi non sia battezzato, o che non voglia vivere gli impegni della fede. In tal caso, il desiderio dell’altro di vivere e crescere come cristiano fa sì che l’indifferenza del coniuge sia vissuta con dolore. Ciò nonostante, è possibile trovare alcuni valori comuni da poter condividere e coltivare con entusiasmo. In ogni modo, amare il coniuge non credente, dargli felicità, alleviare le sue sofferenze e condividere la vita con lui è un vero cammino di santificazione. D’altra parte, l’amore è un dono di Dio, e lì dove si diffonde fa sentire la sua forza trasformatrice, in modi a volte misteriosi, fino al punto che «il marito non credente viene reso santo dalla moglie credente e la moglie non credente viene resa santa dal marito credente» (1 Cor 7,14).

229. Le parrocchie, i movimenti, le scuole e altre istituzioni della Chiesa possono svolgere diverse mediazioni per curare e ravvivare le famiglie. Per esempio, tramite strumenti come: riunioni di coppie vicine o amiche, ritiri brevi per sposi, conferenze di specialisti su problematiche molto concrete della vita familiare, centri di consulenza matrimoniale, operatori missionari preparati per parlare con gli sposi sulle loro difficoltà e aspirazioni, consulenze su diverse situazioni familiari (dipendenze, infedeltà, violenza familiare), spazi di spiritualità, laboratori di formazione per genitori con figli problematici, assemblee familiari. La segreteria parrocchiale dovrebbe essere in grado di accogliere con cordialità e di occuparsi delle urgenze familiari, o di indirizzare facilmente verso chi possa dare aiuto. C’è anche un sostegno pastorale che si dà nei gruppi di sposi, tanto di servizio che di missione, di preghiera, di formazione o di mutuo aiuto. Questi gruppi offrono l’opportunità di dare, di vivere l’apertura della famiglia agli altri, di condividere la fede, ma al tempo stesso sono un mezzo per rafforzare i coniugi e farli crescere.

230. È vero che molte coppie di sposi spariscono dalla comunità cristiana dopo il matrimonio, ma tante volte sprechiamo alcune occasioni in cui tornano a farsi presenti, dove potremmo riproporre loro in modo attraente l’ideale del matrimonio cristiano e avvicinarli a spazi di accompagnamento: mi riferisco, per esempio, al Battesimo di un figlio, alla prima Comunione, o quando partecipano ad un funerale o al matrimonio di un parente o di un amico. Quasi tutti i coniugi riappaiono in queste occasioni, che potrebbero essere meglio valorizzate. Un’altra via di avvicinamento è la benedizione delle case, o la visita di un’immagine della Vergine, che offrono l’occasione di sviluppare un dialogo pastorale sulla situazione della famiglia. Può anche essere utile affidare a coppie più adulte il compito di seguire coppie più recenti del proprio vicinato, per incontrarle, seguirle nei loro inizi e proporre loro un percorso di crescita. Con il ritmo della vita attuale, la maggior parte degli sposi non saranno disposti a riunioni frequenti, e non possiamo ridurci a una pastorale di piccole élites. Oggi la pastorale familiare dev’essere essenzialmente missionaria, in uscita, in prossimità, piuttosto che ridursi ad essere una fabbrica di corsi ai quali pochi assistono.

Rischiarare crisi, angosce e difficoltà

231. Una parola vada a coloro che nell’amore hanno già invecchiato il vino nuovo del fidanzamento. Quando il vino si invecchia con questa esperienza del cammino, lì appare, fiorisce in tutta la sua pienezza, la fedeltà dei piccoli momenti della vita. È la fedeltà dell’attesa e della pazienza. Questa fedeltà piena di sacrifici e di gioie va come fiorendo nell’età in cui tutto diventa “stagionato” e gli occhi diventano scintillanti in contemplazione dei figli dei propri figli. Così era fin dal principio, ma ormai si è fatto consapevole, sedimentato, maturato nella sorpresa quotidiana della riscoperta giorno dopo giorno, anno dopo anno. Come insegnava san Giovanni della Croce, «gli amanti vecchi [sono] quelli già esercitati e provati». Essi sono privi «dei fervori sensibili, delle ebollizioni e dei fuochi esterni di fervore. Essi gustano ormai la soavità del vino di amore nella sostanza, già fermentato e posato dentro l’anima».[253] Questo suppone l’essere stati capaci di superare uniti le crisi e i tempi di angoscia, senza sfuggire dalle sfide e senza nascondere le difficoltà.

La sfida delle crisi

232. La storia di una famiglia è solcata da crisi di ogni genere, che sono anche parte della sua drammatica bellezza. Bisogna aiutare a scoprire che una crisi superata non porta ad una relazione meno intensa, ma a migliorare, a sedimentare e a maturare il vino dell’unione. Non si vive insieme per essere sempre meno felici, ma per imparare ad essere felici in modo nuovo, a partire dalle possibilità aperte da una nuova tappa. Ogni crisi implica un apprendistato che permette di incrementare l’intensità della vita condivisa, o almeno di trovare un nuovo senso all’esperienza matrimoniale. In nessun modo bisogna rassegnarsi a una curva discendente, a un deterioramento inevitabile, a una mediocrità da sopportare. Al contrario, quando il matrimonio si assume come un compito, che implica anche superare ostacoli, ogni crisi si percepisce come l’occasione per arrivare a bere insieme il vino migliore. È bene accompagnare i coniugi perché siano in grado di accettare le crisi che possono arrivare, raccogliere il guanto e assegnare ad esse un posto nella vita familiare. I coniugi esperti e formati devono essere disposti ad accompagnare altri in questa scoperta, in modo che le crisi non li spaventino né li portino a prendere decisioni affrettate. Ogni crisi nasconde una buona notizia che occorre saper ascoltare affinando l’udito del cuore.

233. La reazione immediata è fare resistenza davanti alla sfida di una crisi, mettersi sulla difensiva sentendo che sfugge al proprio controllo, perché mostra l’insufficienza del proprio modo di vivere, e questo dà fastidio. Allora si usa il metodo di negare i problemi, nasconderli, relativizzare la loro importanza, puntare solo sul passare del tempo. Ma ciò ritarda la soluzione e porta a consumare molta energia in un occultamento inutile che complicherà ancora di più le cose. I vincoli si vanno deteriorando e si va consolidando un isolamento che danneggia l’intimità. In una crisi non affrontata, quello che più si compromette è la comunicazione. In tal modo, a poco a poco, quella che era “la persona che amo” passa ad essere “chi mi accompagna sempre nella vita”, poi solo “il padre o la madre dei miei figli”, e alla fine un estraneo.

234. Per affrontare una crisi bisogna essere presenti. È difficile, perché a volte le persone si isolano per non mostrare quello che sentono, si fanno da parte in un silenzio meschino e ingannatore. In questi momenti occorre creare spazi per comunicare da cuore a cuore. Il problema è che diventa più difficile comunicare così in un momento di crisi se non si è mai imparato a farlo. È una vera arte che si impara in tempi di calma, per metterla in pratica nei tempi duri. Bisogna aiutare a scoprire le cause più nascoste nei cuori dei coniugi, e ad affrontarle come un parto che passerà e lascerà un nuovo tesoro. Ma le risposte alle consultazioni realizzate rilevano che in situazioni difficili o critiche la maggioranza non ricorre all’accompagnamento pastorale, perché non lo sente comprensivo, vicino, realistico, incarnato. Per questo, cerchiamo ora di accostarci alle crisi matrimoniali con uno sguardo che non ignori il loro carico di dolore e di angoscia.

235. Ci sono crisi comuni che accadono solitamente in tutti i matrimoni, come la crisi degli inizi, quando bisogna imparare a rendere compatibili le differenze e a distaccarsi dai genitori; o la crisi dell’arrivo del figlio, con le sue nuove sfide emotive; la crisi di allevare un bambino, che cambia le abitudini dei genitori; la crisi dell’adolescenza del figlio, che esige molte energie, destabilizza i genitori e a volte li oppone tra loro; la crisi del “nido vuoto”, che obbliga la coppia a guardare nuovamente a sé stessa; la crisi causata dalla vecchiaia dei genitori dei coniugi, che richiedono più presenza, più attenzioni e decisioni difficili. Sono situazioni esigenti, che provocano paure, sensi di colpa, depressioni o stanchezze che possono intaccare gravemente l’unione.

236. A queste si sommano le crisi personali che incidono sulla coppia, legate alle difficoltà economiche, di lavoro, affettive, sociali, spirituali. E si aggiungono circostanze inaspettate che possono alterare la vita familiare e che esigono un cammino di perdono e riconciliazione. Nel momento stesso in cui cerca di fare il passo del perdono, ciascuno deve domandarsi con serena umiltà se non ha creato le condizioni per esporre l’altro a commettere certi errori. Alcune famiglie soccombono quando i coniugi si accusano a vicenda, ma «l’esperienza mostra che con un aiuto adeguato e con l’azione di riconciliazione della grazia una grande percentuale di crisi matrimoniali si supera in maniera soddisfacente. Saper perdonare e sentirsi perdonati è un’esperienza fondamentale nella vita familiare».[254] «La faticosa arte della riconciliazione, che necessita del sostegno della grazia, ha bisogno della generosa collaborazione di parenti ed amici, e talvolta anche di un aiuto esterno e professionale».[255]

237. È diventato frequente che, quando uno sente di non ricevere quello che desidera, o che non si realizza quello che sognava, ciò sembra essere sufficiente per mettere fine a un matrimonio. Così non ci sarà matrimonio che duri. A volte, per decidere che tutto è finito basta una delusione, un’assenza in un momento in cui si aveva bisogno dell’altro, un orgoglio ferito o un timore indefinito. Ci sono situazioni proprie dell’inevitabile fragilità umana, alle quali si attribuisce un peso emotivo troppo grande. Per esempio, la sensazione di non essere completamente corrisposto, le gelosie, le differenze che possono emergere tra i due, l’attrazione suscitata da altre persone, i nuovi interessi che tendono a impossessarsi del cuore, i cambiamenti fisici del coniuge, e tante altre cose che, più che attentati contro l’amore, sono opportunità che invitano a ricrearlo una volta di più.

238. In queste circostanze, alcuni hanno la maturità necessaria per scegliere nuovamente l’altro come compagno di strada, al di là dei limiti della relazione, e accettano con realismo che non possa soddisfare tutti i sogni accarezzati. Evitano di considerarsi gli unici martiri, apprezzano le piccole e limitate possibilità che offre loro la vita in famiglia e puntano a rafforzare il vincolo in una costruzione che richiederà tempo e sforzo. Perché in fondo riconoscono che ogni crisi è come un nuovo “sì” che rende possibile che l’amore rinasca rafforzato, trasfigurato, maturato, illuminato. A partire da una crisi si ha il coraggio di ricercare le radici profonde di quello che sta succedendo, di negoziare di nuovo gli accordi fondamentali, di trovare un nuovo equilibrio e di percorrere insieme una nuova tappa. Con questo atteggiamento di costante apertura si possono affrontare tante situazioni difficili! In ogni caso, riconoscendo che la riconciliazione è possibile, oggi scopriamo che «un ministero dedicato a coloro la cui relazione matrimoniale si è infranta appare particolarmente urgente».[256]

Vecchie ferite

239. È comprensibile che nelle famiglie ci siano molte difficoltà quando qualcuno dei suoi membri non ha maturato il suo modo di relazionarsi, perché non ha guarito ferite di qualche fase della sua vita. La propria infanzia e la propria adolescenza vissute male sono terreno fertile per crisi personali che finiscono per danneggiare il matrimonio. Se tutti fossero persone maturate normalmente, le crisi sarebbero meno frequenti e meno dolorose. Ma il fatto è che a volte le persone hanno bisogno di realizzare a quarant’anni una maturazione arretrata che avrebbero dovuto raggiungere alla fine dell’adolescenza. A volte si ama con un amore egocentrico proprio del bambino, fissato in una fase in cui la realtà si distorce e si vive il capriccio che tutto debba girare intorno al proprio io. È un amore insaziabile, che grida e piange quando non ottiene quello che desidera. Altre volte si ama con un amore fissato ad una fase adolescenziale, segnato dal contrasto, dalla critica acida, dall’abitudine di incolpare gli altri, dalla logica del sentimento e della fantasia, dove gli altri devono riempire i nostri vuoti o sostenere i nostri capricci.

240. Molti terminano la propria infanzia senza aver mai sperimentato di essere amati incondizionatamente, e questo ferisce la loro capacità di aver fiducia e di donarsi. Una relazione mal vissuta con i propri genitori e fratelli, che non è mai stata sanata, riappare, e danneggia la vita coniugale. Dunque bisogna fare un percorso di liberazione che non si è mai affrontato. Quando la relazione tra i coniugi non funziona bene, prima di prendere decisioni importanti, conviene assicurarsi che ognuno abbia fatto questo cammino di cura della propria storia. Ciò esige di riconoscere la necessità di guarire, di chiedere con insistenza la grazia di perdonare e di perdonarsi, di accettare aiuto, di cercare motivazioni positive e di ritornare a provare sempre di nuovo. Ciascuno dev’essere molto sincero con sé stesso per riconoscere che il suo modo di vivere l’amore ha queste immaturità. Per quanto possa sembrare evidente che tutta la colpa sia dell’altro, non è mai possibile superare una crisi aspettando che solo l’altro cambi. Occorre anche interrogarsi sulle cose che uno potrebbe personalmente maturare o sanare per favorire il superamento del conflitto.

Accompagnare dopo le rotture e i divorzi

241. In alcuni casi, la considerazione della propria dignità e del bene dei figli impone di porre un limite fermo alle pretese eccessive dell’altro, a una grande ingiustizia, alla violenza o a una mancanza di rispetto diventata cronica. Bisogna riconoscere che «ci sono casi in cui la separazione è inevitabile. A volte può diventare persino moralmente necessaria, quando appunto si tratta di sottrarre il coniuge più debole, o i figli piccoli, alle ferite più gravi causate dalla prepotenza e dalla violenza, dall’avvilimento e dallo sfruttamento, dall’estraneità e dall’indifferenza».[257] Comunque «deve essere considerata come estremo rimedio, dopo che ogni altro ragionevole tentativo si sia dimostrato vano».[258]

242. I Padri hanno indicato che «un particolare discernimento è indispensabile per accompagnare pastoralmente i separati, i divorziati, gli abbandonati. Va accolta e valorizzata soprattutto la sofferenza di coloro che hanno subito ingiustamente la separazione, il divorzio o l’abbandono, oppure sono stati costretti dai maltrattamenti del coniuge a rompere la convivenza. Il perdono per l’ingiustizia subita non è facile, ma è un cammino che la grazia rende possibile. Di qui la necessità di una pastorale della riconciliazione e della mediazione attraverso anche centri di ascolto specializzati da stabilire nelle diocesi».[259] Nello stesso tempo, «le persone divorziate ma non risposate, che spesso sono testimoni della fedeltà matrimoniale, vanno incoraggiate a trovare nell’Eucaristia il cibo che le sostenga nel loro stato. La comunità locale e i Pastori devono accompagnare queste persone con sollecitudine, soprattutto quando vi sono figli o è grave la loro situazione di povertà».[260] Un fallimento matrimoniale diventa molto più traumatico e doloroso quando c’è povertà, perché si hanno molte meno risorse per riorientare l’esistenza. Una persona povera che perde l’ambiente protettivo della famiglia resta doppiamente esposta all’abbandono e a ogni tipo di rischi per la sua integrità.

243. Ai divorziati che vivono una nuova unione, è importante far sentire che sono parte della Chiesa, che “non sono scomunicati” e non sono trattati come tali, perché formano sempre la comunione ecclesiale.[261] Queste situazioni «esigono un attento discernimento e un accompagnamento di grande rispetto, evitando ogni linguaggio e atteggiamento che li faccia sentire discriminati e promovendo la loro partecipazione alla vita della comunità. Prendersi cura di loro non è per la comunità cristiana un indebolimento della sua fede e della sua testimonianza circa l’indissolubilità matrimoniale, anzi essa esprime proprio in questa cura la sua carità».[262]

244. D’altra parte, un gran numero di Padri «ha sottolineato la necessità di rendere più accessibili ed agili, possibilmente del tutto gratuite, le procedure per il riconoscimento dei casi di nullità».[263] La lentezza dei processi crea disagio e stanca le persone. I miei due recenti Documenti su tale materia[264] hanno portato ad una semplificazione delle procedure per una eventuale dichiarazione di nullità matrimoniale. Attraverso di essi ho anche voluto «rendere evidente che lo stesso Vescovo nella sua Chiesa, di cui è costituito pastore e capo, è per ciò stesso giudice tra i fedeli a lui affidati».[265] Perciò, «l’attuazione di questi documenti costituisce una grande responsabilità per gli Ordinari diocesani, chiamati a giudicare loro stessi alcune cause e, in ogni modo, ad assicurare un accesso più facile dei fedeli alla giustizia. Ciò implica la preparazione di un personale sufficiente, composto di chierici e laici, che si consacri in modo prioritario a questo servizio ecclesiale. Sarà pertanto necessario mettere a disposizione delle persone separate o delle coppie in crisi, un servizio d’informazione, di consiglio e di mediazione, legato alla pastorale familiare, che potrà pure accogliere le persone in vista dell’indagine preliminare al processo matrimoniale (cfr Mitis Iudex, art. 2-3)».[266]

245. I Padri Sinodali hanno anche messo in evidenza «le conseguenze della separazione o del divorzio sui figli, in ogni caso vittime innocenti della situazione».[267] Al di sopra di tutte le considerazioni che si vogliano fare, essi sono la prima preoccupazione, che non deve essere offuscata da nessun altro interesse o obiettivo. Ai genitori separati rivolgo questa preghiera: «Mai, mai, mai prendere il figlio come ostaggio! Vi siete separati per tante difficoltà e motivi, la vita vi ha dato questa prova, ma i figli non siano quelli che portano il peso di questa separazione, non siano usati come ostaggi contro l’altro coniuge, crescano sentendo che la mamma parla bene del papà, benché non siano insieme, e che il papà parla bene della mamma».[268] È irresponsabile rovinare l’immagine del padre o della madre con l’obiettivo di accaparrarsi l’affetto del figlio, per vendicarsi o per difendersi, perché questo danneggerà la vita interiore di quel bambino e provocherà ferite difficili da guarire.

246. La Chiesa, sebbene comprenda le situazioni conflittuali che i coniugi devono attraversare, non può cessare di essere voce dei più fragili, che sono i figli che soffrono, spesso in silenzio. Oggi, «nonostante la nostra sensibilità apparentemente evoluta, e tutte le nostre raffinate analisi psicologiche, mi domando se non ci siamo anestetizzati anche rispetto alle ferite dell’anima dei bambini. […] Sentiamo il peso della montagna che schiaccia l’anima di un bambino, nelle famiglie in cui ci si tratta male e ci si fa del male, fino a spezzare il legame della fedeltà coniugale?».[269] Queste brutte esperienze non sono di aiuto affinché quei bambini maturino per essere capaci di impegni definitivi. Per questo, le comunità cristiane non devono lasciare soli i genitori divorziati che vivono una nuova unione. Al contrario, devono includerli e accompagnarli nella loro funzione educativa. Infatti, «come potremmo raccomandare a questi genitori di fare di tutto per educare i figli alla vita cristiana, dando loro l’esempio di una fede convinta e praticata, se li tenessimo a distanza dalla vita della comunità, come se fossero scomunicati? Si deve fare in modo di non aggiungere altri pesi oltre a quelli che i figli, in queste situazioni, già si trovano a dover portare!». [270] Aiutare a guarire le ferite dei genitori e accoglierli spiritualmente, è un bene anche per i figli, i quali hanno bisogno del volto familiare della Chiesa che li accolga in questa esperienza traumatica. Il divorzio è un male, ed è molto preoccupante la crescita del numero dei divorzi. Per questo, senza dubbio, il nostro compito pastorale più importante riguardo alle famiglie, è rafforzare l’amore e aiutare a sanare le ferite, in modo che possiamo prevenire l’estendersi di questo dramma della nostra epoca.

Alcune situazioni complesse

247. «Le problematiche relative ai matrimoni misti richiedono una specifica attenzione. I matrimoni tra cattolici e altri battezzati “presentano, pur nella loro particolare fisionomia, numerosi elementi che è bene valorizzare e sviluppare, sia per il loro intrinseco valore, sia per l’apporto che possono dare al movimento ecumenico”. A tal fine “va ricercata […] una cordiale collaborazione tra il ministro cattolico e quello non cattolico, fin dal tempo della preparazione al matrimonio e delle nozze” (Familiaris consortio, 78). Circa la condivisione eucaristica si ricorda che “la decisione di ammettere o no la parte non cattolica del matrimonio alla comunione eucaristica va presa in conformità alle norme generali esistenti in materia, tanto per i cristiani orientali quanto per gli altri cristiani, e tenendo conto di questa situazione particolare, che cioè ricevono il sacramento del matrimonio cristiano due cristiani battezzati. Sebbene gli sposi di un matrimonio misto abbiano in comune i sacramenti del battesimo e del matrimonio, la condivisione dell’Eucaristia non può essere che eccezionale e, in ogni caso, vanno osservate le disposizioni indicate” (Pont. Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, Direttorio per l’Applicazione dei Principi e delle Norme sull’Ecumenismo, 25 marzo 1993, 159-160)».[271]

248. «I matrimoni con disparità di culto rappresentano un luogo privilegiato di dialogo interreligioso […] comportano alcune speciali difficoltà sia riguardo alla identità cristiana della famiglia, sia all’educazione religiosa dei figli. […] Il numero delle famiglie composte da unioni coniugali con disparità di culto, in crescita nei territori di missione e anche nei Paesi di lunga tradizione cristiana, sollecita l’urgenza di provvedere ad una cura pastorale differenziata secondo i diversi contesti sociali e culturali. In alcuni Paesi, dove la libertà di religione non esiste, il coniuge cristiano è obbligato a passare ad un’altra religione per potersi sposare, e non può celebrare il matrimonio canonico in disparità di culto né battezzare i figli. Dobbiamo ribadire pertanto la necessità che la libertà religiosa sia rispettata nei confronti di tutti».[272] «È necessario rivolgere un’attenzione particolare alle persone che si uniscono in tali matrimoni, non solo nel periodo precedente alle nozze. Sfide peculiari affrontano le coppie e le famiglie nelle quali un partner è cattolico e l’altro non credente. In tali casi è necessario testimoniare la capacità del Vangelo di calarsi in queste situazioni così da rendere possibile l’educazione alla fede cristiana dei figli».[273]

249. «Particolare difficoltà presentano le situazioni che riguardano l’accesso al battesimo di persone che si trovano in una condizione matrimoniale complessa. Si tratta di persone che hanno contratto un’unione matrimoniale stabile in un tempo in cui ancora almeno una di esse non conosceva la fede cristiana. I Vescovi sono chiamati a esercitare, in questi casi, un discernimento pastorale commisurato al loro bene spirituale».[274]

250. La Chiesa conforma il suo atteggiamento al Signore Gesù che in un amore senza confini si è offerto per ogni persona senza eccezioni.[275] Con i Padri sinodali ho preso in considerazione la situazione delle famiglie che vivono l’esperienza di avere al loro interno persone con tendenza omosessuale, esperienza non facile né per i genitori né per i figli. Perciò desideriamo anzitutto ribadire che ogni persona, indipendentemente dal proprio orientamento sessuale, va rispettata nella sua dignità e accolta con rispetto, con la cura di evitare «ogni marchio di ingiusta discriminazione»[276] e particolarmente ogni forma di aggressione e violenza. Nei riguardi delle famiglie si tratta invece di assicurare un rispettoso accompagnamento, affinché coloro che manifestano la tendenza omosessuale possano avere gli aiuti necessari per comprendere e realizzare pienamente la volontà di Dio nella loro vita.[277]

251. Nel corso del dibattito sulla dignità e la missione della famiglia, i Padri sinodali hanno osservato che «circa i progetti di equiparazione al matrimonio delle unioni tra persone omosessuali, non esiste fondamento alcuno per assimilare o stabilire analogie, neppure remote, tra le unioni omosessuali e il disegno di Dio sul matrimonio e la famiglia»; ed è inaccettabile «che le Chiese locali subiscano delle pressioni in questa materia e che gli organismi internazionali condizionino gli aiuti finanziari ai Paesi poveri all’introduzione di leggi che istituiscano il “matrimonio” fra persone dello stesso sesso».[278]

252. Le famiglie monoparentali hanno origine spesso a partire da «madri o padri biologici che non hanno voluto mai integrarsi nella vita familiare, situazioni di violenza da cui un genitore è dovuto fuggire con i figli, morte di uno dei genitori, abbandono della famiglia da parte di uno dei genitori, e altre situazioni. Qualunque sia la causa, il genitore che abita con il bambino deve trovare sostegno e conforto presso le altre famiglie che formano la comunità cristiana, così come presso gli organismi pastorali parrocchiali. Queste famiglie sono spesso ulteriormente afflitte dalla gravità dei problemi economici, dall’incertezza di un lavoro precario, dalla difficoltà per il mantenimento dei figli, dalla mancanza di una casa».[279]

Quando la morte pianta il suo pungiglione

253. A volte la vita familiare si vede interpellata dalla morte di una persona cara. Non possiamo tralasciare di offrire la luce della fede per accompagnare le famiglie che soffrono in questi momenti.[280] Abbandonare una famiglia quando una morte la ferisce sarebbe una mancanza di misericordia, perdere un’opportunità pastorale, e questo atteggiamento può chiuderci le porte per qualsiasi altra azione evangelizzatrice.

254. Comprendo l’angoscia di chi ha perso una persona molto amata, un coniuge con cui ha condiviso tante cose. Gesù stesso si è commosso e ha pianto alla veglia funebre di un amico (cfr Gv 11,33.35). E come non comprendere il lamento di chi ha perso un figlio? Infatti, «è come se si fermasse il tempo: si apre un abisso che ingoia il passato e anche il futuro. […] E a volte si arriva anche ad accusare Dio. Quanta gente – li capisco – si arrabbia con Dio».[281] «La vedovanza è un’esperienza particolarmente difficile […] alcuni mostrano di saper riversare le proprie energie con ancor più dedizione sui figli e i nipoti, trovando in questa espressione di amore una nuova missione educativa. […] Coloro che non possono contare sulla presenza di familiari a cui dedicarsi e dai quali ricevere affetto e vicinanza devono essere sostenuti dalla comunità cristiana con particolare attenzione e disponibilità, soprattutto se si trovano in condizioni di indigenza».[282]

255. In generale il lutto per i defunti può durare piuttosto a lungo, e quando un pastore vuole accompagnare questo percorso, deve adattarsi alle necessità di ognuna delle sue fasi. Tutto il percorso è solcato da domande: sulle cause della morte, su ciò che si sarebbe potuto fare, su cosa vive una persona nel momento precedente alla morte... Con un cammino sincero e paziente di preghiera e di liberazione interiore, ritorna la pace. A un certo punto del lutto occorre aiutare a scoprire che quanti abbiamo perso una persona cara abbiamo ancora una missione da compiere, e che non ci fa bene voler prolungare la sofferenza, come se questa fosse un atto di ossequio. La persona amata non ha bisogno della nostra sofferenza, né le risulta lusinghiero che roviniamo la nostra vita. Nemmeno è la migliore espressione di amore ricordarla e nominarla in ogni momento, perché significa rimanere attaccati ad un passato che non esiste più, invece di amare la persona reale che ora si trova nell’al di là. La sua presenza fisica non è più possibile, ma, se la morte è qualcosa di potente, «forte come la morte è l’amore» (Ct 8,6). L’amore possiede un’intuizione che gli permette di ascoltare senza suoni e di vedere nell’invisibile. Questo non è immaginare la persona cara così com’era, bensì poterla accettare trasformata, come è ora. Gesù risorto, quando la sua amica Maria volle abbracciarlo con forza, le chiese di non toccarlo (cfr Gv 20,17), per condurla a un incontro differente.

256. Ci consola sapere che non esiste la distruzione completa di coloro che muoiono, e la fede ci assicura che il Risorto non ci abbandonerà mai. Così possiamo impedire alla morte «di avvelenarci la vita, di rendere vani i nostri affetti, di farci cadere nel vuoto più buio».[283] La Bibbia parla di un Dio che ci ha creato per amore, e che ci ha fatto in modo tale che la nostra vita non finisce con la morte (cfr Sap 3,2-3). San Paolo ci parla di un incontro con Cristo immediatamente dopo la morte: «Ho il desiderio di lasciare questa vita per essere con Cristo» (Fil 1,23). Con Lui, dopo la morte ci aspetta ciò che Dio ha preparato per quelli che lo amano (cfr 1 Cor 2,9). Il prefazio della Liturgia dei defunti lo esprime magnificamente: «Se ci rattrista la certezza di dover morire, ci consola la promessa dell’immortalità futura. Ai tuoi fedeli, Signore, la vita non è tolta, ma trasformata». Infatti «i nostri cari non sono scomparsi nel buio del nulla: la speranza ci assicura che essi sono nelle mani buone e forti di Dio».[284]

257. Un modo di comunicare con i nostri cari che sono morti è pregare per loro. [285] Dice la Bibbia che «pregare per i defunti» è cosa «santa e devota» (2 Mac 12,44-45). Pregare per loro «può non solo aiutarli, ma anche rendere efficace la loro intercessione in nostro favore».[286] L’Apocalisse presenta i martiri mentre intercedono per coloro che soffrono ingiustizia sulla terra (cfr 6,9-11), solidali con questo mondo in cammino. Alcuni santi, prima di morire, consolavano i propri cari promettendo che sarebbero stati loro vicini per aiutarli. Santa Teresa di Lisieux sentiva di voler continuare a fare del bene dal Cielo.[287] San Domenico affermava che «sarebbe stato più utile dopo la morte, […] più potente nell’ottenere grazie».[288] Sono legami di amore,[289] perché «l’unione di coloro che sono in cammino coi fratelli morti nella pace di Cristo non è minimamente spezzata […], è consolidata dalla comunicazione dei beni spirituali».[290]

258. Se accettiamo la morte possiamo prepararci ad essa. La via è crescere nell’amore verso coloro che camminano con noi, fino al giorno in cui «non ci sarà più la morte, né lutto né lamento né affanno» (Ap 21,4). In questo modo ci prepareremo anche a ritrovare i nostri cari che sono morti. Come Gesù restituì a sua madre il figlio che era morto (cfr Lc 7,15), similmente farà con noi. Non sprechiamo energie fermandoci anni e anni nel passato. Quanto meglio viviamo su questa terra, tanto maggiore felicità potremo condividere con i nostri cari nel cielo. Quanto più riusciremo a maturare e a crescere, tanto più potremo portare cose belle al banchetto celeste.

CAPITOLO SETTIMO

RAFFORZARE L’EDUCAZIONE DEI FIGLI

259. I genitori incidono sempre sullo sviluppo morale dei loro figli, in bene e in male. Di conseguenza, la cosa migliore è che accettino questa responsabilità inevitabile e la realizzino in maniera cosciente, entusiasta, ragionevole e appropriata. Poiché questa funzione educativa delle famiglie è così importante ed è diventata molto complessa, desidero trattenermi in modo speciale su questo punto.

Dove sono i figli?

260. La famiglia non può rinunciare ad essere luogo di sostegno, di accompagnamento, di guida, anche se deve reinventare i suoi metodi e trovare nuove risorse. Ha bisogno di prospettare a che cosa voglia esporre i propri figli. A tale scopo non deve evitare di domandarsi chi sono quelli che si occupano di dare loro divertimento e intrattenimento, quelli che entrano nelle loro abitazioni attraverso gli schermi, quelli a cui li affidano per guidarli nel loro tempo libero. Soltanto i momenti che passiamo con loro, parlando con semplicità e affetto delle cose importanti, e le sane possibilità che creiamo perché possano occupare il loro tempo permetteranno di evitare una nociva invasione. C’è sempre bisogno di vigilanza. L’abbandono non fa mai bene. I genitori devono orientare e preparare i bambini e gli adolescenti affinché sappiano affrontare situazioni in cui ci possano essere, per esempio, rischi di aggressioni, di abuso o di tossicodipendenza.

261. Tuttavia l’ossessione non è educativa, e non si può avere un controllo di tutte le situazioni in cui un figlio potrebbe trovarsi a passare. Qui vale il principio per cui «il tempo è superiore allo spazio».[291] Vale a dire, si tratta di generare processi più che dominare spazi. Se un genitore è ossessionato di sapere dove si trova suo figlio e controllare tutti i suoi movimenti, cercherà solo di dominare il suo spazio. In questo modo non lo educherà, non lo rafforzerà, non lo preparerà ad affrontare le sfide. Quello che interessa principalmente è generare nel figlio, con molto amore, processi di maturazione della sua libertà, di preparazione, di crescita integrale, di coltivazione dell’autentica autonomia. Solo così quel figlio avrà in sé stesso gli elementi di cui ha bisogno per sapersi difendere e per agire con intelligenza e accortezza in circostanze difficili. Pertanto il grande interrogativo non è dove si trova fisicamente il figlio, con chi sta in questo momento, ma dove si trova in un senso esistenziale, dove sta posizionato dal punto di vista delle sue convinzioni, dei suoi obiettivi, dei suoi desideri, del suo progetto di vita. Per questo le domande che faccio ai genitori sono: «Cerchiamo di capire “dove” i figli veramente sono nel loro cammino? Dov’è realmente la loro anima, lo sappiamo? E soprattutto: lo vogliamo sapere?».[292]

262. Se la maturità fosse solo lo sviluppo di qualcosa che è già contenuto nel codice genetico, non ci sarebbe molto da fare. La prudenza, il buon giudizio e il buon senso non dipendono da fattori puramente quantitativi di crescita, ma da tutta una catena di elementi che si sintetizzano nell’interiorità della persona; per essere più precisi, al centro della sua libertà. È inevitabile che ogni figlio ci sorprenda con i progetti che scaturiscono da tale libertà, che rompa i nostri schemi, ed è bene che ciò accada. L’educazione comporta il compito di promuovere libertà responsabili, che nei punti di incrocio sappiano scegliere con buon senso e intelligenza; persone che comprendano senza riserve che la loro vita e quella della loro comunità è nelle loro mani e che questa libertà è un dono immenso.

La formazione etica dei figli

263. Anche se i genitori hanno bisogno della scuola per assicurare un’istruzione di base ai propri figli, non possono mai delegare completamente la loro formazione morale. Lo sviluppo affettivo ed etico di una persona richiede un’esperienza fondamentale: credere che i propri genitori sono degni di fiducia. Questo costituisce una responsabilità educativa: con l’affetto e la testimonianza generare fiducia nei figli, ispirare in essi un amorevole rispetto. Quando un figlio non sente più di essere prezioso per i suoi genitori nonostante sia imperfetto, o non percepisce che loro nutrono una preoccupazione sincera per lui, questo crea ferite profonde che causano molte difficoltà nella sua maturazione. Questa assenza, questo abbandono affettivo, provoca un dolore più profondo di una eventuale correzione che potrebbe ricevere per una cattiva azione.

264. Il compito dei genitori comprende una educazione della volontà e uno sviluppo di buone abitudini e di inclinazioni affettive a favore del bene. Questo implica che si presentino come desiderabili comportamenti da imparare e inclinazioni da far maturare. Ma si tratta sempre di un processo che va dall’imperfezione alla maggiore pienezza. Il desiderio di adattarsi alla società o l’abitudine di rinunciare a una soddisfazione immediata per adattarsi a una norma e assicurarsi una buona convivenza, è già in sé stesso un valore iniziale che crea disposizioni per elevarsi poi verso valori più alti. La formazione morale dovrebbe realizzarsi sempre con metodi attivi e con un dialogo educativo che coinvolga la sensibilità e il linguaggio proprio dei figli. Inoltre, questa formazione si deve attuare in modo induttivo, in modo che il figlio possa arrivare a scoprire da sé l’importanza di determinati valori, principi e norme, invece di imporgliele come verità indiscutibili.

265. Per agire bene non basta “giudicare in modo adeguato” o sapere con chiarezza che cosa si deve fare, benché ciò sia prioritario. Molte volte siamo incoerenti con le nostre convinzioni personali, persino quando esse sono solide. Per quanto la coscienza ci detti un determinato giudizio morale, a volte hanno più potere altre cose che ci attraggono, se non abbiamo acquisito che il bene colto dalla mente si radichi in noi come profonda inclinazione affettiva, come gusto per il bene che pesi più di altre attrattive e che ci faccia percepire che quanto abbiamo colto come bene lo è anche “per noi” qui ed ora. Una formazione etica efficace implica il mostrare alla persona fino a che punto convenga a lei stessa agire bene. Oggi è spesso inefficace chiedere qualcosa che esiga sforzo e rinunce, senza mostrare chiaramente il bene che con ciò si potrebbe raggiungere.

266. È necessario maturare delle abitudini. Anche le consuetudini acquisite da bambini hanno una funzione positiva, permettendo che i grandi valori interiorizzati si traducano in comportamenti esterni sani e stabili. Qualcuno può avere sentimenti socievoli e una buona disposizione verso gli altri, ma se per molto tempo non si è abituato per l’insistenza degli adulti a dire “per favore”, “permesso”, “grazie”, la sua buona disposizione interiore non si tradurrà facilmente in queste espressioni. Il rafforzamento della volontà e la ripetizione di determinate azioni costruiscono la condotta morale, e senza la ripetizione cosciente, libera e apprezzata di certi comportamenti buoni non si porta a termine l’educazione a tale condotta. Le motivazioni, o l’attrazione che proviamo verso un determinato valore, non diventano virtù senza questi atti adeguatamente motivati.

267. La libertà è qualcosa di grandioso, ma possiamo perderla. L’educazione morale è un coltivare la libertà mediante proposte, motivazioni, applicazioni pratiche, stimoli, premi, esempi, modelli, simboli, riflessioni, esortazioni, revisioni del modo di agire e dialoghi che aiutino le persone a sviluppare quei principi interiori stabili che possono muovere a compiere spontaneamente il bene. La virtù è una convinzione che si è trasformata in un principio interno e stabile dell’agire. La vita virtuosa, pertanto, costruisce la libertà, la fortifica e la educa, evitando che la persona diventi schiava di inclinazioni compulsive disumanizzanti e antisociali. Infatti la dignità umana stessa esige che ognuno «agisca secondo scelte consapevoli e libere, mosso cioè e determinato da convinzioni personali». [293]

Il valore della sanzione come stimolo

268. Ugualmente, è indispensabile sensibilizzare il bambino e l’adolescente affinché si renda conto che le cattive azioni hanno delle conseguenze. Occorre risvegliare la capacità di porsi nei panni dell’altro e di pentirsi per la sua sofferenza quando gli si è fatto del male. Alcune sanzioni – ai comportamenti antisociali aggressivi – possono conseguire in parte questa finalità. È importante orientare il bambino con fermezza a chiedere perdono e a riparare il danno causato agli altri. Quando il percorso educativo mostra i suoi frutti in una maturazione della libertà personale, il figlio stesso a un certo punto inizierà a riconoscere con gratitudine che è stato un bene per lui crescere in una famiglia e anche sopportare le esigenze imposte da tutto il processo formativo.

269. La correzione è uno stimolo quando al tempo stesso si apprezzano e si riconoscono gli sforzi e quando il figlio scopre che i suoi genitori mantengono viva una paziente fiducia. Un bambino corretto con amore si sente considerato, percepisce che è qualcuno, avverte che i suoi genitori riconoscono le sue potenzialità. Questo non richiede che i genitori siano immacolati, ma che sappiano riconoscere con umiltà i propri limiti e mostrino il loro personale sforzo di essere migliori. Ma una testimonianza di cui i figli hanno bisogno da parte dei genitori è che non si lascino trasportare dall’ira. Il figlio che commette una cattiva azione, deve essere corretto, ma mai come un nemico o come uno su cui si scarica la propria aggressività. Inoltre un adulto deve riconoscere che alcune azioni cattive sono legate alle fragilità e ai limiti propri dell’età. Per questo sarebbe nocivo un atteggiamento costantemente sanzionatorio, che non aiuterebbe a percepire la differente gravità delle azioni e provocherebbe scoraggiamento e irritazione: «Padri, non esasperate i vostri figli» (Ef 6,4; cfr Col 3,21).

270. La cosa fondamentale è che la disciplina non si tramuti in una mutilazione del desiderio, ma in uno stimolo per andare sempre oltre. Come integrare disciplina e dinamismo interiore? Come far sì che la disciplina sia un limite costruttivo del cammino che deve intraprendere un bambino e non un muro che lo annulli o una dimensione dell’educazione che lo inibisca? Bisogna saper trovare un equilibrio tra due estremi ugualmente nocivi: uno sarebbe pretendere di costruire un mondo a misura dei desideri del figlio, che cresce sentendosi soggetto di diritti ma non di responsabilità. L’altro estremo sarebbe portarlo a vivere senza consapevolezza della sua dignità, della sua identità singolare e dei suoi diritti, torturato dai doveri e sottomesso a realizzare i desideri altrui.

Paziente realismo

271. L’educazione morale implica chiedere a un bambino o a un giovane solo quelle cose che non rappresentino per lui un sacrificio sproporzionato, esigere solo quella dose di sforzo che non provochi risentimento o azioni puramente forzate. Il percorso ordinario è proporre piccoli passi che possano essere compresi, accettati e apprezzati, e comportino una rinuncia proporzionata. Diversamente, per chiedere troppo, non si ottiene nulla. La persona, appena potrà liberarsi dell’autorità, probabilmente smetterà di agire bene.

272. La formazione etica a volte provoca disprezzo dovuto a esperienze di abbandono, di delusione, di carenza affettiva, o ad una cattiva immagine dei genitori. Si proiettano sui valori etici le immagini distorte delle figure del padre e della madre, o le debolezze degli adulti. Per questo bisogna aiutare gli adolescenti a mettere in pratica l’analogia: i valori sono compiuti particolarmente da alcune persone molto esemplari, ma si realizzano anche in modo imperfetto e in diversi gradi. Nello stesso tempo, poiché le resistenze dei giovani sono molto legate a esperienze negative, bisogna aiutarli a percorrere una via di guarigione di questo mondo interiore ferito, così che possano accedere alla comprensione e alla riconciliazione con le persone e con la società.

273. Quando si propongono i valori, bisogna procedere a poco a poco, progredire in modi diversi a seconda dell’età e delle possibilità concrete delle persone, senza pretendere di applicare metodologie rigide e immutabili. I contributi preziosi della psicologia e delle scienze dell’educazione mostrano che occorre un processo graduale nell’acquisizione di cambiamenti di comportamento, ma anche che la libertà ha bisogno di essere incanalata e stimolata, perché abbandonata a sé stessa non può garantire la propria maturazione. La libertà situata, reale, è limitata e condizionata. Non è una pura capacità di scegliere il bene con totale spontaneità. Non sempre si distingue adeguatamente tra atto “volontario” e atto “libero”. Qualcuno può volere qualcosa di malvagio con una grande forza di volontà, ma a causa di una passione irresistibile o di una cattiva educazione. In tal caso, la sua decisione è fortemente volontaria, non contraddice l’inclinazione del suo volere, ma non è libera, perché le risulta quasi impossibile non scegliere quel male. È ciò che accade con un dipendente compulsivo dalla droga. Quando la desidera lo fa con tutte le sue forze, ma è talmente condizionato che per il momento non è capace di prendere una decisione diversa. Pertanto la sua decisione è volontaria, ma non libera. Non ha senso “lasciare che scelga con libertà”, poiché di fatto non può scegliere, ed esporlo alla droga non fa altro che aumentare la dipendenza. Ha bisogno dell’aiuto degli altri e di un percorso educativo.

La vita familiare come contesto educativo

274. La famiglia è la prima scuola dei valori umani, dove si impara il buon uso della libertà. Ci sono inclinazioni maturate nell’infanzia che impregnano il profondo di una persona e permangono per tutta la vita come un’emozione favorevole nei confronti di un valore o come un rifiuto spontaneo di determinati comportamenti. Molte persone agiscono per tutta la vita in una certa maniera perché considerano valido quel modo di agire che hanno assimilato dall’infanzia, come per osmosi: “A me hanno insegnato così”; “questo è ciò che mi hanno inculcato”. Nell’ambito familiare si può anche imparare a discernere in modo critico i messaggi dei vari mezzi di comunicazione. Purtroppo, molte volte alcuni programmi televisivi o alcune forme di pubblicità incidono negativamente e indeboliscono valori ricevuti nella vita familiare.

275. Nell’epoca attuale, in cui regnano l’ansietà e la fretta tecnologica, compito importantissimo delle famiglie è educare alla capacità di attendere. Non si tratta di proibire ai ragazzi di giocare con i dispositivi elettronici, ma di trovare il modo di generare in loro la capacità di differenziare le diverse logiche e di non applicare la velocità digitale a ogni ambito della vita. Rimandare non è negare il desiderio, ma differire la sua soddisfazione. Quando i bambini o gli adolescenti non sono educati ad accettare che alcune cose devono aspettare, diventano prepotenti, sottomettono tutto alla soddisfazione delle proprie necessità immediate e crescono con il vizio del “tutto e subito”. Questo è un grande inganno che non favorisce la libertà, ma la intossica. Invece, quando si educa ad imparare a posporre alcune cose e ad aspettare il momento adatto, si insegna che cosa significa essere padrone di sé stesso, autonomo davanti ai propri impulsi. Così, quando il bambino sperimenta che può farsi carico di sé stesso, arricchisce la propria autostima. Al tempo stesso, questo gli insegna a rispettare la libertà degli altri. Naturalmente ciò non significa pretendere dai bambini che agiscano come adulti, ma nemmeno bisogna disprezzare la loro capacità di crescere nella maturazione di una libertà responsabile. In una famiglia sana, questo apprendistato si attua in maniera ordinaria attraverso le esigenze della convivenza.

276. La famiglia è l’ambito della socializzazione primaria, perché è il primo luogo in cui si impara a collocarsi di fronte all’altro, ad ascoltare, a condividere, a sopportare, a rispettare, ad aiutare, a convivere. Il compito educativo deve suscitare il sentimento del mondo e della società come “ambiente familiare”, è un’educazione al saper “abitare”, oltre i limiti della propria casa. Nel contesto familiare si insegna a recuperare la prossimità, il prendersi cura, il saluto. Lì si rompe il primo cerchio del mortale egoismo per riconoscere che viviamo insieme ad altri, con altri, che sono degni della nostra attenzione, della nostra gentilezza, del nostro affetto. Non c’è legame sociale senza questa prima dimensione quotidiana, quasi microscopica: lo stare insieme nella prossimità, incrociandoci in diversi momenti della giornata, preoccupandoci di quello che interessa tutti, soccorrendoci a vicenda nelle piccole cose quotidiane. La famiglia deve inventare ogni giorno nuovi modi di promuovere il riconoscimento reciproco.

277. Nell’ambiente familiare si possono anche reimpostare le abitudini di consumo per provvedere insieme alla casa comune: «La famiglia è il soggetto protagonista di un’ecologia integrale, perché è il soggetto sociale primario, che contiene al proprio interno i due principi-base della civiltà umana sulla terra: il principio di comunione e il principio di fecondità».[294] Ugualmente, i momenti difficili e duri della vita familiare possono essere molto educativi. È ciò che accade, per esempio, quando sopraggiunge una malattia, perché «di fronte alla malattia, anche in famiglia sorgono difficoltà, a causa della debolezza umana. Ma, in genere, il tempo della malattia fa crescere la forza dei legami familiari. […] Un’educazione che tiene al riparo dalla sensibilità per la malattia umana, inaridisce il cuore. E fa sì che i ragazzi siano “anestetizzati” verso la sofferenza altrui, incapaci di confrontarsi con la sofferenza e di vivere l’esperienza del limite».[295]

278. L’incontro educativo tra genitori e figli può essere facilitato o compromesso dalle tecnologie della comunicazione e del divertimento, sempre più sofisticate. Quando sono ben utilizzate possono essere utili per collegare i membri della famiglia malgrado la distanza. I contatti possono essere frequenti e aiutare a risolvere difficoltà.[296] Deve però essere chiaro che non sostituiscono né rimpiazzano la necessità del dialogo più personale e profondo che richiede il contatto fisico, o almeno, la voce dell’altra persona. Sappiamo che a volte questi mezzi allontanano invece di avvicinare, come quando nell’ora del pasto ognuno è concentrato sul suo telefono mobile, o come quando uno dei coniugi si addormenta aspettando l’altro, che passa ore alle prese con qualche dispositivo elettronico. In famiglia, anche questo dev’essere motivo di dialogo e di accordi, che permettano di dare priorità all’incontro dei suoi membri senza cadere in divieti insensati. Comunque, non si possono ignorare i rischi delle nuove forme di comunicazione per i bambini e gli adolescenti, che a volte ne sono resi abulici, scollegati dal mondo reale. Questo “autismo tecnologico” li espone più facilmente alla manipolazione di quanti cercano di entrare nella loro intimità con interessi egoistici.

279. Non è bene neppure che i genitori diventino esseri onnipotenti per i propri figli, che potrebbero aver fiducia solo in loro, perché così impediscono un adeguato processo di socializzazione e di maturazione affettiva. Per rendere efficace il prolungamento della paternità e della maternità verso una realtà più ampia, «le comunità cristiane sono chiamate ad offrire sostegno alla missione educativa delle famiglie»,[297] in modo particolare attraverso la catechesi di iniziazione. Per favorire un’educazione integrale abbiamo bisogno di «ravvivare l’alleanza tra la famiglie e la comunità cristiana».[298] Il Sinodo ha voluto evidenziare l’importanza delle scuole cattoliche, che «svolgono una funzione vitale nell’assistere i genitori nel loro dovere di educare i figli. […] Le scuole cattoliche dovrebbero essere incoraggiate nella loro missione di aiutare gli alunni a crescere come adulti maturi che possono vedere il mondo attraverso lo sguardo di amore di Gesù e che comprendono la vita come una chiamata a servire Dio». [299] In tal senso, «vanno affermati con decisione la libertà della Chiesa di insegnare la propria dottrina e il diritto all’obiezione di coscienza da parte degli educatori».[300]

Sì all’educazione sessuale

280. Il Concilio Vaticano II prospettava la necessità di «una positiva e prudente educazione sessuale» che raggiungesse i bambini e gli adolescenti «man mano che cresce la loro età» e «tenuto conto del progresso della psicologia, della pedagogia e della didattica».[301] Dovremmo domandarci se le nostre istituzioni educative hanno assunto questa sfida. È difficile pensare l’educazione sessuale in un’epoca in cui si tende a banalizzare e impoverire la sessualità. Si potrebbe intenderla solo nel quadro di una educazione all’amore, alla reciproca donazione. In tal modo il linguaggio della sessualità non si vede tristemente impoverito, ma illuminato. L’impulso sessuale può essere coltivato in un percorso di conoscenza di sé e nello sviluppo di una capacità di dominio di sé, che possano aiutare a far emergere capacità preziose di gioia e di incontro amoroso.

281. L’educazione sessuale offre informazione, ma senza dimenticare che i bambini e i giovani non hanno raggiunto una maturità piena. L’informazione deve arrivare nel momento appropriato e in un modo adatto alla fase che vivono. Non serve riempirli di dati senza lo sviluppo di un senso critico davanti a una invasione di proposte, davanti alla pornografia senza controllo e al sovraccarico di stimoli che possono mutilare la sessualità. I giovani devono potersi rendere conto che sono bombardati da messaggi che non cercano il loro bene e la loro maturità. Occorre aiutarli a riconoscere e a cercare le influenze positive, nel tempo stesso in cui prendono le distanze da tutto ciò che deforma la loro capacità di amare. Ugualmente, dobbiamo accettare che «il bisogno di un nuovo e più adeguato linguaggio si presenta innanzitutto nel momento di introdurre i bambini e gli adolescenti al tema della sessualità».[302]

282. Un’educazione sessuale che custodisca un sano pudore ha un valore immenso, anche se oggi alcuni ritengono che sia una cosa di altri tempi. È una difesa naturale della persona che protegge la propria interiorità ed evita di trasformarsi in un puro oggetto. Senza il pudore, possiamo ridurre l’affetto e la sessualità a ossessioni che ci concentrano solo sulla genitalità, su morbosità che deformano la nostra capacità di amare e su diverse forme di violenza sessuale che ci portano ad essere trattati in modo inumano o a danneggiare gli altri.

283. Frequentemente l’educazione sessuale si concentra sull’invito a “proteggersi”, cercando un “sesso sicuro”. Queste espressioni trasmettono un atteggiamento negativo verso la naturale finalità procreativa della sessualità, come se un eventuale figlio fosse un nemico dal quale doversi proteggere. Così si promuove l’aggressività narcisistica invece dell’accoglienza. È irresponsabile ogni invito agli adolescenti a giocare con i loro corpi e i loro desideri, come se avessero la maturità, i valori, l’impegno reciproco e gli obiettivi propri del matrimonio. Così li si incoraggia allegramente ad utilizzare l’altra persona come oggetto di esperienze per compensare carenze e grandi limiti. E’ importante invece insegnare un percorso sulle diverse espressioni dell’amore, sulla cura reciproca, sulla tenerezza rispettosa, sulla comunicazione ricca di senso. Tutto questo, infatti, prepara ad un dono di sé integro e generoso che si esprimerà, dopo un impegno pubblico, nell’offerta dei corpi. L’unione sessuale nel matrimonio apparirà così come segno di un impegno totalizzante, arricchito da tutto il cammino precedente.

284. Non bisogna ingannare i giovani portandoli a confondere i piani: l’attrazione «crea, sul momento, un’illusione di unione, eppure senza amore questa “unione” lascia due esseri estranei e divisi come prima».[303] Il linguaggio del corpo richiede il paziente apprendistato che permette di interpretare ed educare i propri desideri per donarsi veramente. Quando si pretende di donare tutto in un colpo è possibile che non si doni nulla. Una cosa è comprendere le fragilità dell’età o le sue confusioni, altra cosa è incoraggiare gli adolescenti a prolungare l’immaturità del loro modo di amare. Ma chi parla oggi di queste cose? Chi è capace di prendere sul serio i giovani? Chi li aiuta a prepararsi seriamente per un amore grande e generoso? Si prende troppo alla leggera l’educazione sessuale.

285. L’educazione sessuale dovrebbe comprendere anche il rispetto e la stima della differenza, che mostra a ciascuno la possibilità di superare la chiusura nei propri limiti per aprirsi all’accettazione dell’altro. Al di là delle comprensibili difficoltà che ognuno possa vivere, occorre aiutare ad accettare il proprio corpo così come è stato creato, perché «una logica di dominio sul proprio corpo si trasforma in una logica a volte sottile di dominio sul creato […] Anche apprezzare il proprio corpo nella sua femminilità o mascolinità è necessario per poter riconoscere se stessi nell’incontro con l’altro diverso da sé. In tal modo è possibile accettare con gioia il dono specifico dell’altro o dell’altra, opera di Dio creatore, e arricchirsi reciprocamente».[304] Solo abbandonando la paura verso la differenza si può giungere a liberarsi dall’immanenza del proprio essere e dal fascino per sé stessi. L’educazione sessuale deve aiutare ad accettare il proprio corpo, in modo che la persona non pretenda di «cancellare la differenza sessuale perché non sa più confrontarsi con essa».[305]

286. Non si può nemmeno ignorare che nella configurazione del proprio modo di essere, femminile o maschile, non confluiscono solamente fattori biologici o genetici, ma anche molteplici elementi relativi al temperamento, alla storia familiare, alla cultura, alle esperienze vissute, alla formazione ricevuta, alle influenze di amici, familiari e persone ammirate, e ad altre circostanze concrete che esigono uno sforzo di adattamento. È vero che non possiamo separare ciò che è maschile e femminile dall’opera creata da Dio, che è anteriore a tutte le nostre decisioni ed esperienze e dove ci sono elementi biologici che è impossibile ignorare. Però è anche vero che il maschile e il femminile non sono qualcosa di rigido. Perciò è possibile, ad esempio, che il modo di essere maschile del marito possa adattarsi con flessibilità alla condizione lavorativa della moglie. Farsi carico di compiti domestici o di alcuni aspetti della crescita dei figli non lo rendono meno maschile, né significano un fallimento, un cedimento o una vergogna. Bisogna aiutare i bambini ad accettare come normali questi sani “interscambi”, che non tolgono alcuna dignità alla figura paterna. La rigidità diventa una esagerazione del maschile o del femminile, e non educa i bambini e i giovani alla reciprocità incarnata nelle condizioni reali del matrimonio. Questa rigidità, a sua volta, può impedire lo sviluppo delle capacità di ciascuno, fino al punto di arrivare a considerare come poco maschile dedicarsi all’arte o alla danza e poco femminile svolgere un incarico di guida. Questo, grazie a Dio, è cambiato, ma in alcuni luoghi certe concezioni inadeguate continuano a condizionare la legittima libertà e a mutilare l’autentico sviluppo dell’identità concreta dei figli e delle loro potenzialità.

Trasmettere la fede

287. L’educazione dei figli dev’essere caratterizzata da un percorso di trasmissione della fede, che è reso difficile dallo stile di vita attuale, dagli orari di lavoro, dalla complessità del mondo di oggi, in cui molti, per sopravvivere, sostengono ritmi frenetici.[306] Ciò nonostante, la famiglia deve continuare ad essere il luogo dove si insegna a cogliere le ragioni e la bellezza della fede, a pregare e a servire il prossimo. Questo inizia con il Battesimo, nel quale, come diceva sant’Agostino, le madri che portano i propri figli «cooperano al parto santo».[307] Poi inizia il cammino della crescita di quella vita nuova. La fede è dono di Dio, ricevuto nel Battesimo, e non è il risultato di un’azione umana, però i genitori sono strumento di Dio per la sua maturazione e il suo sviluppo. Perciò «è bello quando le mamme insegnano ai figli piccoli a mandare un bacio a Gesù o alla Vergine. Quanta tenerezza c’è in quel gesto! In quel momento il cuore dei bambini si trasforma in spazio di preghiera».[308] La trasmissione della fede presuppone che i genitori vivano l’esperienza reale di avere fiducia in Dio, di cercarlo, di averne bisogno, perché solo in questo modo «una generazione narra all’altra le tue opere, annuncia le tue imprese» (Sal 144,4) e «il padre farà conoscere ai figli la tua fedeltà» (Is 38,19). Questo richiede che invochiamo l’azione di Dio nei cuori, là dove non possiamo arrivare. Il granello di senape, seme tanto piccolo, diventa un grande arbusto (cfr Mt 13,31-32), e così riconosciamo la sproporzione tra l’azione e il suo effetto. Allora sappiamo che non siamo padroni del dono ma suoi amministratori premurosi. Tuttavia il nostro impegno creativo è un contributo che ci permette di collaborare con l’iniziativa di Dio. Pertanto, «si abbia cura di valorizzare le coppie, le madri e i padri, come soggetti attivi della catechesi […]. È di grande aiuto la catechesi familiare, in quanto metodo efficace per formare i giovani genitori e per renderli consapevoli della loro missione come evangelizzatori della propria famiglia».[309]

288. L’educazione alla fede sa adattarsi a ciascun figlio, perché gli strumenti già imparati o le ricette a volte non funzionano. I bambini hanno bisogno di simboli, di gesti, di racconti. Gli adolescenti solitamente entrano in crisi con l’autorità e con le norme, per cui conviene stimolare le loro personali esperienze di fede e offrire loro testimonianze luminose che si impongano per la loro stessa bellezza. I genitori che vogliono accompagnare la fede dei propri figli sono attenti ai loro cambiamenti, perché sanno che l’esperienza spirituale non si impone ma si propone alla loro libertà. È fondamentale che i figli vedano in maniera concreta che per i loro genitori la preghiera è realmente importante. Per questo i momenti di preghiera in famiglia e le espressioni della pietà popolare possono avere maggior forza evangelizzatrice di tutte le catechesi e tutti i discorsi. Desidero esprimere in modo speciale la mia gratitudine a tutte le madri che pregano incessantemente, come faceva santa Monica, per i figli che si sono allontanati da Cristo.

289. L’esercizio di trasmettere ai figli la fede, nel senso di facilitare la sua espressione e la sua crescita, permette che la famiglia diventi evangelizzatrice, e che spontaneamente inizi a trasmetterla a tutti coloro che le si accostano, anche al di fuori dello stesso ambiente familiare. I figli che crescono in famiglie missionarie spesso diventano missionari, se i genitori sanno vivere questo compito in modo tale che gli altri li sentano vicini e amichevoli, e così che i figli crescano in questo stile di relazione con il mondo, senza rinunciare alla propria fede e alle proprie convinzioni. Ricordiamo che Gesù stesso mangiava e beveva con i peccatori (cfr Mc 2,16; Mt 11,19), poteva fermarsi a conversare con la samaritana (cfr Gv 4,7-26), e ricevere Nicodemo di notte (cfr Gv 3,1-21), si lasciava ungere i piedi da una donna prostituta (cfr Lc 7,36-50), e non esitava a toccare i malati (cfr Mc 1,40-45; 7,33). Lo stesso facevano i suoi apostoli, che non erano persone sprezzanti verso gli altri, reclusi in piccoli gruppi di eletti, isolati dalla vita della gente. Mentre le autorità li perseguitavano, loro godevano della simpatia di tutto il popolo (cfr At 2,47; 4,21.33; 5,13).

290. «La famiglia si costituisce così come soggetto dell’azione pastorale attraverso l’annuncio esplicito del Vangelo e l’eredità di molteplici forme di testimonianza: la solidarietà verso i poveri, l’apertura alla diversità delle persone, la custodia del creato, la solidarietà morale e materiale verso le altre famiglie soprattutto verso le più bisognose, l’impegno per la promozione del bene comune anche mediante la trasformazione delle strutture sociali ingiuste, a partire dal territorio nel quale essa vive, praticando le opere di misericordia corporale e spirituale».[310] Ciò va collocato nel quadro della convinzione più preziosa dei cristiani: l’amore del Padre che ci sostiene e ci fa crescere, manifestato nel dono totale di Gesù, vivo tra noi, che ci rende capaci di affrontare uniti tutte le tempeste e tutte le fasi della vita. Anche nel cuore di ogni famiglia bisogna far risuonare il kerygma, in ogni occasione opportuna e non opportuna, perché illumini il cammino. Tutti dovremmo poter dire, a partire dal vissuto nelle nostre famiglie: «Noi abbiamo creduto all’amore che Dio ha per noi» (1 Gv 4,16). Solo a partire da questa esperienza, la pastorale familiare potrà ottenere che le famiglie siano al tempo stesso Chiese domestiche e fermento evangelizzatore nella società.

CAPITOLO OTTAVO

ACCOMPAGNARE, DISCERNERE E INTEGRARE LA FRAGILITÀ

291. I Padri sinodali hanno affermato che, nonostante la Chiesa ritenga che ogni rottura del vincolo matrimoniale «è contro la volontà di Dio, è anche consapevole della fragilità di molti suoi figli».[311] Illuminata dallo sguardo di Cristo, «la Chiesa si volge con amore a coloro che partecipano alla sua vita in modo incompiuto, riconoscendo che la grazia di Dio opera anche nelle loro vite dando loro il coraggio per compiere il bene, per prendersi cura con amore l’uno dell’altro ed essere a servizio della comunità nella quale vivono e lavorano».[312] D’altra parte, questo atteggiamento risulta rafforzato nel contesto di un Anno Giubilare dedicato alla misericordia. Benché sempre proponga la perfezione e inviti a una risposta più piena a Dio, «la Chiesa deve accompagnare con attenzione e premura i suoi figli più fragili, segnati dall’amore ferito e smarrito, ridonando fiducia e speranza, come la luce del faro di un porto o di una fiaccola portata in mezzo alla gente per illuminare coloro che hanno smarrito la rotta o si trovano in mezzo alla tempesta».[313]

Non dimentichiamo che spesso il lavoro della Chiesa assomiglia a quello di un ospedale da campo.

292. Il matrimonio cristiano, riflesso dell’unione tra Cristo e la sua Chiesa, si realizza pienamente nell’unione tra un uomo e una donna, che si donano reciprocamente in un amore esclusivo e nella libera fedeltà, si appartengono fino alla morte e si aprono alla trasmissione della vita, consacrati dal sacramento che conferisce loro la grazia per costituirsi come Chiesa domestica e fermento di vita nuova per la società. Altre forme di unione contraddicono radicalmente questo ideale, mentre alcune lo realizzano almeno in modo parziale e analogo. I Padri sinodali hanno affermato che la Chiesa non manca di valorizzare gli elementi costruttivi in quelle situazioni che non corrispondono ancora o non più al suo insegnamento sul matrimonio.[314]

La gradualità nella pastorale

293. I Padri hanno anche considerato la situazione particolare di un matrimonio solo civile o, fatte salve le differenze, persino di una semplice convivenza in cui, «quando l’unione raggiunge una notevole stabilità attraverso un vincolo pubblico, è connotata da affetto profondo, da responsabilità nei confronti della prole, da capacità di superare le prove, può essere vista come un’occasione da accompagnare nello sviluppo verso il sacramento del matrimonio».[315] D’altra parte è preoccupante che molti giovani oggi non abbiano fiducia nel matrimonio e convivano rinviando indefinitamente l’impegno coniugale, mentre altri pongono fine all’impegno assunto e immediatamente ne instaurano uno nuovo. Coloro «che fanno parte della Chiesa hanno bisogno di un’attenzione pastorale misericordiosa e incoraggiante».[316] Infatti, ai Pastori compete non solo la promozione del matrimonio cristiano, ma anche «il discernimento pastorale delle situazioni di tanti che non vivono più questa realtà», per «entrare in dialogo pastorale con tali persone al fine di evidenziare gli elementi della loro vita che possono condurre a una maggiore apertura al Vangelo del matrimonio nella sua pienezza».[317] Nel discernimento pastorale conviene «identificare elementi che possono favorire l’evangelizzazione e la crescita umana e spirituale».[318]

294. «La scelta del matrimonio civile o, in diversi casi, della semplice convivenza, molto spesso non è motivata da pregiudizi o resistenze nei confronti dell’unione sacramentale, ma da situazioni culturali o contingenti».[319] In queste situazioni potranno essere valorizzati quei segni di amore che in qualche modo riflettono l’amore di Dio.[320] Sappiamo che «è in continua crescita il numero di coloro che, dopo aver vissuto insieme per lungo tempo, chiedono la celebrazione del matrimonio in chiesa. La semplice convivenza è spesso scelta a causa della mentalità generale contraria alle istituzioni e agli impegni definitivi, ma anche per l’attesa di una sicurezza esistenziale (lavoro e salario fisso). In altri Paesi, infine, le unioni di fatto sono molto numerose, non solo per il rigetto dei valori della famiglia e del matrimonio, ma soprattutto per il fatto che sposarsi è percepito come un lusso, per le condizioni sociali, così che la miseria materiale spinge a vivere unioni di fatto».[321] Comunque, «tutte queste situazioni vanno affrontate in maniera costruttiva, cercando di trasformarle in opportunità di cammino verso la pienezza del matrimonio e della famiglia alla luce del Vangelo. Si tratta di accoglierle e accompagnarle con pazienza e delicatezza».[322] È quello che ha fatto Gesù con la samaritana (cfr Gv 4,1-26): rivolse una parola al suo desiderio di amore vero, per liberarla da tutto ciò che oscurava la sua vita e guidarla alla gioia piena del Vangelo.

295. In questa linea, san Giovanni Paolo II proponeva la cosiddetta “legge della gradualità”, nella consapevolezza che l’essere umano «conosce, ama e realizza il bene morale secondo tappe di crescita».[323] Non è una “gradualità della legge”, ma una gradualità nell’esercizio prudenziale degli atti liberi in soggetti che non sono in condizione di comprendere, di apprezzare o di praticare pienamente le esigenze oggettive della legge. Perché anche la legge è dono di Dio che indica la strada, dono per tutti senza eccezione che si può vivere con la forza della grazia, anche se ogni essere umano «avanza gradualmente con la progressiva integrazione dei doni di Dio e delle esigenze del suo amore definitivo ed assoluto nell’intera vita personale e sociale dell’uomo».[324]

Il discernimento delle situazioni dette “irregolari” [325]

296. Il Sinodo si è riferito a diverse situazioni di fragilità o di imperfezione. Al riguardo, desidero qui ricordare ciò che ho voluto prospettare con chiarezza a tutta la Chiesa perché non ci capiti di sbagliare strada: «due logiche percorrono tutta la storia della Chiesa: emarginare e reintegrare […]. La strada della Chiesa, dal Concilio di Gerusalemme in poi, è sempre quella di Gesù: della misericordia e dell’integrazione […]. La strada della Chiesa è quella di non condannare eternamente nessuno; di effondere la misericordia di Dio a tutte le persone che la chiedono con cuore sincero […]. Perché la carità vera è sempre immeritata, incondizionata e gratuita!».[326] Pertanto, «sono da evitare giudizi che non tengono conto della complessità delle diverse situazioni, ed è necessario essere attenti al modo in cui le persone vivono e soffrono a motivo della loro condizione».[327]

297. Si tratta di integrare tutti, si deve aiutare ciascuno a trovare il proprio modo di partecipare alla comunità ecclesiale, perché si senta oggetto di una misericordia “immeritata, incondizionata e gratuita”. Nessuno può essere condannato per sempre, perché questa non è la logica del Vangelo! Non mi riferisco solo ai divorziati che vivono una nuova unione, ma a tutti, in qualunque situazione si trovino. Ovviamente, se qualcuno ostenta un peccato oggettivo come se facesse parte dell’ideale cristiano, o vuole imporre qualcosa di diverso da quello che insegna la Chiesa, non può pretendere di fare catechesi o di predicare, e in questo senso c’è qualcosa che lo separa dalla comunità (cfr Mt 18,17). Ha bisogno di ascoltare nuovamente l’annuncio del Vangelo e l’invito alla conversione. Ma perfino per questa persona può esserci qualche maniera di partecipare alla vita della comunità: in impegni sociali, in riunioni di preghiera, o secondo quello che la sua personale iniziativa, insieme al discernimento del Pastore, può suggerire. Riguardo al modo di trattare le diverse situazioni dette “irregolari”, i Padri sinodali hanno raggiunto un consenso generale, che sostengo: «In ordine ad un approccio pastorale verso le persone che hanno contratto matrimonio civile, che sono divorziati e risposati, o che semplicemente convivono, compete alla Chiesa rivelare loro la divina pedagogia della grazia nella loro vita e aiutarle a raggiungere la pienezza del piano di Dio in loro»,[328] sempre possibile con la forza dello Spirito Santo.

298. I divorziati che vivono una nuova unione, per esempio, possono trovarsi in situazioni molto diverse, che non devono essere catalogate o rinchiuse in affermazioni troppo rigide senza lasciare spazio a un adeguato discernimento personale e pastorale. Una cosa è una seconda unione consolidata nel tempo, con nuovi figli, con provata fedeltà, dedizione generosa, impegno cristiano, consapevolezza dell’irregolarità della propria situazione e grande difficoltà a tornare indietro senza sentire in coscienza che si cadrebbe in nuove colpe. La Chiesa riconosce situazioni in cui «l’uomo e la donna, per seri motivi - quali, ad esempio, l’educazione dei figli - non possono soddisfare l’obbligo della separazione».[329] C’è anche il caso di quanti hanno fatto grandi sforzi per salvare il primo matrimonio e hanno subito un abbandono ingiusto, o quello di «coloro che hanno contratto una seconda unione in vista dell’educazione dei figli, e talvolta sono soggettivamente certi in coscienza che il precedente matrimonio, irreparabilmente distrutto, non era mai stato valido».[330] Altra cosa invece è una nuova unione che viene da un recente divorzio, con tutte le conseguenze di sofferenza e di confusione che colpiscono i figli e famiglie intere, o la situazione di qualcuno che ripetutamente ha mancato ai suoi impegni familiari. Dev’essere chiaro che questo non è l’ideale che il Vangelo propone per il matrimonio e la famiglia. I Padri sinodali hanno affermato che il discernimento dei Pastori deve sempre farsi «distinguendo adeguatamente»,[331] con uno sguardo che discerna bene le situazioni.[332] Sappiamo che non esistono «semplici ricette».[333]

299. Accolgo le considerazioni di molti Padri sinodali, i quali hanno voluto affermare che «i battezzati che sono divorziati e risposati civilmente devono essere più integrati nelle comunità cristiane nei diversi modi possibili, evitando ogni occasione di scandalo. La logica dell’integrazione è la chiave del loro accompagnamento pastorale, perché non soltanto sappiano che appartengono al Corpo di Cristo che è la Chiesa, ma ne possano avere una gioiosa e feconda esperienza. Sono battezzati, sono fratelli e sorelle, lo Spirito Santo riversa in loro doni e carismi per il bene di tutti. La loro partecipazione può esprimersi in diversi servizi ecclesiali: occorre perciò discernere quali delle diverse forme di esclusione attualmente praticate in ambito liturgico, pastorale, educativo e istituzionale possano essere superate. Essi non solo non devono sentirsi scomunicati, ma possono vivere e maturare come membra vive della Chiesa, sentendola come una madre che li accoglie sempre, si prende cura di loro con affetto e li incoraggia nel cammino della vita e del Vangelo. Questa integrazione è necessaria pure per la cura e l’educazione cristiana dei loro figli, che debbono essere considerati i più importanti».[334]

300. Se si tiene conto dell’innumerevole varietà di situazioni concrete, come quelle che abbiamo sopra menzionato, è comprensibile che non ci si dovesse aspettare dal Sinodo o da questa Esortazione una nuova normativa generale di tipo canonico, applicabile a tutti i casi. E’ possibile soltanto un nuovo incoraggiamento ad un responsabile discernimento personale e pastorale dei casi particolari, che dovrebbe riconoscere che, poiché «il grado di responsabilità non è uguale in tutti i casi»,[335]le conseguenze o gli effetti di una norma non necessariamente devono essere sempre gli stessi.[336] I presbiteri hanno il compito di «accompagnare le persone interessate sulla via del discernimento secondo l’insegnamento della Chiesa e gli orientamenti del Vescovo. In questo processo sarà utile fare un esame di coscienza, tramite momenti di riflessione e di pentimento. I divorziati risposati dovrebbero chiedersi come si sono comportati verso i loro figli quando l’unione coniugale è entrata in crisi; se ci sono stati tentativi di riconciliazione; come è la situazione del partner abbandonato; quali conseguenze ha la nuova relazione sul resto della famiglia e la comunità dei fedeli; quale esempio essa offre ai giovani che si devono preparare al matrimonio. Una sincera riflessione può rafforzare la fiducia nella misericordia di Dio che non viene negata a nessuno».[337] Si tratta di un itinerario di accompagnamento e di discernimento che «orienta questi fedeli alla presa di coscienza della loro situazione davanti a Dio. Il colloquio col sacerdote, in foro interno, concorre alla formazione di un giudizio corretto su ciò che ostacola la possibilità di una più piena partecipazione alla vita della Chiesa e sui passi che possono favorirla e farla crescere. Dato che nella stessa legge non c’è gradualità (cfr Familiaris consortio, 34), questo discernimento non potrà mai prescindere dalle esigenze di verità e di carità del Vangelo proposte dalla Chiesa. Perché questo avvenga, vanno garantite le necessarie condizioni di umiltà, riservatezza, amore alla Chiesa e al suo insegnamento, nella ricerca sincera della volontà di Dio e nel desiderio di giungere ad una risposta più perfetta ad essa».[338] Questi atteggiamenti sono fondamentali per evitare il grave rischio di messaggi sbagliati, come l’idea che qualche sacerdote possa concedere rapidamente “eccezioni”, o che esistano persone che possano ottenere privilegi sacramentali in cambio di favori. Quando si trova una persona responsabile e discreta, che non pretende di mettere i propri desideri al di sopra del bene comune della Chiesa, con un Pastore che sa riconoscere la serietà della questione che sta trattando, si evita il rischio che un determinato discernimento porti a pensare che la Chiesa sostenga una doppia morale.

Le circostanze attenuanti nel discernimento pastorale

301. Per comprendere in modo adeguato perché è possibile e necessario un discernimento speciale in alcune situazioni dette “irregolari”, c’è una questione di cui si deve sempre tenere conto, in modo che mai si pensi che si pretenda di ridurre le esigenze del Vangelo. La Chiesa possiede una solida riflessione circa i condizionamenti e le circostanze attenuanti. Per questo non è più possibile dire che tutti coloro che si trovano in qualche situazione cosiddetta “irregolare” vivano in stato di peccato mortale, privi della grazia santificante. I limiti non dipendono semplicemente da una eventuale ignoranza della norma. Un soggetto, pur conoscendo bene la norma, può avere grande difficoltà nel comprendere «valori insiti nella norma morale»[339] o si può trovare in condizioni concrete che non gli permettano di agire diversamente e di prendere altre decisioni senza una nuova colpa. Come si sono bene espressi i Padri sinodali, «possono esistere fattori che limitano la capacità di decisione».[340] Già san Tommaso d’Aquino riconosceva che qualcuno può avere la grazia e la carità, ma senza poter esercitare bene qualcuna delle virtù,[341] in modo che anche possedendo tutte le virtù morali infuse, non manifesta con chiarezza l’esistenza di qualcuna di esse, perché l’agire esterno di questa virtù trova difficoltà: «Si dice che alcuni santi non hanno certe virtù, date le difficoltà che provano negli atti di esse, […] sebbene essi abbiano l’abito di tutte le virtù».[342]

302. Riguardo a questi condizionamenti il Catechismo della Chiesa Cattolica si esprime in maniera decisiva: «L’imputabilità e la responsabilità di un’azione possono essere diminuite o annullate dall’ignoranza, dall’inavvertenza, dalla violenza, dal timore, dalle abitudini, dagli affetti smodati e da altri fattori psichici oppure sociali».[343] In un altro paragrafo fa riferimento nuovamente a circostanze che attenuano la responsabilità morale, e menziona, con grande ampiezza, l’immaturità affettiva, la forza delle abitudini contratte, lo stato di angoscia o altri fattori psichici o sociali.[344] Per questa ragione, un giudizio negativo su una situazione oggettiva non implica un giudizio sull’imputabilità o sulla colpevolezza della persona coinvolta.[345] Nel contesto di queste convinzioni, considero molto appropriato quello che hanno voluto sostenere molti Padri sinodali: «In determinate circostanze le persone trovano grandi difficoltà ad agire in modo diverso. […] Il discernimento pastorale, pur tenendo conto della coscienza rettamente formata delle persone, deve farsi carico di queste situazioni. Anche le conseguenze degli atti compiuti non sono necessariamente le stesse in tutti i casi».[346]

303. A partire dal riconoscimento del peso dei condizionamenti concreti, possiamo aggiungere che la coscienza delle persone dev’essere meglio coinvolta nella prassi della Chiesa in alcune situazioni che non realizzano oggettivamente la nostra concezione del matrimonio. Naturalmente bisogna incoraggiare la maturazione di una coscienza illuminata, formata e accompagnata dal discernimento responsabile e serio del Pastore, e proporre una sempre maggiore fiducia nella grazia. Ma questa coscienza può riconoscere non solo che una situazione non risponde obiettivamente alla proposta generale del Vangelo; può anche riconoscere con sincerità e onestà ciò che per il momento è la risposta generosa che si può offrire a Dio, e scoprire con una certa sicurezza morale che quella è la donazione che Dio stesso sta richiedendo in mezzo alla complessità concreta dei limiti, benché non sia ancora pienamente l’ideale oggettivo. In ogni caso, ricordiamo che questo discernimento è dinamico e deve restare sempre aperto a nuove tappe di crescita e a nuove decisioni che permettano di realizzare l’ideale in modo più pieno.

Le norme e il discernimento

304. È meschino soffermarsi a considerare solo se l’agire di una persona risponda o meno a una legge o a una norma generale, perché questo non basta a discernere e ad assicurare una piena fedeltà a Dio nell’esistenza concreta di un essere umano. Prego caldamente che ricordiamo sempre ciò che insegna san Tommaso d’Aquino e che impariamo ad assimilarlo nel discernimento pastorale: «Sebbene nelle cose generali vi sia una certa necessità, quanto più si scende alle cose particolari, tanto più si trova indeterminazione. […] In campo pratico non è uguale per tutti la verità o norma pratica rispetto al particolare, ma soltanto rispetto a ciò che è generale; e anche presso quelli che accettano nei casi particolari una stessa norma pratica, questa non è ugualmente conosciuta da tutti. […] E tanto più aumenta l’indeterminazione quanto più si scende nel particolare».[347] È vero che le norme generali presentano un bene che non si deve mai disattendere né trascurare, ma nella loro formulazione non possono abbracciare assolutamente tutte le situazioni particolari. Nello stesso tempo occorre dire che, proprio per questa ragione, ciò che fa parte di un discernimento pratico davanti ad una situazione particolare non può essere elevato al livello di una norma. Questo non solo darebbe luogo a una casuistica insopportabile, ma metterebbe a rischio i valori che si devono custodire con speciale attenzione. [348]

305. Pertanto, un Pastore non può sentirsi soddisfatto solo applicando leggi morali a coloro che vivono in situazioni “irregolari”, come se fossero pietre che si lanciano contro la vita delle persone. È il caso dei cuori chiusi, che spesso si nascondono perfino dietro gli insegnamenti della Chiesa «per sedersi sulla cattedra di Mosè e giudicare, qualche volta con superiorità e superficialità, i casi difficili e le famiglie ferite».[349]In questa medesima linea si è pronunciata la Commissione Teologica Internazionale: «La legge naturale non può dunque essere presentata come un insieme già costituito di regole che si impongono a priori al soggetto morale, ma è una fonte di ispirazione oggettiva per il suo processo, eminentemente personale, di presa di decisione».[350] A causa dei condizionamenti o dei fattori attenuanti, è possibile che, entro una situazione oggettiva di peccato – che non sia soggettivamente colpevole o che non lo sia in modo pieno – si possa vivere in grazia di Dio, si possa amare, e si possa anche crescere nella vita di grazia e di carità, ricevendo a tale scopo l’aiuto della Chiesa. [351] Il discernimento deve aiutare a trovare le strade possibili di risposta a Dio e di crescita attraverso i limiti. Credendo che tutto sia bianco o nero, a volte chiudiamo la via della grazia e della crescita e scoraggiamo percorsi di santificazione che danno gloria a Dio. Ricordiamo che «un piccolo passo, in mezzo a grandi limiti umani, può essere più gradito a Dio della vita esteriormente corretta di chi trascorre i suoi giorni senza fronteggiare importanti difficoltà». [352] La pastorale concreta dei ministri e delle comunità non può mancare di fare propria questa realtà.

306. In qualunque circostanza, davanti a quanti hanno difficoltà a vivere pienamente la legge divina, deve risuonare l’invito a percorrere la via caritatis. La carità fraterna è la prima legge dei cristiani (cfr Gv 15,12; Gal 5,14). Non dimentichiamo la promessa delle Scritture: «Soprattutto conservate tra voi una carità fervente, perché la carità copre una moltitudine di peccati» (1 Pt 4,8); «sconta i tuoi peccati con l’elemosina e le tue iniquità con atti di misericordia verso gli afflitti» (Dn 4,24); «l’acqua spegne il fuoco che divampa, l’elemosina espia i peccati» (Sir 3,30). È anche ciò che insegna sant’Agostino: «Come dunque se fossimo in pericolo per un incendio correremmo per prima cosa in cerca dell’acqua, con cui poter spegnere l’incendio, […] ugualmente, se qualche fiamma di peccato si è sprigionata dal fieno delle nostre passioni e perciò siamo scossi, rallegriamoci dell’opportunità che ci viene data di fare un’opera di vera misericordia, come se ci fosse offerta la fontana da cui prender l’acqua per spegnere l’incendio che si era acceso».[353]

La logica della misericordia pastorale

307. Per evitare qualsiasi interpretazione deviata, ricordo che in nessun modo la Chiesa deve rinunciare a proporre l’ideale pieno del matrimonio, il progetto di Dio in tutta la sua grandezza: «I giovani battezzati vanno incoraggiati a non esitare dinanzi alla ricchezza che ai loro progetti di amore procura il sacramento del matrimonio, forti del sostegno che ricevono dalla grazia di Cristo e dalla possibilità di partecipare pienamente alla vita della Chiesa».[354] La tiepidezza, qualsiasi forma di relativismo, o un eccessivo rispetto al momento di proporlo, sarebbero una mancanza di fedeltà al Vangelo e anche una mancanza di amore della Chiesa verso i giovani stessi. Comprendere le situazioni eccezionali non implica mai nascondere la luce dell’ideale più pieno né proporre meno di quanto Gesù offre all’essere umano. Oggi, più importante di una pastorale dei fallimenti è lo sforzo pastorale per consolidare i matrimoni e così prevenire le rotture.

308. Tuttavia, dalla nostra consapevolezza del peso delle circostanze attenuanti – psicologiche, storiche e anche biologiche – ne segue che «senza sminuire il valore dell’ideale evangelico, bisogna accompagnare con misericordia e pazienza le possibili tappe di crescita delle persone che si vanno costruendo giorno per giorno», lasciando spazio alla «misericordia del Signore che ci stimola a fare il bene possibile».[355] Comprendo coloro che preferiscono una pastorale più rigida che non dia luogo ad alcuna confusione. Ma credo sinceramente che Gesù vuole una Chiesa attenta al bene che lo Spirito sparge in mezzo alla fragilità: una Madre che, nel momento stesso in cui esprime chiaramente il suo insegnamento obiettivo, «non rinuncia al bene possibile, benché corra il rischio di sporcarsi con il fango della strada».[356] I Pastori che propongono ai fedeli l’ideale pieno del Vangelo e la dottrina della Chiesa devono aiutarli anche ad assumere la logica della compassione verso le persone fragili e ad evitare persecuzioni o giudizi troppo duri e impazienti. Il Vangelo stesso ci richiede di non giudicare e di non condannare (cfr Mt 7,1; Lc 6,37). Gesù «aspetta che rinunciamo a cercare quei ripari personali o comunitari che ci permettono di mantenerci a distanza dal nodo del dramma umano, affinché accettiamo veramente di entrare in contatto con l’esistenza concreta degli altri e conosciamo la forza della tenerezza. Quando lo facciamo, la vita ci si complica sempre meravigliosamente».[357]

309. È provvidenziale che queste riflessioni si sviluppino nel contesto di un Anno Giubilare dedicato alla misericordia, perché anche davanti alle più diverse situazioni che interessano la famiglia, «la Chiesa ha la missione di annunciare la misericordia di Dio, cuore pulsante del Vangelo, che per mezzo suo deve raggiungere il cuore e la mente di ogni persona. La Sposa di Cristo fa suo il comportamento del Figlio di Dio che a tutti va incontro senza escludere nessuno».[358] Sa bene che Gesù stesso si presenta come Pastore di cento pecore, non di novantanove. Le vuole tutte. A partire da questa consapevolezza, si renderà possibile che «a tutti, credenti e lontani, possa giungere il balsamo della misericordia come segno del Regno di Dio già presente in mezzo a noi». [359]

310. Non possiamo dimenticare che «la misericordia non è solo l’agire del Padre, ma diventa il criterio per capire chi sono i suoi veri figli. Insomma, siamo chiamati a vivere di misericordia, perché a noi per primi è stata usata misericordia».[360] Non è una proposta romantica o una risposta debole davanti all’amore di Dio, che sempre vuole promuovere le persone, poiché «l’architrave che sorregge la vita della Chiesa è la misericordia. Tutto della sua azione pastorale dovrebbe essere avvolto dalla tenerezza con cui si indirizza ai credenti; nulla del suo annuncio e della sua testimonianza verso il mondo può essere privo di misericordia».[361] È vero che a volte «ci comportiamo come controllori della grazia e non come facilitatori. Ma la Chiesa non è una dogana, è la casa paterna dove c’è posto per ciascuno con la sua vita faticosa».[362]

311. L’insegnamento della teologia morale non dovrebbe tralasciare di fare proprie queste considerazioni, perché seppure è vero che bisogna curare l’integralità dell’insegnamento morale della Chiesa, si deve sempre porre speciale attenzione nel mettere in evidenza e incoraggiare i valori più alti e centrali del Vangelo,[363] particolarmente il primato della carità come risposta all’iniziativa gratuita dell’amore di Dio. A volte ci costa molto dare spazio nella pastorale all’amore incondizionato di Dio.[364] Poniamo tante condizioni alla misericordia che la svuotiamo di senso concreto e di significato reale, e questo è il modo peggiore di annacquare il Vangelo. È vero, per esempio, che la misericordia non esclude la giustizia e la verità, ma anzitutto dobbiamo dire che la misericordia è la pienezza della giustizia e la manifestazione più luminosa della verità di Dio. Pertanto, conviene sempre considerare «inadeguata qualsiasi concezione teologica che in ultima analisi metta in dubbio l’onnipotenza stessa di Dio, e in particolare la sua misericordia».[365]

312. Questo ci fornisce un quadro e un clima che ci impedisce di sviluppare una morale fredda da scrivania nel trattare i temi più delicati e ci colloca piuttosto nel contesto di un discernimento pastorale carico di amore misericordioso, che si dispone sempre a comprendere, a perdonare, ad accompagnare, a sperare, e soprattutto a integrare. Questa è la logica che deve prevalere nella Chiesa, per «fare l’esperienza di aprire il cuore a quanti vivono nelle più disparate periferie esistenziali».[366] Invito i fedeli che stanno vivendo situazioni complesse ad accostarsi con fiducia a un colloquio con i loro pastori o con laici che vivono dediti al Signore. Non sempre troveranno in essi una conferma delle proprie idee e dei propri desideri, ma sicuramente riceveranno una luce che permetterà loro di comprendere meglio quello che sta succedendo e potranno scoprire un cammino di maturazione personale. E invito i pastori ad ascoltare con affetto e serenità, con il desiderio sincero di entrare nel cuore del dramma delle persone e di comprendere il loro punto di vista, per aiutarle a vivere meglio e a riconoscere il loro posto nella Chiesa.

CAPITOLO NONO

SPIRITUALITÀ CONIUGALE E FAMILIARE

313. La carità assume diverse sfumature, a seconda dello stato di vita a cui ciascuno è stato chiamato. Già alcuni decenni fa, il Concilio Vaticano II, a proposito dell’apostolato dei laici, metteva in risalto la spiritualità che scaturisce dalla vita familiare. Affermava che la spiritualità dei laici «deve assumere una sua fisionomia particolare» anche dallo «stato del matrimonio e della famiglia»[367] e che le preoccupazioni familiari non devono essere qualcosa di estraneo al loro stile di vita spirituale.[368] Pertanto vale la pena di fermarci brevemente a descrivere alcune caratteristiche fondamentali di questa spiritualità specifica che si sviluppa nel dinamismo delle relazioni della vita familiare.

Spiritualità della comunione soprannaturale

314. Abbiamo sempre parlato della inabitazione di Dio nel cuore della persona che vive nella sua grazia. Oggi possiamo dire anche che la Trinità è presente nel tempio della comunione matrimoniale. Così come abita nelle lodi del suo popolo (cfr Sal 22,4), vive intimamente nell’amore coniugale che le dà gloria.

315. La presenza del Signore abita nella famiglia reale e concreta, con tutte le sue sofferenze, lotte, gioie e i suoi propositi quotidiani. Quando si vive in famiglia, lì è difficile fingere e mentire, non possiamo mostrare una maschera. Se l’amore anima questa autenticità, il Signore vi regna con la sua gioia e la sua pace. La spiritualità dell’amore familiare è fatta di migliaia di gesti reali e concreti. In questa varietà di doni e di incontri che fanno maturare la comunione, Dio ha la propria dimora. Questa dedizione unisce «valori umani e divini»,[369] perché è piena dell’amore di Dio. In definitiva, la spiritualità matrimoniale è una spiritualità del vincolo abitato dall’amore divino.

316. Una comunione familiare vissuta bene è un vero cammino di santificazione nella vita ordinaria e di crescita mistica, un mezzo per l’unione intima con Dio. Infatti i bisogni fraterni e comunitari della vita familiare sono un’occasione per aprire sempre più il cuore, e questo rende possibile un incontro con il Signore sempre più pieno. La Parola di Dio dice che «chi odia il suo fratello cammina nelle tenebre» (1 Gv 2,11), «rimane nella morte» (1 Gv 3,14) e «non ha conosciuto Dio» (1 Gv 4,8). Il mio predecessore Benedetto XVI ha detto che «chiudere gli occhi di fronte al prossimo rende ciechi anche di fronte a Dio», [370] e che l’amore è in fondo l’unica luce che «rischiara sempre di nuovo un mondo buio».[371] Solo «se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e l’amore di lui è perfetto in noi» (1 Gv 4,12). Dato che «la persona umana ha una nativa e strutturale dimensione sociale»[372] e «la prima e originaria espressione della dimensione sociale della persona è la coppia e la famiglia»,[373] la spiritualità si incarna nella comunione familiare. Pertanto, coloro che hanno desideri spirituali profondi non devono sentire che la famiglia li allontana dalla crescita nella vita dello Spirito, ma che è un percorso che il Signore utilizza per portarli ai vertici dell’unione mistica.

Uniti in preghiera alla luce della Pasqua

317. Se la famiglia riesce a concentrarsi in Cristo, Egli unifica e illumina tutta la vita familiare. I dolori e i problemi si sperimentano in comunione con la Croce del Signore, e l’abbraccio con Lui permette di sopportare i momenti peggiori. Nei giorni amari della famiglia c’è una unione con Gesù abbandonato che può evitare una rottura. Le famiglie raggiungono a poco a poco, «con la grazia dello Spirito Santo, la loro santità attraverso la vita matrimoniale, anche partecipando al mistero della croce di Cristo, che trasforma le difficoltà e le sofferenze in offerta d’amore».[374] D’altra parte, i momenti di gioia, il riposo o la festa, e anche la sessualità, si sperimentano come una partecipazione alla vita piena della sua Risurrezione. I coniugi danno forma con vari gesti quotidiani a questo «spazio teologale in cui si può sperimentare la presenza mistica del Signore risorto». [375]

318. La preghiera in famiglia è un mezzo privilegiato per esprimere e rafforzare questa fede pasquale.[376] Si possono trovare alcuni minuti ogni giorno per stare uniti davanti al Signore vivo, dirgli le cose che preoccupano, pregare per i bisogni famigliari, pregare per qualcuno che sta passando un momento difficile, chiedergli aiuto per amare, rendergli grazie per la vita e le cose buone, chiedere alla Vergine di proteggerci con il suo manto di madre. Con parole semplici, questo momento di preghiera può fare tantissimo bene alla famiglia. Le diverse espressioni della pietà popolare sono un tesoro di spiritualità per molte famiglie. Il cammino comunitario di preghiera raggiunge il suo culmine nella partecipazione comune all’Eucaristia, soprattutto nel contesto del riposo domenicale. Gesù bussa alla porta della famiglia per condividere con essa la Cena eucaristica (cfr Ap 3,20). Là, gli sposi possono sempre sigillare l’alleanza pasquale che li ha uniti e che riflette l’Alleanza che Dio ha sigillato con l’umanità sulla Croce.[377] L’Eucaristia è il sacramento della Nuova Alleanza in cui si attualizza l’azione redentrice di Cristo (cfr Lc 22,20). Così si notano i legami profondi che esistono tra la vita coniugale e l’Eucaristia.[378] Il nutrimento dell’Eucaristia è forza e stimolo per vivere ogni giorno l’alleanza matrimoniale come «Chiesa domestica».[379]

Spiritualità dell’amore esclusivo e libero

319. Nel matrimonio si vive anche il senso di appartenere completamente a una sola persona. Gli sposi assumono la sfida e l’anelito di invecchiare e consumarsi insieme e così riflettono la fedeltà di Dio. Questa ferma decisione, che segna uno stile di vita, è una «esigenza interiore del patto d’amore coniugale»,[380] perché «colui che non si decide ad amare per sempre, è difficile che possa amare sinceramente un solo giorno».[381] Ma questo non avrebbe significato spirituale se si trattasse solo di una legge vissuta con rassegnazione. E’ un’appartenenza del cuore, là dove solo Dio vede (cfr Mt 5,28). Ogni mattina quando ci si alza, si rinnova davanti a Dio questa decisione di fedeltà, accada quel che accada durante la giornata. E ciascuno, quando va a dormire, aspetta di alzarsi per continuare questa avventura, confidando nell’aiuto del Signore. Così, ogni coniuge è per l’altro segno e strumento della vicinanza del Signore, che non ci lascia soli: «Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20).

320. C’è un punto in cui l’amore della coppia raggiunge la massima liberazione e diventa uno spazio di sana autonomia: quando ognuno scopre che l’altro non è suo, ma ha un proprietario molto più importante, il suo unico Signore. Nessuno può pretendere di possedere l’intimità più personale e segreta della persona amata e solo Lui può occupare il centro della sua vita. Nello stesso tempo, il principio del realismo spirituale fa sì che il coniuge non pretenda che l’altro soddisfi completamente le sue esigenze. E’ necessario che il cammino spirituale di ciascuno – come indicava bene Dietrich Bonhoeffer – lo aiuti a “disilludersi” dell’altro,[382] a smettere di attendere da quella persona ciò che è proprio soltanto dell’amore di Dio. Questo richiede una spogliazione interiore. Lo spazio esclusivo che ciascuno dei coniugi riserva al suo rapporto personale con Dio, non solo permette di sanare le ferite della convivenza, ma anche di trovare nell’amore di Dio il senso della propria esistenza. Abbiamo bisogno di invocare ogni giorno l’azione dello Spirito perché questa libertà interiore sia possibile.

Spiritualità della cura, della consolazione e dello stimolo

321. «I coniugi cristiani sono cooperatori della grazia e testimoni della fede l’uno per l’altro, nei confronti dei figli e di tutti gli altri familiari».[383] Dio li invita a generare e a prendersi cura. Ecco perché la famiglia «è sempre stata il più vicino “ospedale”».[384] Prendiamoci cura, sosteniamoci e stimoliamoci vicendevolmente, e viviamo tutto ciò come parte della nostra spiritualità familiare. La vita di coppia è una partecipazione alla feconda opera di Dio, e ciascuno è per l’altro una permanente provocazione dello Spirito. L’amore di Dio si esprime «attraverso le parole vive e concrete con cui l’uomo e la donna si dicono il loro amore coniugale».[385] Così i due sono tra loro riflessi dell’amore divino che conforta con la parola, lo sguardo, l’aiuto, la carezza, l’abbraccio. Pertanto, «voler formare una famiglia è avere il coraggio di far parte del sogno di Dio, il coraggio di sognare con Lui, il coraggio di costruire con Lui, il coraggio di giocarci con Lui questa storia, di costruire un mondo dove nessuno si senta solo».[386]

322. Tutta la vita della famiglia è un “pascolo” misericordioso. Ognuno, con cura, dipinge e scrive nella vita dell’altro: «La nostra lettera siete voi, lettera scritta nei nostri cuori [...] non con inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente» (2 Cor 3,2- 3). Ognuno è un «pescatore di uomini» (Lc 5,10) che nel nome di Gesù getta le reti (cfr Lc 5,5) verso gli altri, o un contadino che lavora in quella terra fresca che sono i suoi cari, stimolando il meglio di loro. La fecondità matrimoniale comporta la promozione, perché «amare una persona è attendere da essa qualcosa di indefinibile, di imprevedibile; è al tempo stesso offrirle in qualche modo il mezzo per rispondere a questa attesa».[387] Questo è un culto a Dio, perché è Lui che ha seminato molte cose buone negli altri nella speranza che le facciamo crescere.

323. E’ una profonda esperienza spirituale contemplare ogni persona cara con gli occhi di Dio e riconoscere Cristo in lei. Questo richiede una disponibilità gratuita che permetta di apprezzare la sua dignità. Si può essere pienamente presenti davanti all’altro se ci si dona senza un perché, dimenticando tutto quello che c’è intorno. Così la persona amata merita tutta l’attenzione. Gesù era un modello, perché quando qualcuno si avvicinava a parlare con Lui, fissava lo sguardo, guardava con amore (cfr Mc 10,21). Nessuno si sentiva trascurato in sua presenza, poiché le sue parole e i suoi gesti erano espressione di questa domanda: «Che cosa vuoi che io faccia per te?» (Mc 10,51).Questo si vive nella vita quotidiana della famiglia. In essa ricordiamo che la persona che vive con noi merita tutto, perché ha una dignità infinita, essendo oggetto dell’immenso amore del Padre. Così fiorisce la tenerezza, in grado di «suscitare nell’altro la gioia di sentirsi amato. Essa si esprime in particolare nel volgersi con attenzione squisita ai limiti dell’altro, specialmente quando emergono in maniera evidente».[388]

324. Sotto l’impulso dello Spirito, il nucleo familiare non solo accoglie la vita generandola nel proprio seno, ma si apre, esce da sé per riversare il proprio bene sugli altri, per prendersene cura e cercare la loro felicità. Questa apertura si esprime particolarmente nell’ospitalità[389], incoraggiata dalla Parola di Dio in modo suggestivo: «Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, senza saperlo hanno accolto degli angeli»(Eb 13,2). Quando la famiglia accoglie, e va incontro agli altri, specialmente ai poveri e agli abbandonati, è «simbolo, testimonianza, partecipazione della maternità della Chiesa».[390]L’amore sociale, riflesso della Trinità, è in realtà ciò che unifica il senso spirituale della famiglia e la sua missione all’esterno di sé stessa, perché rende presente il kerygma con tutte le sue esigenze comunitarie. La famiglia vive la sua spiritualità peculiare essendo, nello stesso tempo, una Chiesa domestica e una cellula vitale per trasformare il mondo.[391]

* * *

325. Le parole del Maestro (cfr Mt 22,30) e quelle di san Paolo (cfr 1 Cor 7,29- 31) sul matrimonio, sono inserite – non casualmente – nella dimensione ultima e definitiva della nostra esistenza, che abbiamo bisogno di recuperare. In tal modo gli sposi potranno riconoscere il senso del cammino che stanno percorrendo. Infatti, come abbiamo ricordato più volte in questa Esortazione, nessuna famiglia è una realtà perfetta e confezionata una volta per sempre, ma richiede un graduale sviluppo della propria capacità di amare. C’è una chiamata costante che proviene dalla comunione piena della Trinità, dall’unione stupenda tra Cristo e la sua Chiesa, da quella bella comunità che è la famiglia di Nazareth e dalla fraternità senza macchia che esiste tra i santi del cielo. E tuttavia, contemplare la pienezza che non abbiamo ancora raggiunto ci permette anche di relativizzare il cammino storico che stiamo facendo come famiglie, per smettere di pretendere dalle relazioni interpersonali una perfezione, una purezza di intenzioni e una coerenza che potremo trovare solo nel Regno definitivo. Inoltre ci impedisce di giudicare con durezza coloro che vivono in condizioni di grande fragilità. Tutti siamo chiamati a tenere viva la tensione verso qualcosa che va oltre noi stessi e i nostri limiti, e ogni famiglia deve vivere in questo stimolo costante. Camminiamo, famiglie, continuiamo a camminare! Quello che ci viene promesso è sempre di più. Non perdiamo la speranza a causa dei nostri limiti, ma neppure rinunciamo a cercare la pienezza di amore e di comunione che ci è stata promessa.

Preghiera alla Santa Famiglia

Gesù, Maria e Giuseppe,

in voi contempliamo

lo splendore del vero amore,

a voi, fiduciosi, ci affidiamo.

Santa Famiglia di Nazaret,

rendi anche le nostre famiglie

luoghi di comunione e cenacoli di preghiera,

autentiche scuole di Vangelo

e piccole Chiese domestiche.

Santa Famiglia di Nazaret,

mai più ci siano nelle famiglie

episodi di violenza, di chiusura e di divisione;

che chiunque sia stato ferito o scandalizzato

venga prontamente confortato e guarito.

Santa Famiglia di Nazaret,

fa’ che tutti ci rendiamo consapevoli

del carattere sacro e inviolabile della famiglia,

della sua bellezza nel progetto di Dio.

Gesù, Maria e Giuseppe, ascoltateci e accogliete la nostra supplica.

Amen.

Dato a Roma, presso San Pietro, nel Giubileo Straordinario della Misericordia, il 19 marzo, solennità di San Giuseppe, dell’anno 2016, quarto del mio Pontificato.

Francesco

[1] III Assemblea Generale Straordinaria del Sinodo dei Vescovi, Relatio Synodi, 18 ottobre 2014, 2. [2] XIV Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, Relatio finalis, 24 ottobre 2015, 3. [3] Discorso a conclusione della XIV Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi (24 ottobre 2015): L’Osservatore Romano,26-27 ottobre 2015, p. 13; cfr Pontificia Commissione Biblica, Fede e cultura alla luce della Bibbia. Atti della Sessione plenaria 1979 della Pontificia Commissione Biblica, Torino 1981; Conc. Ecum. Vat. II, Cost. Gaudium et spes, 44; Giovanni Paolo II, Lett. enc. Redemptoris missio (7 dicembre 1990), 52: AAS 83 (1991), 300; Esort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 69.117: AAS 105 (2013), 1049.1068- 1069. [4] Discorso nell’incontro con le famiglie a Santiago di Cuba (22 settembre 2015): L’Osservatore Romano, 24 settembre 2015, p. 7. [5] Jorge Luis Borges, “Calle desconocida”, en Fervor de Buenos Aires, Buenos Aires 2011, 23 (trad. it.: Fervore di Buenos Aires, Milano 2010, 29). [6] Omelia nella Messa a Puebla de los Ángeles (28 gennaio 1979), 2: AAS 71 (1979), 184. [7] Cfr ibid. [8] Giovanni Paolo II, Esort. ap. Familiaris consortio (22 novembre 1981), 4: AAS 74 (1982), 84. [9] Relatio Synodi 2014, 5. [10] Conferenza Episcopale Spagnola, Matrimonio y familia (6 luglio 1979), 3.16.23. [11] Relatio finalis 2015, 5. [12] Relatio Synodi 2014, 5. [13] Relatio finalis 2015, 8. [14] Discorso al Congresso degli Stati Uniti d’America (24 settembre 2015): L’Osservatore Romano, 26 settembre 2015, p. 7. [15] Relatio finalis 2015, 29. [16] Relatio Synodi 2014, 10. [17] III Assemblea Generale Straordinaria del Sinodo dei Vescovi, Messaggio, 18 ottobre 2014. [18] Relatio Synodi 2014, 10. [19] Relatio finalis 2015, 7. [20] Ibid., 63. [21] Conferenza dei Vescovi cattolici della Corea, Towards a culture of life! (15 marzo 2007). [22] Relatio Synodi 2014, 6. [23] Pontificio Consiglio per la Famiglia, Carta dei diritti dalla famiglia (22 ottobre 1983), 11. [24] Cfr Relatio finalis 2015, 11-12. [25] Pontificio Consiglio per la Famiglia, Carta dei diritti dalla famiglia (22 ottobre 1983), Intr. [26] Ibid., 9. [27] Relatio finalis 2015, 14. [28] Relatio Synodi 2014, 8. [29] Cfr Relatio finalis 2015, 78. [30] Relatio Synodi 2014, 8. [31] Relatio finalis 2015, 23; cfr Messaggio per la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato 2016 (12 settembre 2015): L’Osservatore Romano, 2 ottobre 2015, p. 8. [32] Relatio finalis 2015, 24. [33] Ibid., 21. [34] Ibid., 17. [35] Ibid., 20. [36] Cfr ibid., 15. [37] Discorso conclusivo della XIV Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi (24 ottobre 2015): L’Osservatore Romano, 26-27 ottobre 2015, p. 13. [38] Conferenza Episcopale Argentina, Navega mar adentro (31 maggio 2003), 42. [39] Conferenza Episcopale Messicana, Que en Cristo Nuestra Paz México tenga vida digna (15 febbraio 2009), 67. [40] Relatio finalis 2015, 25. [41] Ibid., 10. [42] Catechesi (22 aprile 2015):L’Osservatore Romano, 23 aprile 2015, p. 7. [43] Catechesi (29 aprile 2015):L’Osservatore Romano, 30 aprile 2015, p. 8. [44] Relatio finalis 2015, 28. [45] Ibid., 8. [46] Ibid., 58. [47] Ibid., 33. [48] Relatio Synodi 2014, 11. [49] Conferenza Episcopale Colombiana, A tiempos difíciles, colombianos nuevos (13 febbraio 2003), 3. [50] Esort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 35: AAS 105 (2013), 1034. [51] Ibid., 164: AAS 105 (2013), 1088. [52] Ibid. [53] Ibid., 165: AAS 105 (2013), 1089. [54] Relatio Synodi 2014, 12. [55] Ibid., 14. [56] Ibid., 16. [57] Relatio finalis 2015, 41. [58] Ibid., 38. [59] Relatio Synodi 2014, 17. [60] Relatio finalis 2015, 43. [61] Relatio Synodi 2014, 18. [62] Ibid., 19. [63] Relatio finalis 2015, 38. [64] Giovanni Paolo II, Esort. ap. Familiaris consortio (22 novembre 1981), 13: AAS 74 (1982), 94. [65] Relatio Synodi 2014, 21. [66] Catechismo della Chiesa Cattolica, 1642. [67] Ibid. [68] Catechesi (6 maggio 2015):L’Osservatore Romano(7 maggio 2015), p. 8. [69] Leone Magno, Epistola Rustico narbonensi episcopo, inquis. IV: PL 54, 1205A; cfr Incmaro di Reims, Epist. 22: PL 126, 142. [70] Cfr Pio XII, Lett. enc. Mystici Corporis Christi (29 giugno 1943): AAS 35 (1943), 202: «Matrimonio enim quo coniuges sibi invicem sunt ministri gratiae». [71] Cfr Codice di Diritto Canonico, cc. 1116; 1161-1165; Codice dei Canoni delle Chiese Orientali, 832; 848-852. [72] Codice di Diritto Canonico, c. 1055 § 2. [73] Relatio Synodi 2014, 23. [74] Giovanni Paolo II, Esort. ap. Familiaris consortio (22 novembre 1981), 9: AAS 74 (1982), 90. [75] Relatio finalis 2015, 47. [76]Ibid. [77] Omelia nella Santa Messa di chiusura dell’VIII Incontro Mondiale delle famiglie, Filadelfia (27 settembre 2015): L´Osservatore Romano, 28-29 settembre 2015, p. 7. [78] Relatio finalis 2015, 53-54. [79] Ibid., 51. [80] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, 48. [81] Cfr Codice di Diritto Canonico, c. 1055 § 1: «Ad bonum coniugum atque ad prolis generationem et educationem ordinatum». [82] Catechismo della Chiesa Cattolica, 2360. [83] Ibid., 1654. [84] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, 48. [85] Catechismo della Chiesa Cattolica, 2366. [86] Cfr Paolo VI, Lett. enc. Humanae vitae (25 luglio 1968), 11-12: AAS 60 (1968), 488-489. [87] Catechismo della Chiesa Cattolica, 2378. [88] Congregazione per la Dottrina della Fede, Istr. Donum vitae (22 febbraio 1987), II, 8: AAS 80 (1988), 97. [89] Relatio finalis 2015, 63. [90] Relatio Synodi 2014, 57. [91] Ibid., 58. [92] Ibid., 57. [93] Relatio finalis 2015, 64. [94] Relatio Synodi 2014, 60. [95] Ibid., 61. [96] Codice di Diritto Canonico, c. 1136; cfr Codice dei Canoni delle Chiese Orientali, 627. [97] Pontificio Consiglio per la Famiglia, Sessualità umana: verità e significato (8 dicembre 1995), 23. [98] Catechesi (20 maggio 2015):L’Osservatore Romano, 21 maggio 2015, p. 8. [99] Cfr Giovanni Paolo II, Esort. ap. Familiaris consortio (22 novembre 1981), 38: AAS 74 (1982), 129. [100] Cfr Discorso all’Assemblea diocesana di Roma (14 giugno 2015): L’Osservatore Romano, 15-16 giugno 2015, p. 8. [101] Relatio Synodi 2014, 23. [102] Relatio finalis 2015, 52. [103] Ibid., 49-50. [104] Catechismo della Chiesa Cattolica, 1641. [105] Cfr Benedetto XVI, Lett. enc. Deus caritas est (25 dicembre 2005), 2: AAS 98 (2006), 218. [106] Esercizi spirituali, Contemplazione per raggiungere l’amore, 230. [107] Octavio Paz, La llama doble, Barcelona 1993, 35. [108] Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae II-II, q. 114, a. 2, ad 1. [109] Catechesi (13 maggio 2015):L’Osservatore Romano, 14 maggio 2015, p. 8. [110] Summa Theologiae II-II, q. 27, a. 1, ad 2. [111] Ibid., a. 1. [112] Catechesi (13 maggio 2015):L’Osservatore Romano, 14 maggio 2015, p. 8. [113] Giovanni Paolo II, Esort. ap. Familiaris consortio (22 novembre 1981), 21: AAS 74 (1982), 106. [114] Sermone tenuto nella chiesa Battista di Dexter Avenue, Montgomery, Alabama, 17 novembre 1957. [115] San Tommaso d’Aquino intende l’amore come «vis unitiva» (Summa Theologiae I, q. 20, a. 1, ad 3), riprendendo un’espressione di Dionigi Ps.- Areopagita (De divinis nominibus, IV, 12: PG 3, 709). [116] Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae II-II, q. 27, a. 2. [117] Lett. enc. Casti connubii (31 dicembre 1930): AAS 22 (1930), 547-548. [118] Giovanni Paolo II, Esort. ap. Familiaris consortio (22 novembre 1981), 13: AAS 74 (1982), 94. [119] Catechesi (2 aprile 2014):L’Osservatore Romano, 3 aprile 2014, p. 8. [120] Ibid. [121] Giovanni Paolo II, Esort. ap. Familiaris consortio (22 novembre 1981), 9: AAS 74 (1982), 90. [122] Tommaso d’Aquino, Summa contra Gentiles, III, 123; cfr Aristotele, Etica Nic., 8, 12 (ed. Bywater, Oxford 1984, 174). [123] Lett. enc. Lumen fidei (29 giugno 2013), 52: AAS 105 (2013), 590. [124] De sacramento matrimonii, I, 2: in Id. Disputationes, III, 5, 3 (ed. Giuliano, Napoli 1858, 778). [125] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, 50. [126] Ibid., 49. [127] Cfr Summa Theologiae I-II, q. 31, a. 3, ad 3. [128] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, 48. [129] Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae I-II, q. 26, a. 3. [130] Ibid., q. 110, a. 1. [131] Confessioni, VIII, 3, 7: PL 32, 752. [132] Discorso alle famiglie del mondo in occasione del loro pellegrinaggio a Roma nell’Anno della Fede (26 ottobre 2013):AAS 105 (2013), 980. [133] Angelus (29 dicembre 2013):L’Osservatore Romano, 30-31 dicembre 2013, p. 7. [134] Discorso alle famiglie del mondo in occasione del loro pellegrinaggio a Roma nell’Anno della Fede (26 ottobre 2013): AAS 105 (2013), 978. [135] Summa Theologiae II-II, q. 24, a. 7. [136] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, 48. [137] Conferenza Episcopale del Cile, La vida y la familia: regalos de Dios para cada uno de nosotros (21 luglio 2014). [138] Cost. past. Gaudium et spes, 49. [139] A. Sertillanges, L’amour chrétien, Paris 1920, 174. [140] Cfr Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae I-II, q. 24, a. 1. [141] Cfr ibid., q. 59, a. 5. [142] Lett. enc. Deus caritas est (25 dicembre 2005), 3: AAS 98 (2006), 219- 220. [143] Ibid., 4 : AAS 98 (2006), 220. [144] Cfr Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae I-II, q. 32, a. 7. [145] Cfr ibid., II-II, q. 153, a. 2, ad 2: «Abundantia delectationis quae est in actu venereo secundum rationem ordinato, non contrariatur medio virtutis». [146] Giovanni Paolo II, Catechesi (22 ottobre 1980), 5: Insegnamenti III, 2 (1980), 951. [147] Ibid., 3. [148] Id., Catechesi (24 settembre 1980), 4: Insegnamenti III, 2 (1980), 719. [149] Catechesi (12 novembre 1980), 2: Insegnamenti III, 2 (1980), 1133. [150] Ibid., 4. [151] Ibid., 5. [152] Ibid., 1: 1132. [153] Catechesi (16 gennaio 1980), 1: Insegnamenti III, 1 (1980), 151. [154] Josef Pieper, Über die Liebe, München 2014, 174. [155] Giovanni Paolo II, Lett. enc. Evangelium vitae (25 marzo 1995), 23: AAS 87 (1995), 427. [156] Paolo VI, Lett. enc. Humanae vitae (25 luglio 1968), 13: AAS 60 (1968), 489. [157] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, 49. [158] Catechesi (18 giugno 1980), 5: Insegnamenti III, 1 (1980), 1778. [159] Ibid., 6. [160] Cfr Catechesi (30 luglio 1980), 1: Insegnamenti III, 2 (1980), 311. [161] Catechesi (8 aprile 1981), 3: Insegnamenti IV, 1 (1981), 904. [162] Catechesi (11 agosto 1982), 4: Insegnamenti V, 3 (1982), 205-206. [163] Lett. enc. Deus caritas est (25 dicembre 2005), 5: AAS 98 (2006), 221. [164] Ibid., 7. [165] Relatio finalis 2015, 22. [166] Catechesi (14 aprile 1982), 1: Insegnamenti V, 1 (1982), 1176. [167] Glossa in quatuor libros sententiarum Petri Lombardi, IV, XXVI, 2 (Quaracchi 1957, 446). [168] Giovanni Paolo II, Catechesi (7 aprile 1982), 2: Insegnamenti V, 1 (1982), 1127. [169] Id., Catechesi (14 aprile 1982), 3: Insegnamenti V, 1 (1982), 1177. [170] Ibid. [171] Id., Lett. enc. Redemptor hominis (4 marzo 1979), 10: AAS 71 (1979), 274. [172] Cfr Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae II-II, q. 27, a. 1. [173] Pontificio Consiglio per la Famiglia, Famiglia, matrimonio e “unioni di fatto” (26 luglio 2000), 40. [174] Giovanni Paolo II, Catechesi (31 ottobre 1984), 6: Insegnamenti VII, 2 (1984), 1072. [175] Benedetto XVI, Lett. enc. Deus caritas est (25 dicembre 2005), 8: AAS 98 (2006), 224. [176] Giovanni Paolo II, Esort. ap. Familiaris consortio (22 novembre 1981), 14: AAS 74 (1982), 96. [177] Catechesi (11 febbraio 2015): L’Osservatore Romano, 12 febbraio 2015, p. 8. [178] Ibid. [179] Catechesi (8 aprile 2015): L’Osservatore Romano,9 aprile 2015, p. 8. [180] Ibid. [181] Cfr Conc. Ecum. Vat. II, Cost. Past. Gaudium et spes, 51: «Tutti sappiamo che la vita dell’uomo e il compito di trasmetterla non sono limitati agli orizzonti di questo mondo e non vi trovano né la loro piena dimensione, né il loro pieno senso, ma riguardano il destino eterno degli uomini». [182] Lettera alla Segretaria generale della Conferenza internazionale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite su popolazione e sviluppo (18 marzo 1994): Insegnamenti XVII, 1 (1994), 750-751. [183] Giovanni Paolo II, Catechesi (12 marzo 1980), 3: Insegnamenti III, 1 (1980), 543. [184] Ibid. [185] Discorso nell’incontro con le famiglie a Manila (16 gennaio 2015):AAS 107 (2015), 176. [186] Catechesi (11 febbraio 2015):L’Osservatore Romano, 12 febbraio 2015, p. 8. [187] Catechesi (14 ottobre 2015):L’Osservatore Romano, 15 ottobre 2015, p. 8. [188] Conferenza dei Vescovi Cattolici dell’Australia, Lett. past. Don’t Mess with Marriage (24 novembre 2015), 11. [189] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, 50. [190] Giovanni Paolo II, Catechesi (12 marzo 1980), 2: Insegnamenti III, 1 (1980), 542. [191] Cfr Id. Lett. ap. Mulieris dignitatem (15 agosto 1988), 30-31: AAS 80 (1988), 1727-1729. [192] Catechesi (7 gennaio 2015):L’Osservatore Romano, 7-8 gennaio 2015, p. 8. [193] Ibid. [194] Catechesi (28 gennaio 2015):L’Osservatore Romano, 29 gennaio 2015, p. 8. [195] Ibid. [196] Cfr Relatio finalis 2015, 28. [197] Catechesi (4 febbraio 2015):L’Osservatore Romano, 5 febbraio 2015, p. 8. [198] Ibid. [199] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, 50. [200] V Conferenza Generale dell’Episcopato Latino-americano e dei Caraibi, Documento di Aparecida (29 giugno 2007), 457. [201] Relatio finalis 2015, 65. [202] Ibid. [203] Discorso all’incontro con le famiglie a Manila (16 gennaio 2015):AAS 107 (2015), 178. [204] Mario Benedetti, “Te quiero”, in Poemas de otros, Buenos Aires 1993, 316. [205] Cfr Catechesi (16 settembre 2015):L’Osservatore Romano, 17 settembre 2015, p. 8. [206] Catechesi (7 ottobre 2015):L’Osservatore Romano, 8 ottobre 2015, p. 8. [207] Benedetto XVI, Lett. enc. Deus caritas est (25 dicembre 2005), 14: AAS 98 (2006), 228. [208] Cfr Relatio finalis 2015, 11. [209] Catechesi (18 marzo 2015):L’Osservatore Romano, 19 marzo 2015, p. 8. [210] Catechesi (11 febbraio 2015):L’Osservatore Romano, 12 febbraio 2015, p. 8. [211] Cfr Relatio finalis 2015, 17-18. [212] Catechesi (4 marzo 2015):L’Osservatore Romano, 5 marzo 2015, p. 8. [213] Catechesi (11 marzo 2015):L’Osservatore Romano, 12 marzo 2015, p. 8. [214] Esort. ap. Familiaris consortio (22 novembre 1981), 27: AAS 74 (1982), 113. [215] Giovanni Paolo II, Discorso ai partecipanti al Forum internazionale sull’invecchiamento attivo (5 settembre 1980), 5: Insegnamenti III, 2 (1980), 539. [216] Relatio finalis 2015, 18. [217] Catechesi (4 marzo 2015):L’Osservatore Romano, 5 marzo 2015), p. 8. [218] Ibid. [219] Discorso all’Incontro con gli anziani (28 settembre 2014):L’Osservatore Romano,29-30 settembre 2014, p. 7. [220] Catechesi (18 febbraio 2015):L’Osservatore Romano, 19 febbraio 2015, p. 8. [221] Ibid. [222] Ibid. [223] Giovanni Paolo II, Esort. ap. Familiaris consortio (22 novembre 1981), 18: AAS 74 (1982), 101. [224] Catechesi (7 ottobre 2015):L’Osservatore Romano, 8 ottobre 2015, p. 8. [225] Relatio Synodi 2014, 30. [226] Ibid., 31. [227] Relatio finalis 2015, 56. [228] Ibid., 89. [229] Relatio Synodi 2014, 32. [230] Ibid., 33. [231] Ibid., 38. [232] Relatio finalis 2015, 77. [233] Ibid., 61. [234] Ibid. [235] Ibid. [236] Ibid. [237] Cfr Relatio Synodi 2014, 26. [238] Ibid., 39. [239] Conferenza Episcopale Italiana. Commissione episcopale per la famiglia e la vita, Orientamenti pastorali sulla preparazione al matrimonio e alla famiglia (22 ottobre 2012), 1. [240] Ignazio di Loyola, Esercizi Spirituali, annotazione 2. [241] Ibid., annotazione 5. [242] Giovanni Paolo II, Catechesi (27 giugno 1984), 4: Insegnamenti VII, 1 (1984), 1941. [243] Catechesi (21 ottobre 2015): L’Osservatore Romano,22 ottobre 2015, p. 12. [244] Conferenza Episcopale del Kenya, Messaggio di Quaresima (18 febbraio 2015). [245] Cfr Pio XI, Lett. enc. Casti connubii (31 dicembre 1930): AAS 22 (1930), 583. [246] Giovanni Paolo II, Catechesi (4 luglio 1984), 3.6:Insegnamenti VII, 2 (1984), 9.10. [247] Relatio finalis 2015, 59. [248] Ibid., 63. [249] Cost. past. Gaudium et spes, 50. [250] Relatio finalis 2015, 63. [251] Relatio Synodi 2014, 40. [252] Ibid., 34. [253] Cantico spirituale B, XXV, 11. [254] Relatio Synodi 2014, 44. [255] Relatio finalis 2015, 81. [256] Ibid., 78. [257] Catechesi (24 giugno 2015): L’Osservatore Romano,25 giugno 2015, p. 8. [258] Giovanni Paolo II, Esort. ap. Familiaris consortio (22 novembre 1981), 83: AAS 74 (1982), 184. [259] Relatio Synodi 2014, 47. [260] Ibid., 50. [261] Cfr Catechesi (5 agosto 2015): L’Osservatore Romano, 6 agosto 2015, p. 7. [262] Relatio Synodi 2014, 51; cfr Relatio finalis 2015, 84. [263] Relatio Synodi 2014, 48. [264] Cfr Motu proprio Mitis Iudex Dominus Iesus (15 agosto 2015): L’Osservatore Romano, 9 settembre 2015, pp. 3-4; Motu proprio Mitis et Misericors Iesus (15 agosto 2015): L’Osservatore Romano, 9 settembre 2015, pp. 5-6. [265] Motu proprio Mitis Iudex Dominus Iesus (15 agosto 2015), preambolo, III: L’Osservatore Romano, 9 settembre 2015, p. 3. [266] Relatio finalis 2015, 82. [267] Relatio Synodi 2014, 47. [268] Catechesi (20 maggio 2015): L’Osservatore Romano, 21 maggio 2015, p. 8. [269] Catechesi (24 giugno 2015): L’Osservatore Romano,25 giugno 2015, p. 8. [270] Catechesi (5 agosto 2015): L’Osservatore Romano,6 agosto 2015, p. 7. [271] Relatio finalis 2015, 72. [272] Ibid., 73. [273] Ibid., 74. [274] Ibid., 75. [275] Cfr Bolla Misericordiae Vultus, 12: AAS 107 (2015), 409. [276] Catechismo della Chiesa Cattolica, 2358; cfr Relatio finalis 2015, 76. [277]Cfr ibid. [278] Relatio finalis 2015, 76; cfr Congregazione per la Dottrina della Fede, Considerazioni circa i progetti di riconoscimento legale delle unioni tra persone omosessuali (3 giugno 2003), 4. [279] Relatio finalis 2015, 80. [280] Cfr ibid., 20. [281] Catechesi (17 giugno 2015): L’Osservatore Romano, 18 giugno 2015, p. 8. [282] Relatio finalis 2015, 19. [283]Catechesi (17 giugno 2015): L’Osservatore Romano, 18 giugno 2015, p. 8. [284] Ibid. [285] Cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, 958. [286] Ibid. [287] Cfr Ultimi colloqui, “Quaderno giallo” di Madre Agnese, 17 luglio 1897: Opere complete, Città del Vaticano - Roma 1997, 1028. A tale proposito è significativa la testimonianza delle consorelle circa la promessa di santa Teresa che la sua partenza da questo mondo sarebbe stata «come una pioggia di rose» (ibid., 9 giugno, 991). [288] Giordano di Sassonia, Libellus de principiis Ordinis prædicatorum, 93: Monumenta Historica Sancti Patris Nostri Dominici, XVI, Roma 1935, 69. [289] Cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, 957. [290] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. Lumen gentium, 49. [291] Esort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 222: AAS 105 (2013), 1111. [292] Catechesi (20 maggio 2015): L’Osservatore Romano, 21 maggio 2015, p. 8. [293] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, 17. [294] Catechesi (30 settembre 2015): L’Osservatore Romano, 1 ottobre 2015, p. 8. [295] Catechesi (10 giugno 2015): L’Osservatore Romano, 11 giugno 2015, p. 8. [296] Cfr Relatio finalis 2015, 67. [297] Catechesi (20 maggio 2015): L’Osservatore Romano, 21 maggio 2015, p. 8. [298] Catechesi (9 settembre 2015): L’Osservatore Romano, 10 settembre 2015, p. 8. [299] Relatio finalis 2015, 68. [300] Ibid., 58. [301] Dich. Gravissimum educationis, 1. [302] Relatio finalis 2015, 56. [303] Erich Fromm, The Art of Loving, New York 1956, p. 54 (trad. it.: L’arte di amare, Milano 1978, 72-73). [304] Lett. enc. Laudato siʼ (24 maggio 2015), 155. [305] Catechesi (15 aprile 2015): L´Osservatore Romano, 16 aprile 2015, p. 8. [306] Cfr Relatio finalis 2015, 13-14. [307] De sancta virginitate, 7, 7: PL 40, 400. [308] Catechesi (26 agosto 2015): L´Osservatore Romano, 27 agosto 2015, p. 8. [309] Relatio finalis 2015, 89. [310] Ibid., 93. [311] Relatio Synodi 2014, 24. [312] Ibid., 25. [313] Ibid., 28. [314] Cfr ibid., 41.43; Relatio finalis 2015, 70. [315] Relatio Synodi 2014, 27. [316] Ibid., 26. [317] Ibid., 41. [318] Ibid. [319] Relatio finalis 2015, 71. [320] Cfr ibid. [321] Relatio Synodi 2014, 42. [322] Ibid., 43. [323] Esort. ap. Familiaris consortio (22 novembre 1981), 34: AAS 74 (1982), 123. [324] Ibid., 9: 90. [325] Cfr Catechesi (24 giugno 2015): L’Osservatore Romano, 25 giugno 2015, p. 8. [326] Omelia durante l’Eucaristia celebrata con i nuovi cardinali (15 febbraio 2015): AAS 107 (2015), 257. [327] Relatio finalis 2015, 51. [328] Relatio Synodi 2014, 25. [329] Giovanni Paolo II, Esort. ap. Familiaris consortio (22 novembre 1981), 84: AAS 74 (1982), 186. In queste situazioni, molti, conoscendo e accettando la possibilità di convivere “come fratello e sorella” che la Chiesa offre loro, rilevano che, se mancano alcune espressioni di intimità, «non è raro che la fedeltà sia messa in pericolo e possa venir compromesso il bene dei figli» (Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, 51). [330] Giovanni Paolo II, Esort. ap. Familiaris consortio (22 novembre 1981), 84: AAS 74 (1982), 186. [331] Relatio Synodi 2014, 26. [332] Cfr ibid., 45. [333] Benedetto XVI, Discorso al VII Incontro Mondiale delle Famiglie, Milano (2 giugno 2012), risposta 5: Insegnamenti VIII, 1 (2012), 691. [334] Relatio finalis 2015, 84. [335] Ibid., 51. [336] Nemmeno per quanto riguarda la disciplina sacramentale, dal momento che il discernimento può riconoscere che in una situazione particolare non c’è colpa grave. Qui si applica quanto ho affermato in un altro documento: cfr Esort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 44.47: AAS 105 (2013), 1038-1040. [337] Relatio finalis 2015, 85. [338] Ibid., 86. [339] Giovanni Paolo II, Esort. ap. Familiaris consortio (22 novembre 1981), 33: AAS 74 (1982), 121. [340] Relatio finalis 2015, 51. [341] Cfr Summa Theologiae I-II, q. 65, a. 3, ad 2; De malo, q. 2, a. 2. [342] Ibid., ad 3. [343] N. 1735. [344] Cfr ibid., 2352; Congregazione per la Dottrina della Fede, Dich. Iura et bona sull’eutanasia (5 maggio 1980), II: AAS 72 (1980), 546. Giovanni Paolo II, criticando la categoria della “opzione fondamentale”, riconosceva che «senza dubbio si possono dare situazioni molto complesse e oscure sotto l'aspetto psicologico, che influiscono sulla imputabilità soggettiva del peccatore» (Esort. ap. Reconciliatio et paenitentia [2 dicembre 1984], 17: AAS 77 [1985], 223). [345] Cfr Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi, Dichiarazione sull’ammissibilità alla Comunione dei divorziati risposati (24 giugno 2000), 2. [346] Relatio finalis 2015, 85. [347] Summa Theologiae I-II, q. 94, art. 4. [348] Riferendosi alla conoscenza generale della norma e alla conoscenza particolare del discernimento pratico, san Tommaso arriva a dire che «se non vi è che una sola delle due conoscenze, è preferibile che questa sia la conoscenza della realtà particolare, che si avvicina maggiormente all’agire» (Sententia libri Ethicorum, VI, 6 [ed. Leonina, t. XLVII, 354]). [349] Discorso a conclusione della XIV Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi (24 ottobre 2015): L’Osservatore Romano,26-27 ottobre 2015, p. 13. [350] In cerca di un’etica universale: nuovo sguardo sulla legge naturale (2009), 59. [351] In certi casi, potrebbe essere anche l’aiuto dei Sacramenti. Per questo, «ai sacerdoti ricordo che il confessionale non dev’essere una sala di tortura bensì il luogo della misericordia del Signore» (Esort. ap. Evangelii gaudium [24 novembre 2013], 44: AAS 105 [2013], 1038). Ugualmente segnalo che l’Eucaristia «non è un premio per i perfetti, ma un generoso rimedio e un alimento per i deboli» (ibid., 47: 1039). [352] Esort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 44: AAS 105 (2013), 1038-1039. [353] De catechizandis rudibus, I, 14, 22: PL 40, 327; cfr Esort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 193: AAS 105 (2013), 1101. [354] Relatio Synodi 2014, 26. [355] Esort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 44: AAS 105 (2013), 1038. [356] Ibid., 45: AAS 105 (2013), 1039. [357] Ibid., 270: AAS 105 (2013), 1128. [358] Bolla Misericordiae Vultus (11 aprile 2015), 12: AAS 107 (2015), 407. [359] Ibid., 5: 402. [360] Ibid., 9: 405. [361] Ibid., 10: 406. [362] Esort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 47: AAS 105 (2013), 1040. [363] Cfr ibid., 36-37: AAS 105 (2013), 1035. [364] Forse per scrupolo, nascosto dietro un grande desiderio di fedeltà alla verità, alcuni sacerdoti esigono dai penitenti un proposito di pentimento senza ombra alcuna, per cui la misericordia sfuma sotto la ricerca di una giustizia ipoteticamente pura. Per questo vale la pena di ricordare l’insegnamento di san Giovanni Paolo II, il quale affermò che la prevedibilità di una nuova caduta «non pregiudica l’autenticità del proposito» (Lettera al Card. William W. Baum in occasione del corso sul foro interno organizzato dalla Penitenzeria Apostolica [22 marzo 1996], 5: Insegnamenti XIX, 1 [1996], 589). [365] Commissione Teologica Internazionale, La speranza della salvezza per i bambini che muoiono senza battesimo (19 aprile 2007), 2. [366] Bolla Misericordiae Vultus (11 aprile 2015), 15: AAS 107 (2015), 409. [367] Decr. Apostolicam actuositatem, 4. [368] Cfr ibid. [369] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, 49. [370] Lett. enc. Deus caritas est (25 dicembre 2005), 16: AAS 98 (2006), 230. [371] Ibid., 39: AAS 98 (2006), 250. [372] Giovanni Paolo II, Esort. ap. postsin. Christifideles laici (30 dicembre 1988), 40: AAS 81 (1989), 468. [373] Ibid. [374] Relatio finalis 2015, 87. [375] Giovanni Paolo II, Esort. ap. postsin. Vita consecrata (25 marzo 1996), 42: AAS 88 (1996), 416. [376] Cfr Relatio finalis 2015, 87. [377] Cfr Giovanni Paolo II, Esort. ap. Familiaris consortio (22 novembre 1981), 57: AAS 74 (1982), 150. [378] Non dimentichiamo che l’Alleanza di Dio con il suo popolo si esprime come un fidanzamento (cfr Ez 16,8.60; Is 62,5; Os 2,21-22), e la nuova Alleanza si presenta anche come un matrimonio (cfr Ap 19,7; 21,2; Ef 5,25). [379] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. Lumen gentium, 11. [380] Giovanni Paolo II, Esort. ap. Familiaris consortio (22 novembre 1981), 11: AAS 74 (1982), 93. [381] Id., Omelia nella Santa Messa celebrata per le famiglie a Córdoba - Argentina (8 aprile 1987), 4: Insegnamenti X, 1 (1987), 1161-1162. [382] Cfr Gemeinsames Leben, München 1973, 18 (trad. it.: La vita comune, Brescia 1973, 46). [383] Conc. Ecum. Vat. II, Decr. Apostolicam actuositatem, 11. [384] Catechesi (10 giugno 2015): L’Osservatore Romano,(11 giugno 2015), p. 8. [385] Giovanni Paolo II, Esort. ap. Familiaris consortio (22 novembre 1981), 12: AAS 74 (1982), 93. [386] Discorso alla Festa delle Famiglie e veglia di preghiera, Filadelfia (26 settembre 2015): L’Osservatore Romano,28-29 settembre 2015, p. 6. [387] Gabriel Marcel, Homo viator. Prolégomènes à une métaphysique de l ´espérance, Paris 1944, 63. [388] Relatio finalis 2015, 88. [389] Cfr Giovanni Paolo II, Esort. ap. Familiaris consortio (22 novembre 1981), 44: AAS 74 (1982), 136. [390] Ibid., 49: AAS 74 (1982), 141. [391] Sugli aspetti sociali della famiglia, cfr Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, 248-254. © Copyright - Libreria Editrice Vaticana

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Dispensa del matrimonio rato e non consumato: procedimento grazioso.

Il matrimonio valido tra battezzati si dice solo rato se non si è completato con la consumazione. Per aversi consumazione del matrimonio è necessario che l'atto coniugale contempli la presenza di tre elementi: 
1) che sia intervenuto dopo la celebrazione del matrimonio; 
2) che sia di per sé idoneo alla generazione della prole; 
3) che sia un atto effettuato consapevolmente e liberamente da entrambi i coniugi. 

Quando si verifica l'inconsumazione (cioè quando manca uno dei requisiti suddetti), il matrimonio può essere sciolto dal Pontefice in presenza di giusta causa.

Mentre sul fatto dell'inconsumazione del matrimonio e sull'esistenza di una giusta causa giudica la Sede Apostolica, la concessione della dispensa è prerogativa esclusiva del Pontefice. La dispensa non è altro che un provvedimento di grazia, cioè una concessione accordata dal Pontefice in vista di un beneficio spirituale dei fedeli, espressa  in forma cd. graziosa, ossia senza esecutore, ricevendo la sua efficacia nel momento in cui il Pontefice accorda la grazia (e non quando l'interessato riceve la notificazione del provvedimento).

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Educazione religiosa e tutela del minore nella famiglia.

Tra i diritti e i doveri che discendono dal diritto di libertà religiosa rientra quello di educare i figli nella propria fede religiosa, purché rispettando le inclinazioni e la libertà degli stessi che, ancor prima della maggiore età, devono poter essere liberi di scegliere liberamente se e in cosa credere. L’importanza che tale diritto riveste è confermata dal fatto che, quando un regime politico ha voluto o vuole conculcare il diritto di libertà religiosa del popolo, uno dei principali strumenti utilizzati a tal fine è proprio la predisposizione di norme che limitano la libertà educativa dei genitori.

Per quanto riguarda l’Italia, l’art. 147 del codice civile prevede che i genitori debbano educare i figli tenendo conto delle loro capacità, inclinazione naturale ed aspirazioni. Questi criteri valgono anche per quanto riguarda l’educazione religiosa, tenendo presente quanto già evidenziato relativamente al fatto che i figli hanno il diritto di scegliere liberamente il proprio indirizzo religioso ancora prima del compimento del diciottesimo anno di età. Significativa, tra l’altro, è la citazione di provenienza giurisprudenziale (Trib. dei minorenni di Genova, sent. 9 Febbraio 1959), in base alla quale “la scelta della propria religione è una questione talmente delicata e personale che nessuno può e deve usare costringimenti per influenzarla e modificarla. Neppure ai genitori, quindi, è permesso usare mezzi coercitivi per indurrei figli a praticare e seguire una fede religiosa da essi non voluta”.

Un’ulteriore pronuncia giurisprudenziale rilevante il tale ambito, è senz’altro la più recente sentenza della Corte di Cassazione n° 9546 del 12 Giugno 2012, con cui era stato respinto il ricorso di una donna diventata testimone di Geova alla quale la Corte d’Appello di Firenze aveva categoricamente vietato di imporre al figlio minorenne il suo nuovo credo religioso. Con tale pronuncia, la Suprema Corte ha inteso stabilire il principio secondo cui è possibile imporre limiti alle scelte educative dei genitori, nel caso in cui tali scelte possano in qualche modo risultare turbative della personalità e del libero arbitrio dei minori. Tale posizione è in linea con la generale tendenza della giurisprudenza a diffidare e scoraggiare gli atteggiamenti estremisti dei genitori nel coinvolgere coattivamente i figli nel loro orientamento religioso.

A livello europeo, inoltre, la questione è regolata dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (Roma, 1950), la quale si occupa della materia in modo alquanto aperto e al contempo tassativo. La Convezione, infatti, tutela l'inderogabile diritto dell'individuo alla libertà di pensiero, coscienza e religione garantendo la tassatività dei limiti posti dagli Stati aderenti, circoscritti alle sole esigenze di pubblica sicurezza, protezione dell'ordine, salute o morale pubblica, protezione dei diritti e libertà altrui. In relazione, poi, al tema principale qui trattato, la Convenzione detta disposizioni anche relativamente a ipotesi di contrasti tra i genitori circa la scelta religiosa educativa più idonea alla formazione e allo sviluppo della coscienza morale del minore. A tal proposito, l'art. 9 della Convenzione riconosce al genitore, seppure nei limiti già citati, la libertà di manifestare la propria religione mediante il culto, l'insegnamento, le pratiche e l'osservanza dei riti nonché quella di modificare il proprio credo. La libertà – diritto, del genitore di educare il figlio nel rispetto delle proprie convinzioni religiose è riconosciuto, anche, dagli artt. 29 e 30 Cost., seppure contemperato dall'esigenza di dover tenere conto della inclinazione naturale e aspirazione del minore, come prescritto dal già citato art. 147 c.c.

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Il "Mitis Iudex Dominus Iesus" e il "Mitis et misericors Iesus": riforma del processo canonico per le cause di dichiarazione di nullità del matrimonio.

Il Papa con due lettere in forma di «Motu Proprio» ha riformato il processo canonico per quanto riguarda le cause di dichiarazione di nullità del matrimonio, sia nel codice di diritto canonico che nel codice dei canoni delle Chiese orientali.

Le due lettere di papa Francesco si intitolano «Mitis Iudex Dominus Iesus», quella riguardante il codice di diritto canonico, e «Mitis et misericors Iesus», quella riguardante il codice dei canoni delle Chiese orientali, trattano della «riforma del processo canonico per le cause di dichiarazione di nullità del matrimonio».

Tra gli aspetti più importanti della riforma vi è la modifica della composizione dei Tribunali, con il Vescovo diocesano che assume maggiori responsabilità come giudice della sua chiesa particolare. Nei tribunali collegiali, mantenuto che il preside deve essere chierico, si apre alla possibilità della presenza di due giudici laici nel collegio. Ove non sia possibile costituire un Tribunale collegiale, la causa può essere decisa anche da un giudice unico chierico.

Altra novità importante è l’abolizione del principio della doppia sentenza conforme: non sarà più obbligatorio appellare ex officio a un secondo grado e potrà diventare esecutiva direttamente la sentenza di primo (e unico) grado, a meno che la parte soccombente non vorrà proporre appello.

Istituito anche un rito speciale molto più celere (processus brevior), quando la causa è proposta congiuntamente da entrambe le parti, e le prove sono chiare ed evidenti a favore della nullità del matrimonio.

Per meglo comprendere qui di seguiti l’estratto del mitis Iudex che specifica la procedura in ambito del processo brevior.

“Art. 5 - Il processo matrimoniale più breve davanti al Vescovo

Can. 1683. Allo stesso Vescovo diocesano compete giudicare la cause di nullità del matrimonio con il processo più breve ogniqualvolta:

1° la domanda sia proposta da entrambi i coniugi o da uno di essi, col consenso dell’altro;

2° ricorrano circostanze di fatti e di persone, sostenute da testimonianze o documenti, che non richiedano una inchiesta o una istruzione più accurata, e rendano manifesta la nullità.

Can. 1684. Il libello con cui si introduce il processo più breve, oltre agli elementi elencati nel can. 1504, deve: 1° esporre brevemente, integralmente e chiaramente i fatti su cui si fonda la domanda; 2° indicare le prove, che possano essere immediatamente raccolte dal giudice; 3° esibire in allegato i documenti su cui si fonda la domanda.

Can. 1685. Il Vicario giudiziale, nello stesso decreto con cui determina la formula del dubbio nomini l’istruttore e l’assessore e citi per la sessione, da celebrarsi a norma del can. 1686 non oltre trenta giorni, tutti coloro che devono parteciparvi.

Can. 1686. L’istruttore, per quanto possibile, raccolga le prove in una sola sessione e fissi il termine di quindici giorni per la presentazione delle osservazioni in favore del vincolo e delle difese di parte, se ve ne siano.

Can. 1687 § 1. Ricevuti gli atti, il Vescovo diocesano, consultatosi con l’istruttore e l’assessore, vagliate le osservazioni del difensore del vincolo e, se vi siano, le difese delle parti, se raggiunge la certezza morale sulla nullità del matrimonio, emani la sentenza. Altrimenti rimetta la causa al processo ordinario.

§ 2. Il testo integrale della sentenza, con la motivazione, sia notificato al più presto alle parti.

§ 3. Contro la sentenza del Vescovo si dà appello al Metropolita o alla Rota Romana; se la sentenza è stata emessa dal Metropolita, si dà appello al suffraganeo più anziano; e contro la sentenza di altro Vescovo che non ha un’autorità superiore sotto il Romano Pontefice, si dà appello al Vescovo da esso stabilmente designato.

§ 4. Se l’appello evidentemente appare meramente dilatorio, il Metropolita o il Vescovo di cui al § 3, o il Decano della Rota Romana, lo rigetti a limine con un suo decreto; se invece l’appello è ammesso, si rimetta la causa all’esame ordinario di secondo grado.”

“Art. 5 - De processu matrimoniali breviore coram Episcopo

Can. 1683. Ipsi Episcopo dioecesano competit iudicare causas de matrimonii nullitate processu breviore quoties:

 petitio ab utroque coniuge vel ab alterutro, altero consentiente, proponatur;

 recurrant rerum personarumque adiuncta, testimoniis vel instrumentis suffulta, quae accuratiorem disquisitionem aut investigationem non exigant, et nullitatem manifestam reddant.

Can. 1684. Libellus quo processus brevior introducitur, praeter ea quae in can. 1504 recensentur, debet: 1° facta quibus petitio innititur breviter, integre et perspicue exponere; 2° probationes, quae statim a iudice colligi possint, indicare; 3° documenta quibus petitio innititur in adnexo exhibere.

Can. 1685. Vicarius iudicialis, eodem decreto quo dubii formulam determinat, instructore et assessore nominatis, ad sessionem non ultra triginta dies iuxta can. 1686 celebrandam omnes citet qui in ea interesse debent.

Can. 1686. Instructor una sessione, quatenus fieri possit, probationes colligat et terminum quindecim dierum statuat ad animadversiones pro vinculo et defensiones pro partibus, si quae habeantur, exhibendas.

Can. 1687 § 1. Actis receptis, Episcopus dioecesanus, collatis consiliis cum instructore et assessore, perpensisque animadversionibus defensoris vinculi et, si quae habeantur, defensionibus partium, si moralem certitudinem de matrimonii nullitate adipiscitur, sententiam ferat. Secus causam ad ordinarium tramitem remittat.

§ 2. Integer sententiae textus, motivis expressis, quam citius partibus notificetur.

§ 3. Adversus sententiam Episcopi appellatio datur ad Metropolitam vel ad Rotam Romanam; si autem sententia ab ipso Metropolita lata sit, appellatio datur ad antiquiorem suffraganeum; et adversus sententiam alius Episcopi qui auctoritatem superiorem infra Romanum Pontificem non habet, appellatio datur ad Episcopum ab eodem stabiliter selectum.

§ 4. Si appellatio mere dilatoria evidenter appareat, Metropolita vel Episcopus de quo in § 3, vel Decanus Rotae Romanae, eam a limine decreto suo reiciat; si autem admissa fuerit, causa ad ordinarium tramitem in altero gradu remittatur”.

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Lettera Apostolica in forma di Motu Proprio che istituisce il Pontificio Istituto Teologico Giovanni Paolo II per le Scienze del Matrimonio e della Famiglia (8 settembre 2017)

LETTERA APOSTOLICA
IN FORMA DI MOTU PROPRIO

DEL SOMMO PONTEFICE 
FRANCESCO

SUMMA FAMILIAE CURA

che istituisce il
Pontificio Istituto Teologico Giovanni Paolo II
per le Scienze del Matrimonio e della Famiglia

 

Animato dalla più grande cura per la famiglia, san Giovanni Paolo II, dando seguito al Sinodo dei Vescovi del 1980 sulla famiglia e all’Esortazione apostolica post-sinodale Familiaris consortio, del 1981, con la Costituzione apostolica Magnum Matrimonii sacramentum conferì stabile forma giuridica al Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per Studi su Matrimonio e Famiglia, operante presso la Pontificia Università Lateranense. Da allora esso ha sviluppato un proficuo lavoro di approfondimento teologico e di formazione pastorale sia nella sua Sede Centrale di Roma, sia nelle Sezioni extra-urbane, ormai presenti in tutti i continenti.

Più di recente, la Chiesa ha compiuto un ulteriore percorso sinodale mettendo nuovamente al centro dell’attenzione la realtà del matrimonio e della famiglia, in primo luogo nell’Assemblea straordinaria del 2014, dedicata a “Le sfide pastorali della famiglia nel contesto dell’evangelizzazione”, e poi in quella ordinaria del 2015 su “La vocazione e la missione della famiglia nella Chiesa e nel mondo”. Compimento di questo intenso cammino è stata l’Esortazione apostolica post-sinodale Amoris laetitia, pubblicata il 19 marzo 2016.

Questa stagione sinodale ha portato la Chiesa a una rinnovata consapevolezza del vangelo della famiglia e delle nuove sfide pastorali a cui la comunità cristiana è chiamata a rispondere. La centralità della famiglia nei percorsi di “conversione pastorale” delle nostre comunità e di “trasformazione missionaria della Chiesa” esige che – anche a livello di formazione accademica – nella riflessione sul matrimonio e sulla famiglia " non vengano mai meno la prospettiva pastorale e l’attenzione alle ferite dell’umanità. Se un fruttuoso approfondimento della teologia pastorale non può essere condotto trascurando il peculiare profilo ecclesiale della famiglia, d’altro canto, non sfugge alla stessa sensibilità pastorale della Chiesa il prezioso apporto del pensiero e della riflessione che indagano, nel modo più approfondito e rigoroso, la verità della rivelazione e la sapienza della tradizione della fede, in vista della sua migliore intelligenza nel tempo presente. «Il bene della famiglia è decisivo per il futuro del mondo e della Chiesa. […] E’ sano prestare attenzione alla realtà concreta, perché le richieste e gli appelli dello Spirito risuonano anche negli stessi avvenimenti della storia, attraverso i quali la Chiesa può essere guidata ad una intelligenza più profonda dell’inesauribile mistero del matrimonio e della famiglia».

Il cambiamento antropologico-culturale, che influenza oggi tutti gli aspetti della vita e richiede un approccio analitico e diversificato, non ci consente di limitarci a pratiche della pastorale e della missione che riflettono forme e modelli del passato. Dobbiamo essere interpreti consapevoli e appassionati della sapienza della fede in un contesto nel quale gli individui sono meno sostenuti che in passato dalle strutture sociali, nella loro vita affettiva e familiare. Nel limpido proposito di rimanere fedeli all’insegnamento di Cristo, dobbiamo dunque guardare, con intelletto d’amore e con saggio realismo, alla realtà della famiglia, oggi, in tutta la sua complessità, nelle sue luci e nelle sue ombre.

Per queste ragioni ho ritenuto opportuno dare un nuovo assetto giuridico all’Istituto Giovanni Paolo II, affinché «la lungimirante intuizione di San Giovanni Paolo II, che ha fortemente voluto questa istituzione accademica, oggi [possa] essere ancora meglio riconosciuta e apprezzata nella sua fecondità e attualità». Pertanto, sono venuto alla deliberazione di istituire un Istituto Teologico per le Scienze del Matrimonio e della Famiglia, ampliandone il campo di interesse, sia in ordine alle nuove dimensioni del compito pastorale e della missione ecclesiale, sia in riferimento agli sviluppi delle scienze umane e della cultura antropologica in un campo così fondamentale per la cultura della vita.

Art. 1

Con il presente Motu proprio istituisco il Pontificio Istituto Teologico Giovanni Paolo II per le Scienze del Matrimonio e della Famiglia, che, legato alla Pontificia Università Lateranense, succede, sostituendolo, al Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per Studi su Matrimonio e Famiglia, stabilito dalla Costituzione apostolica Magnum Matrimonii sacramentum, il quale pertanto, viene a cessare. Sarà, comunque, doveroso che l’originaria ispirazione che diede vita al cessato Istituto per Studi su Matrimonio e Famiglia continui a fecondare il più vasto campo di impegno del nuovo Istituto Teologico, contribuendo efficacemente a renderlo pienamente corrispondente alle odierne esigenze della missione pastorale della Chiesa.

Art. 2

Il nuovo Istituto costituirà, nell’ambito delle istituzioni pontificie, un centro accademico di riferimento, al servizio della missione della Chiesa universale, nel campo delle scienze che riguardano il matrimonio e la famiglia e riguardo ai temi connessi con la fondamentale alleanza dell’uomo e della donna per la cura della generazione e del creato.

Art. 3

Lo speciale rapporto del nuovo Istituto Teologico con il ministero e il magistero della Santa Sede sarà ulteriormente avvalorato dalla privilegiata relazione che esso stabilirà, nelle forme che saranno reciprocamente concordate, con la Congregazione per l’Educazione Cattolica, con il Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita e con la Pontificia Accademia per la Vita.

Art. 4

§ 1. Il Pontificio Istituto Teologico, così rinnovato, adeguerà le proprie strutture e disporrà gli strumenti necessari – cattedre, docenti, programmi, personale amministrativo – per realizzare la missione scientifica ed ecclesiale che gli è assegnata.

§ 2. Le autorità accademiche dell’Istituto Teologico sono il Gran Cancelliere, il Preside e il Consiglio dell’Istituto.

§ 3. L’Istituto Teologico ha la facoltà di conferire iure proprio ai suoi studenti i seguenti gradi accademici: il Dottorato in Scienze su Matrimonio e Famiglia; la Licenza in Scienze su Matrimonio e Famiglia; il Diploma in Scienze su Matrimonio e Famiglia.

Art. 5

Quanto stabilito dal presente Motu proprio sarà approfondito e definito negli Statuti propri, approvati dalla Santa Sede. In modo particolare, si provvederà a individuare le modalità più adatte a favorire la cooperazione e il confronto, nell’ambito della didattica e della ricerca, tra le autorità dell’Istituto Teologico e quelle della Pontificia Università Lateranense.

Art. 6

Fino all’approvazione dei nuovi Statuti, l’Istituto Teologico sarà temporaneamente retto dalle norme statutarie finora vigenti nell’Istituto Giovanni Paolo II per Studi su Matrimonio e Famiglia, ivi comprese la strutturazione in Sezioni e le relative norme, nella misura in cui non si oppongano al presente Motu proprio.

Tutto ciò che ho deliberato con questa Lettera apostolica in forma di Motu proprio, ordino che sia osservato in tutte le sue parti, nonostante qualsiasi cosa contraria, anche se degna di particolare menzione, e stabilisco che venga promulgato mediante la pubblicazione sul quotidiano L'Osservatore Romano, entrando in vigore il giorno della promulgazione, e che, successivamente, sia inserito in Acta Apostolicae Sedis.

Dato a Roma, presso San Pietro, l’8 settembre, Festa della Natività della B.V. Maria, dell’anno 2017, quinto del Nostro Pontificato

Francesco

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